CAPITOLO 7
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Il Regno delle Tenebre, l'Inferno (la Geenna?), i miracoli
Il Regno delle Tenebre: il «Male».
Sinora le nostre ipotesi cosmologiche e teologiche, la nostra metafisica monistico religiosa, sono restare aliene, orfane della concezione di un principio sovrannaturale negativo, antitetico alla divinità creatrice: il Signore del «Male». Satana, la sua schiera immonda di demoni, sono sinora sfuggiti alle nostre visioni, formulazioni, riflessioni e conclusioni.
In questo brano, più che negli altri, ci si dovranno concedere vezzi metafisici a profusione: il tema è forse il più lontano e tetragono sia ai propri gusti e principi filosofici nonché ad ogni più lasso proposito di concretezza, di possibilità di verifica e di conferma empirica. Paradossalmente, sembra quasi che ogni ogni remora epistemologica sia in questo caso infondata vista la palese collocazione metafisica del discorso. Ma se si vuol andare fino in fondo negli iniziali propositi bisogna necessariamente affrontare per le corna questo satanasso...
Di conseguenza ci si dovranno concedere affermazioni, stili espositivi e modalità analitiche del tutto prossime a quel linguaggio interpretativo solitamente retaggio della teologia classica, del metodo dottrinale più rigido. Si chiede venia, ma se di questi argomenti si vuol parlare, bisogna saper fare il «lavoro sporco» e «scendere nell'arena». Si spera di farlo adducendo comunque il più possibile riscontri e valutazioni comprensibili e chiare, univoche. Eppure questo, formalmente parlando, non è un problema: si è già sottolineato come ci si ponga una meta sì metafisica ma – e questo è fondamentale – sempre e comunque procedendo da una posizione agnostica. Dunque il tutto sarà condotto, accogliendo la sfida di condurre un'analisi eminentemente intellettual filosofica di argomenti teologici, al solo fine, non lo si ripeterà mai abbastanza, di proporre una «simulazione esegetica» tesa a porsi come mera ma alternativa alle ortodosse teoetotomie.
Quel che per molti potrebbe dunque costituire una degenerazione epistemologica è da intendere come un rischio calcolato, un voler affrontare e combattere «anche e soprattutto» su «loro» campo i fautori delle più immonde ideologie che mai abbiano oppresso, proprio per il «loro» infausto ed infondato operato, il genere umano, cercando di sottrarre «loro» la libertà di gestire senza remora la sfera forse più «intima ed umana» dell'«Uomo».
Riprendendo comunque il discorso in essere, e spostando di nuovo l'obbiettivo del famoso detto di Laplace, possiamo affermare che nell'attuale tentativo interpretativo «sinora non si è avuto bisogno…», per conservare intatta una carica metafisico teologica ed escatologica, per salvaguardare una giustificazione ed un senso ed un contenuto metafisico salvifico alla missione di Gesù, inteso come manifestazione fisica della divinità, Dio, «… di contemplare l'ipotesi» del maligno, del principe del Male, di questa maligna divinità personale. Estendere quest'approccio non può che essere positivo, nel nostro tentativo di affossare queste tragiche e castranti fantasie pseudo-teologiche.
Eppure questa figura, e tutto il suo indegno seguito, rappresentano un fondamento insostituibile nell'economia formale e nella struttura soteriologica delle dottrine teoetotomistiche sviluppatesi sulla tradizione letteraria vetero testamentaria e neo testamentaria. Tutte le dottrine a fondamento biblico vertono su tale figura antagonistica al Dio creatore, nella giustificazione della corruzione della realtà creata, dell'uomo, in funzione del suo destino.1
Questo funesto «avversario» è inteso come una presenza spirituale, personificata, reale, che istigherebbe l'uomo alla disobbedienza e che con le sue tentazioni, malefici e possessioni lo allontanerebbe dalla santità del suo Dio, dal suo amore e dalla salvezza, per trascinarlo nella dannazione della sua ardente fornace eterna. Il problema teologico dell'esistenza del «Male», di Satana, della persistenza della sua azione maligna sull'uomo, rappresenta una delle spine nel fianco di tutte le dottrine dualistico teoetotomistiche le quali, ad onta delle esplicite affermazioni relative alla sua esistenza, rappresenta un problema non ancora pienamente e soddisfacentemente risolto sotto il profilo filosofico teologico. È chiaro come dottrinalmente questo satanasso rappresenti un formidabile fondamento dei loro edifici teologici, costituendo la consona e complementare opposizione spirituale al principio del «Bene» nella dicotomia teologica sostenuta dagli stessi.
Ed è altresì evidente il deterrente psicologico che questa figura, la sua azione e la sua dimora, le sue fiamme terrificanti, abbiano rappresentato nella prassi delle stesse. L'affermazione di questa sinistra realtà, che sovrasterebbe l'uomo, che ne inficerebbe la salvezza, è assolutamente imprescindibile nell'economia escatologica di tali dottrine. Un diavolo senza inferno, senza la sua prerogativa d'intaccare il cuore dell'uomo, senza il suo potere di istigare l'individuo al «Male», ad aborrire e smarrire il «Bene», a rifiutare ed opporsi a Dio nei modi più subdoli ed impercettibili conducendolo l'uomo alla dannazione, sarebbe nulla più che un burlone, che si diverte a fare scherzi ai cherubini. Con quel suo forcone incandescente, sulla bocca della sua fornace puzzolente, nell'attimo terrificante in cui l'individuo crede di riconoscere su di sé la sua presunta presenza, la sua possessione, il suo potere... mette tutti sul chi va là. L'Inferno ed il suo sinistro Signore, variamente concepiti nelle forme e nelle azioni della fantasia popolare ad esorcizzare quasi l'orrore ed il ribrezzo che ispirano, rappresentano, come si accennava, un formidabile problema per tutte le dottrine teoetotomistiche, in particolare quelle erroneamente rifacentesi alla letteratura biblica.
Come risolvere la responsabilità divina della stessa presenza di tale entità? Come spiegare il fatto che tale entità negativa non sia stata eliminata ontologicamente dal creato nell'attimo stesso della sua comparsa dall'onnipotenza dell'unico ente creatore, anziché permetterle tutta quella protervie di scandali, menzogne ed azioni maligne nei confronti dell'uomo?
Come si può condannare allora un uomo, scagliandolo in un simile luogo di terrore e sofferenze, per le eventuali scelleratezze istigate dunque dal maligno nel corso della sua vita terrena, attimo di infinita nullità rispetto all'eternità di tale supplizio?
Come può un Dio che predica di amare i propri nemici, di «perdonare settanta volte sette» chi ci abbia eventualmente squartati, mutilati, violentati, arsi vivi, frodati, offesi, umiliati, perseguitati, sicuramente istigati dal demonio come si insegna teologicamente, e giungere a comminare simili pene ed orrori?
Per quanto la giustizia umana sia fallace agli occhi di Gesù, tipi come Erode, Stalin, Hitler, ed assieme a questi tutti i peggiori, efferati e sadici carnefici, torturatori, stupratori, pedofili, assassini e scellerati aguzzini, se la sarebbero cavata al massimo con qualche migliaio di anni di pena. Qui no, qui si prospetta l'eternità! Un'eternità di felicità è, forse, sopportabile; un'eternità di dolore ed orrore, di sofferenze ed umiliazioni no! È decisamente troppo.
Dov'è l'amore e la comprensione tanto decantate? Un inferno vuoto? Certo, un Dio può permettersi anche certi sprechi, tali sperperi, ma cosa se ne farebbe allora di un luogo così malsano? È forse tutto un bluff?
«La gatta è da pelare e graffia assai». A livello «ufficiale» tale imbarazzo è palese, e la questione è presa con le molle e fumosità: complicate, dotte e professionali spiegazioni e disquisizioni vengono proposte dagli addetti ai lavori, ma chi non abbia fatto un corso superiore di teologia e demonologia, rimane come allocchi dinnanzi a queste, e non gli resta che rivolgersi umilmente, al proprio curato che, in termini semplici ed efficaci... lo metterà al corrente dell'amenità del luogo e delle negative, criminali virtù del tenebroso Principe del Male.
Come è calzante F. Nietzsche: «Quando non si capisce, si diventa solenni. Ciò ha giovato alla morale».2
Si comprende di aver affrontato questi temi in modo sarcastico e dissacrante ma non per questo non si tiene in debito conto il loro risalto dottrinale nei sistemi dualistico teoetotomistici e non meno l'impatto psicologico e culturale di questi concetti sull'individuo, in particolare su di un individuo inerme, sprovvisto degli opportuni mezzi e capacità di analisi culturali come potrebbe essere un bambino nel pieno del suo sviluppo psichico infantile ed adolescenziale.
Un ricordo personale a proposito: da piccolo mi capitò tra le mani un libro sui pittori fiamminghi, tra i quali il Bruegel. Dipinti surrealistici come «Il trionfo della morte», le tavole della sua opera sui «Sette vizi capitali» quali «L'accidia», «La lussuria», con le loro grottesche figure, con quei mostri sinistri, animaleschi, mi stregavano e nel contempo mi riempivano d'angoscia e ribrezzo. Ogni volta che tornavo ad aprire quel libro era come se uno stuolo immondo di scheletrici, sghignazzanti cavalieri, di mostri, gnomi e pallidi peccatori saltassero da quelle pagine sul mio grembo, penetrando sotto i miei vestiti terrorizzandomi. E dopo aver richiuso quell'immonda fonte di minuscoli esseri mostruosi quel ribrezzo, svanendo, lasciava spazio alla sensazione di una «presenza» sinistra, meno sensibile ed immediata, più subdola, più opprimente, cui le preghiere della sera, gli archi magici del segno della Croce rappresentavano l'unico, incerto baluardo, l'unica forza in grado di scacciare lontano dalla coscienza, dall'immaginazione, là, nel buio della notte, quell'alito sinistro, quello sguardo minaccioso, quello spirito freddo, burrascoso, tagliente ed estraneo.
Quanti ferventi credenti possono onestamente affermare e dimostrare a se stessi, agli altri, che la loro fede, le loro scelte ed azioni non siano altro che prodotti di una razionalizzazione di un'inconscia paura della loro dannazione, materializzazione di una corsa alla «salvezza sovrannaturale», che nasconda loro il terrore di essere ghermiti da quello spirito immondo, di essere gettati tra le fiamme dell'inferno? Che il loro «amore verso Dio ed il prossimo» non sia, molto meschinamente, altro che una sorta d'investimento, un'inconscia razionalizzazione in un'etica fondata solamente sulla paura di far parte della possibile schiera dei condannati alle pene dell'inferno, dei dannati, dei «caproni separati dagli armenti» nel Giudizio finale?
Chi può oggettivamente, obiettivamente e perfettamente sostenere che il proprio «virtuoso» comportamento non sia motivato altro che dal desiderio di evitare quell'orrore, più che dalla loro autentica volontà di amare? Chi potrebbe negare che questa profonda, inconscia motivazione del loro presunto «amore per Dio», non faccia il paio con quella dinamica psichica, evidenziata dalla psicologia di Freud in particolare,3 e di cui si è già fatto ampio riferimento, in cui sulla divinità viene proiettata la figura infantile del «padre», della sua autorità morale, a cui affidare la propria sicurezza?
È possibile contestare l'esistenza di un'inconscia dinamica tramite la quale l'individuo tesse una relazione di masochistica sudditanza etica che castra e penalizza la sua esistenza, che, tarpando le ali alla sua ontologica libertà, gli fa irrimediabilmente alienare e sfuggire la figura e dimensione di Uomo?
Chi tra costoro può ancora «perfettamente» negare di star soltanto cercando di ovviare alla convinzione profonda di essere contaminato dall'orrenda macchia del peccato originale, di voler solo sfuggire da quella dissacrante condizione di peccaminosità e perdizione cui, nascendo al mondo suo malgrado, deve far fronte? Si riportano a tal pro i contenuti di un'orazione consigliata per il sacramento della confessione dalla Chiesa Cattolica: «Signore, io spero che donandovi tutto a me in questo divin sacramento mi userete misericordia e mi concederete tutte le grazie necessarie per la mia eterna salute». Come si vede abbiamo qui il movente, il mezzo e la finalità di tutta la dinamica. Ci si attende, «si spera», che un dato gesto, il «donarsi», conduca l'interlocutore, l'altro, «Dio», ad un gesto, l'«usare» misericordia per concedere gli strumenti per ottenere un fine che è a cuore al soggetto iniziale. Questa dinamica è descrivibile con un unico, chiaro, termine: desiderio di salvare se stesso, ottenere la cosa piàù preziosa che il soggetto possa concepire: «salvare la propria vita». In genere, questo comportamento di dare per avere si chiama «calcolo», «permuta», «do ut des», «mercanteggiare», ergo semplice, sano «egoismo»...
Nulla di eccezionale: ciascuno può addurre altrettanti ed esaurienti testimonianze... Ma non le si chiami in modo diverso per favore.
Ancora: alcuni passi tratti da un opuscolo dedicato alla «consacrazione della Madonna di Fatima» (con tanto di Imprimatur): «Ve ne preghiamo, Madre nostra, otteneteci le grazie necessarie per compiere queste promesse che Vi abbiamo ora fatte, affinché con questa nostra devozione al Vostro Cuore Immacolato, possiamo nell'ora della morte, conseguire col Vostro aiuto la salvezza delle nostre anime».
No, non è blasfemia dare a ciascuna cosa il suo vero nome.
Particolarmente esauriente risulta una pubblicazione «La Madonna ti parla» edita a cura dell'Apostolato Mariano «Mater Divinae Gratiae» di Torino – debitamente corredato d'Imprimatur – dove si raggiungono livelli di efferata intimidazione e manipolazione psichica.
Così è infatti «testualmente riportato» nella seconda pagina di copertina: «Potresti essere uno dei 250.000 che devono morire oggi. E allora?... il signor X va a letto in peccato mortale..., non si pente dei suoi peccati... e muore senza riprendere coscienza. Dove si sveglia? ALL'INFERNO!».
Più sotto si consiglia al lettore dell'opuscolo di confidare, malgrado tutto, sulla misericordia e bontà divina ma… a scanso di equivoci, di recitare dopo ogni peccato l'«Atto di Dolore» perfetto che «cancella all'istante» i peccati mortali – riportato nella 3 a pagina di copertina – e poi seguita ammonendo: «Non andare a riposare senza aver recitato l'«Atto di Dolore»... potresti svegliarti... chissà dove... chissà dove... chissà dove...» (testuale! n.d.a.).
Ogni eventuale commento è superfluo; si tenga inoltre presente il livello culturale proprio del prototipo di lettore a cui sono dedicate di solito tali banali, ma non per questo inefficaci, criminali pubblicazioni. Ed ancora; dalla «Madonna del Suffragio» n° 5 del 01.06.82, pag. 8; in questa si riporta un'inserzione a cura della congregazione stessa rivolta alla proposta di un'iscrizione di £. 5.000, tale da dare agli iscritti la possibilità di godere di vari benefici che sarebbero: celebrazione di una S. Messa dedicata agli stessi ogni lunedì, recita giornaliera del rosario, godimento di indulgenze parziali e plenarie ad essi dedicate e rivolte ad assicurare la materna protezione di Maria; rilascio di un attestato d'iscrizione.
Inoltre con la «modica» cifra di £ 20.000 ci si potrebbe assicurare il beneficio di SS. Messe perpetue, di 364 S. Messe giornaliere – si chiede d'indicare se si intenda optare per Messe ordinarie o perpetue. Anche in questo caso verranno consegnati dei certificati d'iscrizione... ricchi premi e cotillon! (vedi a tal pro Mt 6, 7).
Quanto sopra può forse bastare per chiedersi se è possibile ancora affrontare seriamente la questione o se sia possibile negare come, in pratica, sia questo il canonico modo con cui è gestita, pur tralasciando il fatto puramente economico, la fede popolare nei sistemi teoetotomistici quali il Cattolicesimo. Un laido e abominevole scambio «mercantile» di obbedienza presente per grazie e ricompense future fondato sulla paura, il terrore, l'ignoranza, l'autoritarismo in cui si confonde la sottomissione, la ricerca affannosa di una personale salvezza sovrannaturale per virtuosismo ed «Amore» disinteressato. Alla stregua di un bambino sottomesso, causa la sua debolezza, ad un padre prepotente e prevaricatore, incapace di amore, il fedele obbedirà quasi senza eccezione, più o meno inconsciamente, per paura, timore, rispetto, non certo per amore e fiducia. Infatti, solo in un contesto non autoritaristico, di fronte a dolcezza, comprensione e fiduciosa libertà l'individuo potrà contraccambiare Dio con autentico «Amore» e crescita interiore, rispetto paritetico; in ogni altra evenienza e contesto, come nelle teoetotomie, il soggetto stagnerà in un clima di paura, di prevaricazione, che indurrà in una spirale senza fine sensi di colpa e frustrazioni, traumi psichici, nevrosi, violenza.4
Queste riflessioni ci riportano, seppur concisamente, ad un fatto significativo, peraltro implicitamente evidenziato in alcuni passi precedenti: l'opposizione, la reticenza e le difficoltà mostrate dalla Chiesa Cattolica, e parallelamente dalle culture autoritaristico repressive delle attuali società laiche – succedute, non dimentichiamolo, a società tipicamente teoetotomistiche –, nei confronti delle teorie psicoanalitiche, che hanno evidenziato la presenza ed il ruolo delle dinamiche psichiche, della frazione inconscia della psiche umana.
Le teorie psicoanalitiche sull'inconscio sociale hanno evidenziato come le esperienze della prima infanzia dell'individuo, l'interazione tra questo ed un particolare contesto socio culturale, possano pesantemente intaccare la formazione e le manifestazioni, i caratteri fondamentali della personalità dell'individuo, i suoi sentimenti e pulsioni, relativizzando così il suo «libero arbitrio». Non è forse anche per le implicazioni teologico sociali delle stesse che si è avuto da parte della Chiesa un tenace boicottaggio della psicoanalisi?
In tali sistemi, in cui l'individuo è chiamato a gestire la propria salvezza sovrannaturale nell'obbedienza cosciente alle volontà ai disegni divini, ma non meno nei sistemi socio culturali laici, comunque autoritaristico meritocratici, sia socialisti che ad economia di mercato, ove ognuno deve parimenti autogestirsi secondo il principio del totale, responsabile libero arbitrio, tali teorie sono e sono state estremamente pericolose e destabilizzanti.5 Esse infatti minano irrimediabilmente i principi fondamentali dell'esercizio dell'etica della repressione sociale ed individuale, dell'identificazione assoluta e perfetta della colpa, della totale, piena responsabilità del soggetto umano nei confronti del suo comportamento. Ovvero gli strumenti del potere.
Alla luce di ciò come accusare, perseguire e reprimere un uomo, qualora questi si renda artefice di gesti o scelte sì «insani» ma che hanno radici inequivocabili nei suoi complessi psichici, in dinamiche psichiche preconscie ed inconscie, in una serie di paure e pulsioni drasticamente amplificate da una determinata struttura socio culturale «esterna» allo stesso? Come giudicare e condannare in un sistema teoetotomistico un individuo per i suoi peccati, quando si può osservare come e quanto il suo comportamento di già non totalmente conscio, possa essere dovuto, come indica la stessa dottrina, al subdolo influsso di un principio spirituale avverso, pesantemente condizionato da motivazioni inconsce?
Queste riflessioni risultano estremamente opportune per sottolineare come l'aspetto autoritaristico insito nelle strutture teoetotomistiche possa condurre con ineguagliabile efficacia allo sviluppo di sistemi fondati sulla repressione e come, al contrario, l'ideale religioso possa ineguagliabilmente contrastare ed inficiare le stesse in uno scontro filosofico che non alieni , al contrario di quanto abbia potuto osare sinora l'ateismo, la sfera del trascendente dall'orizzonte dell'uomo. Solo in una visione cosmologica dualistica si può dividere l'umanità, un popolo, una tribù, un clan, in «fedeli e peccatori», «buoni e cattivi» sul metro del rispetto, dell'osservanza o trasgressione delle norme etiche emanate dalla divinità, custodite, promulgate e diffuse dalle classi clericali. Coloro che si oppongono a queste norme, alla divinità – quindi al connesso sistema sociale (Rom 13, 1-10) – essendo più in là oggetto della collera e del disprezzo di Dio e passibili, al di là della sua pur infinita misericordia, della punizione eterna possono essere «parimenti» passibili di condanna su questo mondo, ove l'élite sociale, profondamente intrecciata al sistema teoetotomistico infligge senza alcuna remora, la «giusta» punizione umana - che in sostanza anticiperebbe la futura, definitiva condanna divina.6 Si è già parlato del risalto di questo infausto parallelo.
Le varie applicazioni della legge islamica, con tutti gli eccessi che puntualmente le cronache ci riportano, sembrano essere una conferma che può essere negata solo alla luce di quel relativismo osteggiato – ironia della sorte – proprio dalla attuale tendenza dottrinale cattolica.
È chiara la lettura che è possibile finalmente condurre, da questo inedito punto di vista, del potere secolare della Chiesa cattolica, dei roghi dell'inquisizione spagnola etc. Se Dio userà la sua potenza, la sua giustizia per sconfiggere il Male nel corso della cosmica lotta del «Bene» contro il «Male», per respingere da sé, dalla sua santità, i peccatori, così potranno fare i suoi rappresentanti terreni, l'élite statale che si rifà ai suoi principi etici.
Il peccatore, colpevole dei suoi misfatti riconosciuti, può e deve essere punito, deve fare opera di contrizione per redimersi dalla sua indegna condizione, deve essere ricondotto sui «sani» principi per poter così salvare la sua anima, ma ancor più... per salvaguardare l'ordine sociale, spesso «costituito» od «approvato» dallo stesso Dio. Lo stato teoetotomistico, autoritaristico repressivo, rappresenta dunque la perfetta manifestazione terrena della giustizia divina, il braccio di Dio: ed allora giù scomuniche, inquisizioni, confessioni e torture, roghi, repressione e violenze: «Dio lo vuole», «Dio» lo farà… lo «Stato», «la giustizia della società» lo precede.
Ecco, tornando a temi già visitati, l'origine della violenza repressiva degli Stati moderni a cui neanche le laiche società occidentali hanno saputo sottrarsi. Ma torniamo al nostro cosiddetto «Male».
La risposta alla domanda «Chi è Satana», o «Cos'è, cosa rappresenta la “Geenna”?» deve emergere quindi da credenze, superstizioni e luoghi comuni della nostra cultura – o meglio ignoranza – teoetotomistica.
È innegabile in primis come, col progredire delle conoscenze scientifiche, una frazione sempre più ampia di quei fenomeni, che nel passato erano ascritte a possessioni demoniache, all'influsso del maligno sia stata, finalmente, compresa nel novero delle patologie psichiche e psicosomatiche, il che già rende conto delle sviste e delle amenità spacciate per ben altro nel passato. Così come oggigiorno l'immagine ortodossa del Dio creatore che i teologi cercano di puntellare davnti ai fendenti della scienza sembra assumere sempre più il ruolo di un «Dio tappabuchi», così il nostro satanasso sembra sempre più ristretto in un ruolo di «demone tappabuchi» in una concezione teologico antropologica sempre più assimilabile ad una gruviera. Il che è tutto un dire. Ma torniamo alle nostre fonti evangeliche.
Dai Vangeli possiamo osservare come il «Maligno» tenti Gesù nel deserto (Mt 4, 1-11; Lc 4, 1-13) e come egli sia in grado di possedere individui (Mt 8, 28-34; Mc 1, 21-26; Mc 5, 1-17; Lc 8, 26-37). Di quest'ultima fenomenologia demoniaca si hanno nei Vangeli abbondanti descrizioni: il Maligno rende muti (Mt 9, 32-33), sordomuti (Mt 12, 22; Mc 3, 22-30), schiavi. (Mt 12, 43-45; Lc 11, 24-26)
Egli avrebbe il potere di togliere dal cuore dell'uomo «il seme della Parola di Dio» (Mt 13, 18-19; Mc 4, 13-20), di «seminare zizzania nel Regno dei Cieli». (Mt 16, 21-23)
In merito alle risposte da dare ai nostri interrogativi, sembrano particolarmente adatti i brani evangelici Mt 16, 23 e Mc 8, 31-33. Nel primo di questi l'apostolo Pietro viene chiamato «Satana» – che vuol dire «nemico», «avversario» – giusto appena dopo aver ricevuto da Gesù il più solenne riconoscimento della sua vita: essere la «pietra» su cui si edificherà la Chiesa di Cristo. (Mt 16, 13-20)
In questo brano si narra come Gesù, che aveva cominciato a mostrare ai suoi discepoli il futuro che avrebbe dovuto affrontare, venne preso in disparte da Pietro il quale cercò di dissuaderlo dall'intraprendere l'ultima, più solenne, ma anche più tragica fase della sua missione. Allora Gesù redarguì Pietro con queste parole: «Vai via da me, Satana! Tu mi sei di inciampo, poiché i tuoi sentimenti non sono quelli di Dio, ma quelli degli uomini.» – alcune traduzioni riportano: «... perché non pensi alla maniera di Dio, ma degli uomini.»7 (Mt 16, 24). Da questa risposta si deduce che l'identificazione tra Pietro e Satana deriva completamente ed esclusivamente dal fatto che questi aveva espresso nelle sue affermazioni, nel suo atteggiamento, un modo di pensare, una serie di contenuti, di conclusioni, un processo eminentemente intellettivo, logico.
Bastò dunque che Pietro si «limitasse» a pensare in quei termini per sentirsi redarguire da Gesù di essere addirittura Satana, il suo acerrimo nemico. Cosa dire in merito? Primo, che qui si ha una descrizione per certi contenuti anomala rispetto agli altri brani evangelici che trattano del Maligno e delle sue azioni, in particolare delle possessioni demoniache. Nei brani che riferiscono di questi fatti si fa esplicito riferimento allo stato di «possessione demoniaca» cui sarebbero soggetti i vari individui. Nel brano in questione invece non si fa alcun riferimento alla possibile «possessione», seppur momentanea, dell'apostolo Pietro da parte di Satana. Ciò non sembra essere un semplice caso. Non si tratterebbe dunque di un caso di «possessione» in senso classico, dovuto cioè allo sconvolgimento della personalità di Pietro, del suo spirito, riconducibile all'azione di possessione «pneumatica» di un principio «esterno», cioè di una realtà ontologica, personale, seppur spirituale o trascendentale che dir si voglia, totalmente esterna all'essere ontologico, concreto, umano, mondano e spirituale, dell'apostolo Pietro.
Ne deriva quindi che l'identità Pietro = Satana non deriverebbe da un intervento devastante di una entità esterna bensì dall'espressione di una logica, di un pensiero, dunque di un mero evento intellettuale. Uno «spirito» assimilabile dunque ad una riflessione intellettuale condotta sulla base di una serie di preposizioni, di principi logici dall'intelletto umano al pari di... un principio filosofico, una teoria fisica, una legge matematica, una tabellina aritmetica. Un aspetto puramente «cognitivo» dunque.
Per inciso, tale concezione del «Male» propone una acuta riflessione. Se «il Male» fosse, come si va configurando nella nostra ipotesi religiosa, una semplice, mera teoria teistico cosmologica, sembrerebbe facile per l'uomo liberarsene, accettando in sua vece una nuova teoria, una nuova filosofia teistica in cui sia contemplata, contrariamente alla visione dualistica della nostra società teoetotomistica, questa diversa accezione?
Ciò è vero solo in parte: l'uomo infatti deve poter contare, data la singolarità della questione, su di un particolarissimo contributo «esterno». Accettiamo infatti, se si vuole anche «per assurdo», che la presente identificazione Male = teoria teistica (teoetotomistica) sia valida.
Potrebbe dunque essere possibile, anche in una società teoetotomistica come la nostra, che un individuo isolato possa giungere a prendere coscienza di questa identificazione in modo autonomo, come mera conseguenza di una pura riflessione intellettuale, e di conseguenza che cercasse poi di manifestare queste idee nella stessa. Ebbene, proprio in questo frangente egli sarebbe praticamente nell'impossibilità di perorare le sue idee.
Il motivo di quest'impossibilità è da ricercarsi nelle stessa base teistica delle sue «eretiche» riflessioni.
Accettando una visione teistica ci si troverebbe a dover alla fin fine accettare filosoficamente la base teoetotomistica teistica della società; questo, al contrario delle affermazioni testé condotte, poggia su di una fonte documentaria non «umana» ma «divina»! La nuova teoria dunque non si scontrerebbe in un confronto dialettico con un'altra «umana teoria» bensì contro la «parola di Dio»! I suoi interlocutori presenterebbero i loro testi «sacri», la cui origine sarebbe da far risalire a Dio, – ente concepito anche dalla controparte «eretica» – e cosa si potrà contrapporre a quest'obiezione? Nulla.
Non avrà alcuna «testimonianza sovrannaturale» a suo favore, e si troverà addirittura a contestare la teologia ufficiale – pur ammettendo i fondamenti teisti – contando solo sul suo limitato intelletto. Una contraddizione assoluta!
Basti pensare a cosa Giordano Bruno, Copernico, Galilei han dovuto sopportare – e in questo caso trattavano solo di aspetti immanenti! Come potrebbe provare con tali riflessioni, attraenti quanto si voglia ma «umane», che «l'altro Dio» sia inesistente, errato? La sua stessa congenita fallacità umana instaurerebbe dunque una contraddizione insuperabile. Come potrebbe opporsi all'idea teoetotomistica di Dio, in opposizione con tutti i maggiori sistemi delle culture «moderne», non negandolo, ma affermando l'esistenza di un «Dio» filosofico, mero prodotto dell'umano, del fallace intelletto? Ovvero Dio esisterebbe, ma sarebbe quello che dirette testimonianze, dunque riconosciute divine, asseriscono. Un po' arduo non c'è che dire...
Affermando l'esistenza di Dio come si potrebbe infatti oppugnare l'unico presunto indizio mondano della sua presenza, nella fattispecie i testi sacri? E la storia insegna. Sinora, l'unico modo con cui l'uomo ha in qualche modo potuto contrapporsi all'idea di Dio, del Dio concreto della Bibbia e non solo quello dell'idea filosofica, è stata l'esclusiva negazione filosofica di Dio: l'ateismo. Un atto di fede anche questo, in definitiva, al di là di una riconosciuta attenzione epistemologica ad una modalità più concreta di valutare ipotesi filosofiche. Solo negando Dio l'intelletto umano ha potuto reggere, seppur a mal partito, lo scontro. Ma l'ateismo, come si è detto, ha la gravissima lacuna di strappare all'uomo il trascendente.
L'equivalenza («Male», «spirito maligno» = teoria metafisica), potrebbe poi essere ulteriormente avallata dalla considerazione del fatto, non esplicito, che nei Vangeli non si parla di casi di bambini «posseduti dal demonio» in età inferiore ai 5-7 anni, – notare come quest'età sia critica nel contesto delle dinamiche psicologiche connesse all'emersione del complesso edipico etc. Sembra dunque che l'uomo sia immune, almeno sino a quell'età, dall'azione del maligno (Mt 19, 13-15; Mc 10, 13-16). Perché?
Questo fatto sinora è stato spiegato affermando come l'individuo sia incapace nell'infanzia di comprendere razionalmente e responsabilmente la «peccaminosità» di determinati atti o comportamenti, ma ciò non spiega perché, nell'ipotesi che il Maligno sia realmente una potenza personale esterna all'individuo, questa non «approfitti» proprio di tale mancanza di «barriere» dell'individuo per le proprie possessioni malefiche ed invece attenda le difficoltà, le opposizioni che successivamente, magari per azione di educatori, dei genitori, il soggetto potrebbe più tenacemente mostrare a seguito della presa di coscienza del «timor di Dio», delle «insidie» dovute alla natura peccatrice del proprio essere.
Quanto qui si sta proponendo conduce dunque ad immaginare i bambini immuni dal Male solo perché non hanno ancora interiorizzato il concetto di peccato, la visione dualistico teoetotomistica da cui questo concetto deriva; non capiscono il senso ed il contenuto di questa parola. Quest'immunità sparisce, si dissolve quando, proprio dai 5-7 anni in poi, al termine della loro infanzia, inizieranno a subire gli effetti psico culturali legati ad un'educazione teoetotomistico sessuo repressiva, quando interiorizzeranno tutto questo sistema di valori etico morali e metafisici.8
Essendo il Male una teoria, un mero aspetto culturale quindi, essa viene interiorizzata, recepita sin dall'infanzia proprio attraverso genitori, parenti, educatori in generale, insegnanti, sacerdoti. E ripensando specialmente ad alcuni eventi storici del passato, ai missionari, agli esploratori che diffusero, non solo con... «passione» il loro credo in tante popolazioni «pagane» nel corso di processi espansionistico colonizzatori della nostra cultura, condotti spesso non senza orrende atrocità, non si può non rabbrividire al pensiero di quale terribile contributo è stato portato proprio dalla nostra cultura alla diffusione di questo mostruoso seme di dolore e menzogna.
A tal pro è forse opportuno far menzione a due brani del Vangelo di Matteo: «Guai a voi Scribi e Farisei ipocriti, che chiudete il Regno dei cieli davanti agli uomini: infatti voi non entrate e trattenete coloro che vorrebbero entrarci.
Guai a voi Scribi e Farisei ipocriti, poiché siete capaci di attraversare il mare e un intero continente per fare un solo proselita, e quando ci siete riusciti, lo rendete figlio della Geenna il doppio più di voi.» (Mt 23, 13-15) e «... Ipocriti! Bene profetò di voi Isaia, quando dice: “Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me; è vano il culto che essi mi rendono, impartendo insegnamenti che sono precetti di uomini”» (Mt 15, 7-9) – in Is 29, 13 si dice testualmente: «Questo popolo con le labbra mi onora, mentre il suo cuore è lungi da me; il culto con cui mi onorano è precetto di uomini, imparato (da altri)».
Ecco come il Male si perpetua: dai genitori ai catechisti che insegnano, con dedizione, la necessità di un'etica sessuo repressiva, di una morale inumana, di un'etica di privazione, obbedienza e repressione per accaparrare una sedicente santità; tramite un clero che predica il riconoscimento del sacrificio per la grazia, per la salvezza, per un amore che dunque tutto è men che incondizionato, magari con la forza della prevaricazione e con cinismo fino a quando il malcapitato diventava il «bravo ragazzo», orgoglio della mamma:9 completo, finito,... schiavo del peccato.
In questo modo il Dio teoetotomistico si pone dinnanzi immenso, esagerato, all'inerme soggetto: un monolito di assolutismo, malcelato da amore condizionato, da ingoiare, un fardello da portare «in sé» per tutta la vita. Un peso sotto il quale l'individuo si piega, si accartoccia psichicamente nonché fisicamente, in un'esistenza modellata sinistramente da tutto ciò.
La sua crescita è storpiata, contratta, anestetizzata. L'individuo non riesce a far coesistere in una rappresentazione unitaria i suoi sensi, la sua ragione, la realtà esterna che percepisce, se stesso, le sue motivazioni di fondo, subendo una forte dissipazione di energia psichica. Vive di conseguenza un'esistenza passiva, ridotto a puro incassatore, incapace di qualsiasi critica o giudizio nei confronti della società, dei suoi artifici e delle sue contraddizioni, smanioso solo di essere protetto, accettato, rimpinzato, «normale». Si aggrappa alle sue esigenze materiali, edonistiche più immediate, all'irrazionalità ed alla banalità, a vuoti, falsi, castranti ideali di «virtù» che lo allontanano dai suoi dilemmi esistenziali irrisolti, dai suoi diritti più umani, o si perde nel vuoto di una vita vissuta senza quegli ideali«consoni» alla sua matrice assoluta, divina, da accettare positivamente dalla sua ragione, dalla sua auto-percezione ontologica. Il concetto teoetotomistico conduce ad una dicotomia della realtà, ad un'opposizione tra Bene e Male che invade e lacera soprattutto l'animo umano, il suo intelletto, la sua psiche.
Il trascendente, così inquinato e deturpato, porta l'uomo a piegarsi ontologicamente e psicologicamente a tali forze sovrannaturali o, al contrario, a rinnegarlo: in entrambi casi l'«Uomo» viene smarrito, alienato, «ucciso». Ecco perché Gesù si scaglia contro la classe sacerdotale, ecco perché contro la stessa fu sorprendentemente aggressivo e minaccioso, mentre con tutti gli altri, non credenti, pubblicani, prostitute, egli fu comprensivo, tollerante, dolce, genitale.
Se il suo rivale era Satana, inteso come ente personale esterno all'uomo, perché si scagliava contro i Farisei, il «loro» spirito, la «loro» teoetotomia, la «loro» pignoleria di osservare ogni apice o jota della legge, il tutto tanto simile poi nelle forme e nei contenuti, nella prassi, a quanto esercitano e professano sacerdoti e credenti delle attuali teoetotomie? Perché si rivolgeva alle vittime, più o meno corresponsabili, e non all'artefice principale di tutto questo? Dov'è la misericordia e l'amore verso questi sventurati? Dov' la giustizia?
Delineando invece il suo «nemico» in uno «spirito», un principio culturale, un ideale quale la dottrina teoetotomistica dei farisei, il loro legalismo, tutto è oltremodo chiaro, ovvio, evidente. L'equazione qui proposta per il Male sembra dunque reggere: anzi permette una chiave interpretativa quanto mai efficacemente esauriente ed esplicativa.
«Satana» è Pietro quando questi ragiona, «pensa come gli uomini». «Satana» è «nel credo dei Farisei», «Satana» si «avvicina alla mente di Gesù» quando questi, nel deserto, si fa prendere da sogni di gloria, di potere.
Il Male, Satana, sarebbe dunque una costruzione logica, un'idea, e precisamente la divisione dicotomica della realtà in due opposte polarità: e la condizione esistenziale – sociale ed individuale – che deriva da siffatte concezioni metafisiche è il relativo inferno. (Mc 7, 14-23)
Un'ulteriore conferma a quest'interpretazione del Male sembra venire dal fatto, già menzionato, che sia nella fantasia popolare, che nelle stesse dottrine teoetotomistiche, nei loro fondamenti di demonologia, gli influssi del cosiddetto Male, del demonio, si estrinsecherebbero in tutto un novero di patologie psico somatiche e di manifestazioni particolari, pur anche notevoli, quali la xenoglossia, la telecinesi, la chiaroveggenza.
Queste manifestazioni si collocano sempre e comunque ai confini delle espressioni della sfera psichica dell'individuo; col progredire delle conoscenze della psicologia e delle altre discipline scientifiche ad essa prossime, la loro natura è stata progressivamente chiarita e le stesse sono quindi state sempre più annoverate, malgrado la spettacolarità, bizzarria e violenza che talvolta le contraddistingue, tra le manifestazioni psico comportamentali di psico patologie. Patologie dovute, sempre e comunque, a fattori «naturali»: fattori socio ambientali, culturali, assenza di determinati aspetti affettivi... in perfetto accordo con la nostra ipotesi.
È notevole fare una considerazione a tal pro: se si prendono ad esempio le testimonianze «ufficialmente ed oggettivamente» accertabili di possessioni/guarigioni per esorcismo, si vede che la percentuale di possessioni convalidate e/o risolte dalle stesse gerarchie e demoniologhi, esorcisti, ricade in frazioni prossime all'1% o meno del totale dei casi presi in considerazione, col risultato che nel 99% e rotti casi quel che si era inteso come possessione demoniaca in realtà era da ricondurre a diagnosi errate, patologie non diagnosticabili od altro. Considerando come in biologia e nelle scienze sociali i livelli di affidabilità degli asserti e degli esperimenti, ovvero delle osservazioni che dovrebbero rappresentare una convalida di una data ipotesi scientifica sono attestati al massimo sul livello del 95% o anche meno, si può vedere che tutti gli asserti inerenti alle possessioni demoniache ricadino perfettamente nel limbo dell'assoluta a-scientificità, dell'errore strumentale e dell'indedicibilità epistemologica, dunque della più totale mancanza di riscontro scientifico. Pura metafisica. Queste considerazioni dovrebbero essere più che sufficienti.
Passiamo ora a parlare, molto opportunamente, di un brano assai interessante che può fungere da trait d'union tra le precedenti riflessioni e la problematica di quegli eventi prodigiosi, i miracoli, che punteggerebbero la missione di Gesù: il brano che parla degli indemoniati Gadareni (Mt 8, 28-34; Mc 5, 1-17; Lc 8, 26-37).
È da notare, in primis, le strette analogie che si possono osservare tra molti contenuti comuni dei fatti narrati in questi brani e quelli relativi ad eventi simili come la guarigione dell'indemoniato di Cafarnao etc. (Mc 1, 23-26; Lc 4, 31-35; 4, 41).
In questo brano si narra dell'incontro tra due indemoniati – due secondo Matteo, uno nella versione degli altri due sinottici – e Gesù, il quale viene così apostrofato: «... che c'è fra me e te, Gesù figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro in nome di Dio, non tormentarmi!» (Mc 5, 7). Questa frase, con tali riconoscimenti, viene intesa dalla teologia classica sia come attestato del fatto che il malcapitato – i malcapitati – fosse succube di una potenza spirituale sovrumana in grado, tra l'altro, di conoscere la vera natura di Gesù.
In realtà è sufficiente una semplice verifica dei vari sinottici per osservare come in tutti questi passi, accettando la cronologia storica dei fatti ivi narrati – fatto mai contestato sinora da quel che risulta –, si affermi come la fama di Gesù, dei contenuti della sua predicazione – comprese delle affermazioni sulla sua natura celeste (Mt 7, 21) – era giunta da tempo nelle varie regioni della Palestina, ed oltre il Giordano. (Mt 4, 23-25). Per quel che riguarda il «... prima del tempo...» di Mt 8, 29, un accostamento assai interessante può invece esser fatto – oltre che per il suddetto brano dell'indemoniato di Cafarnao – con Mt 24, 22 e gli altri sinottici, come pure per il «... sei venuto a tormentarci...»: la spiegazione qui invocata però fa perno, al contrario dell'esegesi classica, «solo» sul riconoscimento da parte dei due malcapitati di una forza propulsiva incessante che emanava dalla figura e dagli insegnamenti di Gesù: una potenza che portava costantemente a mettersi in discussione a valutare con raziocinio le consunte posizioni a cui i due erano attaccati nevroticamente.
Un processo che comporta, a livello psicologico, ansia ed insicurezza, richiedendo la rimozione di quei rifugi, quelle fissazioni psichiche, quel sistema di rimozioni – facilmente apprezzabile nella nostra proposta esplicativa – che storpiava le loro menti. Tutta una serie di situazioni interiori efficacemente descritta dalla presentazione che tutti i sinottici ci danno di costoro. Individui fuori di senno, che usavano frequentare i sepolcri, con atteggiamenti psicopatologici auto lesionistici. (Mc 5, 3-5)
Per i giudei i sepolcri erano luoghi impuri al punto che venivano dipinti di bianco per essere visti da lontano e scansati in tempo.10 Questi sventurati addirittura vi abitavano – stando alla narrazione evangelica.
Erano ripudiati dalla società, vivevano senza pudore o residuo amor proprio in una surreale, necrofila atmosfera di decadimento, putridume, morte, annichilendo in incubi e paranoica solitudine: un'opprimente cappa di orrore, di pazzia ossessivamente pervasa dall'incubo della morte. E come se non bastasse, il caos che regnava nella loro slabbrata psiche, costoro si sentivano anche posseduti, stante le idee, le credenze partorite e professate dal credo della loro società, da una misteriosa entità sovrannaturale a loro ontologicamente esterna. Un parassita orrendo annidato nel loro spirito, nella loro personalità, che era stato capace di scaraventarli, stante le loro concezioni teoetotomistiche, nella loro penosa, disumana condizione.
È possibile immaginare quanto urlassero nelle loro menti i ricordi umilianti di sortilegi condotti da sedicenti ciarlatani, maghi, di passati, disastrosi tentativi d'esorcismo subiti ad opera dei loro parenti o genitori, prima di esser rifiutati, lasciati al loro triste, orrendo, solitario destino.
È inevitabile comprendere come, psicologicamente parlando, il localizzare al di fuori di se stesso la causa del proprio disumano stato interiore fa sì che l'individuo si senta vittima inerme di qualcosa ineluttabilmente più forte di lui, a cui non potrà mai opporsi autonomamente con successo; e come questa constatazione possa farlo cadere in una castrante condizione esistenziale, vuota di dignità umana, speranza, libertà e colma d'impotenza, rassegnazione, insicurezza,... paura.
Per inciso c'è da ricordare la testimonianza condotta nel rispetto di modalità scientifiche, e non di mere pratiche estoterico esorcistiche, costituita dai lavori di due autori già incontrati, due dei fondatori dell'etnopsichiatria, disciplina che sta ricevendo sempre più riconoscimenti e consensi sia sotto il profilo epistemologico che clinico, i quali sono riusciti con efficacia a porre in essere metodi diagnostici e terapeutici capaci di trattare anche sindromi chiaramente connesse con tradizioni, credenze sciamanico oracolari e quant'altro.11
Questi studi, molto pertinenti per il discorso in essere, mostrano dunque come l'individuo giunga effettivamente ad identificarsi psicologicamente in quegli «spiriti» esterni da cui, sempre per via culturale, egli crede di esser posseduto e vive, con inermi sprazzi di lucidità, la drammaticità di un'esistenza e che lo inaridisce di speranza col passar del tempo. Si sente roso da quel misterioso verme che si nutre della sua esistenza, che si è annidato nella sua psiche, che ha sconvolto la sua personalità e che riversa caotiche pulsioni, insostenibili contraddizioni nel suo essere.
Questi penosi, ma verosimili contenuti determinavano dunque la realtà esistenziale degli ossessi, degli «indemoniati» che si avvicinavano, come raccontano diffusamente gli evangeli, a Gesù; ecco dunque gli sventurati – o lo sventurato – che, vedendo approssimarsi Gesù ed il suo seguito, si precipitarono urlanti, tremanti verso quel corteo. Non si può escludere che, magari captando qua e là frasi della gente, essi siano stati a conoscenza del suo potere taumaturgo, dei contenuti della sua predicazione, delle sue idee. Tornano in mente i passati esorcismi, le forti emozioni ad essi collegate, riaffiora la speranza sopita ma anche l'eco castrante delle delusioni, della rassegnazione che seguiva. Sulle prime quindi forse corrono fiduciosi a lui, poi, magari colpiti di nuovo dalla sfiducia, dallo scetticismo, di nuovo impauriti, chiedono di non essere tormentati ancora.
Un misto di speranza e di sfiducia potrebbe quindi aver giustificato le loro affermazioni seppur tale ipotesi non esaurisce il significato delle stesse, del loro comportamento, come si ripete, strettamente simile a quelli riportati negli altri casi di guarigioni di «indemoniati».
Interessante è comunque il seguito della narrazione degli indemoniati Gadareni.
«... E gli domandò: “Come ti chiami?” Gli rispose: “Mi chiamo legione perché siamo in molti”. E prese a scongiurarlo di non cacciarlo fuori da quella contrada. Ora, c'era là, sul monte, una mandria numerosa di porci al pascolo. E gli spiriti lo pregarono dicendo: “Mandaci in quei porci, perché entriamo in essi”. E lo permise loro. Ed usciti, quegli spiriti impuri entrarono nei porci, e la mandria si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila ed affogarono uno dopo l'altro nel mare.» (Mc 5, 9-14).
Un primo aspetto significativo è che ad una domanda «al singolare» ed al soggetto della risposta, parimenti al «singolare», faccia fronte la «pluralità» del termine «legione».
Lungi dal dedurre che proprio una legione di demoni, precisamente le 6.826 unità che costituivano le legioni romane, fossero presenti contemporaneamente nel malcapitato, è opportuno sottolineare, in linea con la presente ipotesi, come tale risposta possa rappresentare una realtà ben diversa, più terrena, ma non meno grave e penosa. Una realtà esistenziale e psicologica caratterizzata da profonda confusione, estrema divisione della psiche e della propria auto-percezione ontologica, lacerante coesistenza di più «spiriti», o meglio, più realisticamente, personalità distinte e contrastanti nella mente di tali sventurati individui – singolo individuo, secondo Marco e Luca.
Tale accezione starebbe quindi a rappresentare la coesistenza nell'individuo di opposte tematiche, rappresentazioni laceranti della realtà, di distinti «spiriti» dunque che, causata o mediata dai particolari contenuti teoetotomistici della propria cultura, genererà la penosa condizione psichica dello stesso. Questi individui presentano, enormemente amplificati, tratti caratteriali modali nelle personalità tipiche dei sistemi culturali teoetotomistici come conseguenza delle particolari degenerazioni patologiche, delle ossessioni che procedono dalla loro psiche malata. Osserviamo ancora, un merito a tale fatto, Lc 8, 31, ove si parla di «abisso».
Nella demonologia giudaica l'abisso rappresenta la prigione da cui il diavolo cerca sempre di sfuggire possedendo l'uomo; un'immagine che sembra resistere anche nella dottrina teoetotomistica cattolica.
È ovviamente possibile proporre anche qui un'interpretazione sufficientemente valida di questo particolare concetto, sempre rifacendoci all'ormai alternativa concezione dei contenuti di questi fatti. Si è posto prima l'accento sull'accezione del termine «legione» che si è detto poter rappresentare la confusa e divisa auto-percezione, la frammentata struttura caratteriale di tali soggetti da cui deriverebbe l'impossibilità di affrontare univocamente e razionalmente l'esistenza; una conseguenza, si è detto, esclusivamente riconducibile all'influsso di una cultura teoetotomistica.
In tale contesto il «Bene» e «Male» si fronteggiano l'un l'altro scuotendo l'individuo, lacerato dalle pulsioni ed imperativi etici spesso contrastanti con le sue esigenze, i suoi desideri, le sue volontà. Egli cerca di fronteggiare, in uno sterile sforzo di unificazione, tali incongruenze, di razionalizzare il suo comportamento, il suo essere, col risultato però di poter approdare al massimo a risposte, o giustificazioni, parziali, spesso stereotipate e soggettive.
Le situazioni psicologiche connesse a tale schema metafisico conducono l'individuo ad una situazione estremamente opprimente, e nello stesso tempo lo allontanano dal prendere coscienza della propria reale condizione, dall'opportunità di vivere la propria esistenza in modo dignitoso, univoco, in prima persona. È succube delle proprie ossessioni e non meno delle proprie idee, del proprio sistema di auto-percezione ontologica, ed è ad esso tenacemente aggrappato, incapace com'è di collocarsi dignitosamente in un contesto teoetotomistico, di darsi una tematica comprensibile ed appagante, di vivere nell'affermazione dei propri ideali, della propria libertà, della propria dignità di «Uomo». Egli resta schiavo di un'abnorme corazza caratteriale e del suo fallace sistema di riferimento nei confronti della realtà, del suo essere, in cui vegeta e da cui è oppresso.
Somiglia giust'appunto ad un'alpinista impaurito: attaccato all'impervia parete di montagne scarlatte, tremante al pensiero di lasciare l'appiglio, le sue posizioni e di... cadere nell'abisso. Tutto il suo essere è «legato» a quei capisaldi, a quegli appigli; lasciarli magari per intraprendere un itinerario mai ipotizzato, sconosciuto, rappresenta non di meno il rischio di cadere giù, nel vuoto, nel buio.
E Gesù si accostava predicando una «lieta novella» che sconvolgeva tale rappresentazione psichica: non più, come si è già evocato, baratri, abissi freddi ed oscuri, guglie dalla luce scarlatta procedevano dai suoi insegnamenti, dalla sua dottrina, ma dolci, puri ed armonici paesaggi scevri da orridi e pareti sorgono alla luce delle sue parole. Paesaggi luminosi, chiari, dove l'occhio spazia lontano sino all'orizzonte, dove una soffusa luce teofanica rischiara all'uomo il suo cammino, tra dolci colline e ruscelli d'acqua, tra i quali si avanza senza tema di cadere, reggendosi su se stessi, sulla propria intelligenza, sull'autocoscienza della propria divina perfezione di «Uomo».
Ecco realistiche interpretazioni dei contenuti del dialogo tra Gesù e gli indemoniati Gadareni – analogamente riproponibili anche per altri brani simili. Gli astanti assistono all'imminenza di un cambiamento psichico profondissimo vissuto con fermezza da parte di Gesù, con un misto di emozione, di speranza e di sfiducia da parte degli «indemoniati». Gesù, la sua parola, «scaccia» i «demoni», gli «spiriti immondi» che rendevano «schiavi» quegli sventurati di «un modo di pensare degli uomini» – si ricorda Pietro? – che tenevano lontano la «parola di Dio» dal cuore dell'uomo. Un'accezione che ci permette anche un'ulteriore, interessante interpretazione del prodigio della concomitante strage della mandria dei porci.
Il «demone» che possedeva i due, – la legione –, infatti chiede a Gesù di esser mandato «nei porci».
Si può dedurre che sicuramente tale richiesta sarebbe stata mediata per voce dei due indemoniati. Sempre aborrendo l'idea di una possessione dovuta ad una realtà ontologico spirituale esterna ai malcapitati, si potrebbe intendere tale richiesta, nell'alveo delle attuali proposte interpretative, come un'implorazione «dei due individui, dei due uomini» così intesa: «Allontana da noi quel “qualcosa” a cui imputano, ed a cui riconosciamo dunque, la nostra penosa ed inumana condizione e trasferiscilo, col tuo potere, magari in quei porci – animali tradizionalmente impuri – per salvarci da questa sventura».
E Gesù acconsentì a tale stramba richiesta. Ma come spiegare «il come», «il perché» di tale strage? Secondo l'esegesi classica il massacro dei porci è dovuto ad una sorta di «ribrezzo» degli animali alla loro possessione ontologica da parte degli spiriti maligni. Come orizzontarsi ora che si è ridotto «Satana», il «Male», la «legione» solo ad una mera rappresentazione metafisica partorita tra l'altro dall'uomo? L'alveo in cui collocare l'attuale «probabile risposta», lo si vuol sottolineare non scevra, per quanto tesa ad un certo realismo interpretativo né scettico né ingenuo, da una decisa componente teistica, porta inevitabilmente a trattare di quei fatti, da sempre controversi nella loro definizione ed accettazione, che costellano la narrazione della vita di Gesù: i miracoli.
Questi eventi rappresentano uno scabroso problema sia per la fede del credente che per la stessa ragione dell'uomo. Sia ben chiaro che non si ha qui la presunzione di poter risolvere, magari con nuovi contenuti e nuove «spiegazioni», tali questioni. Non si può comunque esimersi dall'affrontare questo tema, pur nella consapevolezza sia dell'insufficienza degli strumenti di conoscenza di cui disponiamo che dell'impossibilità, mai così urgentemente percepita, di giungere a risultati completamente chiari e definitivi per l'intelletto – situazione ineluttabilmente connessa con la stessa natura «miracolosa» di tali eventi.
Dunque la mandria. D'un tratto tutti gli animali, inavvertitamente agli occhi di diversi occasionali astanti, ma contemporaneamente agli eventi che vedono come attori Gesù, il suo seguito e gli «indemoniati», iniziano una folle corsa, svegliandosi quasi dal torpore del pascolo, e vanno a precipitarsi da un dirupo.
Come spiegare in termini più «naturali ed oggettivi possibili» questa prodigiosa concomitanza di eventi, tale da far intendere una vera e propria relazione di causa ed effetto tra gli stessi agli astanti, senza ricorrere alla sovrannaturale azione di una entità ontologica esterna che, spostandosi prodigiosamente dai due malcapitati alla mandria, rappresenterebbe il necessario trait d'union tra i due fatti?
Quale nesso invocare per salvaguardare il senso di questo fatto nell'economia della narrazione che l'autore ci ha voluto tramandare? In realtà la risposta non è oltremodo difficile.
Si considerino altri singolari gesti di Gesù: ad esempio, Gesù guarisce un lebbroso in Mt 8, 1-4. Con un gesto, una parola, il flagello della carne scompare.
Come può essere avvenuto ciò? Gesù ha poteri extranaturali, sovrumani che esulano da ogni principio naturale conosciuto? Se posti dinnanzi a tale ipotesi, potremmo, o dovremmo, soltanto accettare «per fede» tali eventi, ogni nostro intento o proposito sarebbe vano, e potremmo farci da parte lasciando spazio ad un mero atteggiamento «fideistico», come si diceva, dinnanzi a tali eventi. Ma qui si vorrebbero proporre solo alcune riflessioni ed ipotesi realistiche, si ricordi.
Innanzi tutto non è affatto vero che non si giungerebbe ad uno svuotamento dello spessore prodigioso di tali eventi ricorrendo ad un particolare approccio interpretativo di tali fatti misteriosi.
Consideriamo come Gesù possa aver spesso mostrato, più che poteri taumaturgici extranaturali, soltanto una sconcertante capacità nel cogliere straordinariamente l'attimo fuggente di fatti naturali, di per sé causalmente slegati tra di loro, tali però, che un qualsiasi spettatore della collezione degli stessi sia «inevitabilmente» portato a concludere una relazione di causa ed effetto tra questi eventi e gesti od affermazioni di Gesù.
Per inciso, tale interpretazione si pone soltanto come ipotesi – mera congettura logico filosofica – alternativa, chiaramente debitrice di un approccio esegetico che voglia salvaguardare, nella misura del possibile, un certo realismo.
La lebbra è conseguenza dell'infezione dovuta al microrganismo Mycobacterium Leprae. Debellare la lebbra significa giungere alla distruzione di tale microrganismo, annidato nel corpo del lebbroso. È chiaro che le parti del corpo perse durante l'infezione non possono più essere rigenerate. Nei Vangeli non sembra si parli in modo esplicito, nella descrizione di tali miracoli, della rigenerazione delle carni colpite da questo flagello ma di guarigioni, sicuramente sorprendenti nella loro presunta subitaneità, – «... e subito fu mondato dalla lebbra» (Mt 8, 3) – degli sventurati, anche se la rigenerazione delle carni potrebbe essere in via teorica anche sotteso da tali frasi, ma tant'è.
O Gesù riesce a distruggere fisicamente tale microrganismo, grazie a dei peculiari poteri taumaturghi sovrannaturali – come sostiene d'altro canto l'esegesi classica –, oppure, senza invocare alcuna potenza extranaturale, riesce a «centrare» le manifestazioni più evidenti di una guarigione in corso, per quanto, si ripete, misteriosa ed inspiegabile per le nostre conoscenze scientifiche, per la sua rapidità.
Queste interpretazioni sui poteri taumaturgici di Gesù possono essere efficacemente invocate anche in altri fatti miracolosi narrati nei Vangeli. Ad esempio a sostegno della prima ipotesi, quella di autentici poteri sovrannaturali di Gesù, si potrebbe far riferimento alle moltiplicazioni di pani e pesci, le sue passeggiate sulla superficie delle acque, alla guarigione della emorroissa (Mc 5, 25-29), dell'uomo dalla mano secca (Mt 12, 9-14). Sì, si è nella condizione di non disporre di alcuna spiegazione. Ma non è un dramma. Si ammette di non sapere. Ma questo valga per tutti...
Dunque: silenzio.. epistemologicamente parlando.
Per la seconda, cioè della «composizione» di eventi reciprocamente indipendenti, si possono citare la guarigione del servo del centurione (Mt 8, 5-13), del figlio del funzionario regio a Cafarnao (Gv 4, 46-54), il fico sterile (Mc 11, 12-20) e non meno le prodigiose, stupefacenti «resurrezioni» del figlio della vedova di Naim (Lc 7, 11-17), di Lazzaro (Gv 11, 1-44) etc.
Poniamo, ad esempio, che Lazzaro non fosse realmente morto, ma che giacesse in un qualche stato di catalessi, tale da far erroneamente pensare ad un autentico decesso. Egli, secondo i costumi ebraici, venne fasciato di bende e quindi sepolto nella sua tomba, quando Gesù era ancora lontano. La sua falsa morte avrebbe dunque ingannato i parenti, la popolazione di Betania che lo condussero alla sua estrema dimora.
Gesù alla notizia della morte del suo fraterno amico, si incammina per Betania, del tutto ignaro dello stato di morte apparente che si sarebbe verificato – se non vogliamo con malizia pensare ad un vero e proprio complotto –, iniziando ad esternare agli astanti presuntuose affermazioni, che potevano presagire ai più accorti, il fantastico finale che di lì a poco si sarebbe realizzato.
Giunto dinnanzi al sepolcro, tra due ali di folla, tra cui i suoi detrattori, i suoi avversari, si mette a gridare: «Lazzaro, vieni fuori!»... e quello esce dal sepolcro!
Secondo l'ipotesi della falsa morte apparente Lazzaro si starebbe in realtà riprendendo dal suo stato comatoso: dopo quattro giorni di incoscienza, stupefatto ed ancora non del tutto in sé, inizia ad udire un ovattato clamore, poi viene accecato dalla luce che inizia a filtrare dall'esterno mentre la pietra venne mossa. Allora vede la familiare silhouette di Gesù, sente la sua voce che gli intima di muoversi, di uscire dalla tomba, ed esce.
Si noti come pur accettando tale versione, molto «naturale», non si ha alcuno scadimento della prodigiosità dell'evento, del suo significato, assolutamente non rivolto ad un mero fine teatrale.
Se si lancia una moneta in aria si ha una probabilità del 50% di azzeccare quale faccia resterà alla fine in vista, mentre la probabilità di indovinare quale faccia di un dado resterà rivolta verso l'alto è del 16,7% circa.
Alla roulette la probabilità d'indovinare dove si fermerà la pallina al termine della sua corsa è del 2,7% circa. Dinnanzi alla tomba di Lazzaro Gesù esibisce pubblicamente, con il suo comportamento e le sue affermazioni, una sicurezza sconcertante. Quale eccelso illusionista o chiaroveggente avrebbe potuto mostrare tale sicurezza davanti ad un cadavere, che «... già emette fetore...» (Gv 11, 39), da resuscitare o, il che è un pelino più facile, ad un presunto cadavere da risvegliare? Gesù dinnanzi a tutta Betania, allo scetticismo ed al biasimo di alcuni (Gv 11, 37) si comportò in modo sovrumano, sovrannaturale, extranaturale, da Dio: pur senza sapere nulla circa la possibile, autentica condizione di Lazzaro, chiese ad un «cadavere che già emetteva fetore» di uscire dalla tomba!
È stato questo un episodio della missione di Gesù, tra itanti, in cui egli pose coraggiosamente in gioco tutto se stesso, tutta la credibilità e la fama che si era diffusa dalla sua figura, dal suo essere eccezionale. Si pensi che onta e che smacco se, dinnanzi a tutta la gente lì radunata, a questo a dir poco presuntuoso, imperioso comando, non avesse seguito l'obbediente resurrezione, o quanto meno risveglio, di Lazzaro.
E bisogna accettare il fatto che non c'è verso di cavillare o cercare risposte in merito alla forma di tali eventi. Si possono sì invocare spiegazioni forse più aderenti alla realtà naturale che possiamo sperimentare o razionalmente accettare, ma questo, come si vede, non intacca minimamente il senso di questi prodigiosi eventi, il ruolo che la persona di Gesù riveste nell'economia degli stessi, pur accettando che eventi naturali, sebbene eccezionali, ma in realtà slegati tra di loro, venivano ripetutamente ed incredibilmente coordinati per «comporre» guarigioni, «resurrezioni» e via dicendo. E torniamo a questo punto ai nostri indemoniati.
In questa «casistica» si potrebbe facilmente porre il massacro della mandria dei porci della campagna gadarena senza necessariamente invocare... la presenza di alcun dio del Male e lasciando inalterata la manifestazione trascendente di Gesù. Sì, ma come mai la mandria dei porci si gettò «inspiegabilmente» nel lago? In realtà questo evento non è proprio inesplicabile. L'etologia moderna può correre a nostro sostegno anche in questo frangente.
Qualcosa può, molto semplicemente aver spaventato i maiali: un serpente, qualche predatore, qualche sciame d'insetti inferociti. Che dire poi di quegli strani eventi di «suicidio collettivo» che avvengono nel mondo animale e che interessano non poco gli etologi?
Il 20 settembre 1981 duecento balene si «suicidano» gettandosi sulle secche di alcune spiagge della Tanzania, a sud dell'Australia.
Il 23 settembre dello stesso anno migliaia di uccelli migratori notturni trovano una morte orrenda gettandosi forsennatamente verso le luci ed i falò di alcuni accampamenti dell'Assam, in India.
In entrambi i casi si può ipotizzare che un qualche fenomeno naturale sia all'origine di tali inquietanti massacri. Dall'autopsia dei cetacei arenatisi si vide ad esempio che il loro orecchio medio era stato invaso da parassiti. Questo fatto, od un brusco cambiamento del campo magnetico terrestre, avrebbe potuto far perdere a questi animali il loro meraviglioso senso d'orientamento.
Sulla stessa falsariga, si è convinti che forse un brusco sbalzo della pressione atmosferica fosse all'origine del massacro degli uccelli migratori in India. Come si può vedere simili comportamenti anomali non sono poi così rari nel mondo animale e quindi non si vede perché non si possa inserire in tale casistica anche il «suicidio» della mandria dei porci senza ricorrere all'infausto influsso di un inesistente Maligno.
Adottando anche in questo fatto la possibile composizione di eventi di per sé indipendenti possiamo giungere ad un'interpretazione tale da lasciar integro il significato teologico dello stesso e capace di far intendere, sicuramente in modo alternativo, ma non minore, il senso del massacro della mandria salvaguardando l'equivalenza (Male = teoria teoetotomistica) ed il peculiare ruolo di Gesù nell'economia della narrazione, il suo profondo insegnamento. Il sacrificio della mandria di porci mette in risalto infatti l'effetto caotico ed irrazionale prodotto dal male, qui inteso come teoria teoetotomistica dunque, sia a livello individuale, dall'osservazione dello stato degli indemoniati, che «sociale», considerando l'uguaglianza (mandria = società).
La rovinosa, irrazionale rincorsa dei malcapitati animali, improvvisamente scossi dalla quiete del loro pascolo nella campagna gadarena, rappresenta un efficace parallelo con l'irrazionalità, la paura, la distruzione dell'armonia e la morte spirituale che il male, quest'appendice oscena delle teoetotomie, sa diffondere e moltiplicare nel tessuto sociale. Ecco l'effetto di Satana: lo sterminio inconsapevole dei maiali, legato dalla «composizione» operata da Gesù agli occhi degli astanti con l'immobilismo psichico degli indemoniati (vedi anche Mc 8, 24), sembra rispecchiare il destino dell'individuo che vive in tale contesto sociale, capace di trascinare l'uomo verso il dolore, l'alienazione di sé stesso, la propria distruzione.
Se ci guardassimo finalmente intorno, ora, vedremmo quanto siamo vicini «all'abisso» e quanto sia difficile puntare i piedi e fermarsi, opporsi alla marea di zampe, all'inconsapevole spinta, cieca, bruta e pervasa di terrore, che ci sospinge verso quel baratro. Solo se la mandria si fermasse, in toto, tale epilogo potrebbe essere evitato: ma solo se qualcuno nel suo interno, malgrado tutto, inizierà a puntare i piedi, ciò potrà avverarsi (Mt 24, 14).
È inteso: queste sono solo ipotesi e congetture. Forse neanche tanto originali. Nulla più. Ma sono «lecite» come altre ipotesi e congetture. Queste molto meno originali. La cosa intrigante è che quel che c'è dietro, filosoficamente, è radicalmente diverso: decisamente opposto.
Come al solito… ora l'alternativa c'è. E non si può sfuggire davanti a questo «oggettivo dato di fatto».
Né si può additare a quest'ipotesi di alcunché che non ricada sulle altre o la si può far dissolvere.
Il quesito: «Quali delle tante?» è sempre più intrigante. Fosse solo una curiosità, resta il fatto che si sta mostrando come sia «possibile» interpretare in questo modo quei testi. È qui, davanti a tutti: manifesta, sfacciata, clamorosamente irriverente.
Domanda: come è «possibile» che questa interpretazione così singolare, e per molti sicuramente stravagante, se non blasfema, questa serie di interpretazioni possa trovare queste solide concordanze in questi testi? Come è mai «possibile» che questa originale chiave di lettura sia così estesamente «possibile»?
Non è minimamente «possibile» introdurre, seppur a brandelli, la logica de «I Fiori del Male» di Baudelaire nei «Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni…
Prego, ognuno resti un attimo in silenzio davanti a questa inquietante evidenza...
L'Inferno
Il destino orribile dei peccatori, preparato per ricevere le anime dannate a seguito del Giudizio Universale, fantasiosamente ipotizzato e descritto da poeti, pittori ed infoiati oratori, temuto in cuor proprio da ogni teoetotomista, scottante tema dei teologi, è la bocca gigantesca ed immonda, spalancata sotto ciascuno di noi, che si cerca disperatamente di evitare seguendo con obbedienza e mille preghiere d'intercessione, lo stretto e difficile sentiero del servizio e della grazia, della contrizione.
Andiamo a vedere quei passi dei Vangeli in cui si parlerebbe di tale lugubre posto. È chiaro che l'intento è di trovare un'interpretazione che non implichi di accettarne l'esistenza.
Si parla dunque di Ade, come sinonimo dell'Inferno, in vari passi: Mt 11, 23; 16, 18; 25, 41; Lc 10, 15; 16, 19-31. Di questi brani solo nell'ultimo passo lucano si parla esplicitamente – nella parabola del ricco ed il povero – di inferno inteso come luogo di dolore che attenderebbe il peccatore dopo la morte. Non ci sarebbe quindi alcun equivoco e tutto il nostro ragionamento sarebbe, finalmente, inficiato da questi brani; ma non è così.
In questa parabola si narra di un mendicante, coperto di ulcere, un certo Lazzaro, che giaceva abitualmente ai lati della porta della casa di un ricco benestante di nome Epulone e che cercava di sfamarsi contendendo ai cani gli avanzi di cibo scagliati per strada dagli schiavi di quest'ultimo.
Giunge dunque giorno in cui i due, uno dopo l'altro, muoiono. Avviene allora che Lazzaro va, secondo l'espressione propria della parabola, «nel seno di Abramo», mentre il ricco Epulone viene scaraventato nell'«Ade».
Perché viene riportato quest'epilogo da Gesù? Semplice: il ricco viveva nella propria dissolutezza, nell'egoismo e nell'indifferenza verso gli altri uomini, in chiaro e continuo contrasto con la legge ebraica, la quale prescriveva un atteggiamento umanitario, misericordioso sia tra gli Israeliti che con gli stranieri (Lv 19, 18; 19, 34; 24, 22; 25, 35). Secondo tale legge coloro che non fossero stati osservanti della stessa sarebbero stati puniti nell'Ade mentre i giusti – come quindi Lazzaro doveva essere, così possiamo dedurre dalla narrazione –, verrebbero condotti nel seno di Abramo.
La sola proposta interpretativa fondata che si sa avanzare – il resto è solo congettura… dunque ognuna è allo stesso livello di gratuità, comprese quelle ortodosse – è la seguente: ci sono individui che manifestano insensibilità, scetticismo ed egoismo, mancanza di misericordia umana, anche dinnanzi allo spauracchio delle atroci pene eterne minacciate dalle teoetotomie: costoro non «... si lasceranno persuadere neanche da uno che resuscita dai morti.» (Lc 16, 31).
È immediato lo spunto di amarezza, d'impotenza che trasuda da quest'affermazione. Essa rappresenta il nocciolo autentico della parabola, un nocciolo che sinora è stato omesso a favore dell'enfatizzazione dei contenuti metaforici, sicuramente inquietanti ma fuorvianti, del racconto.
Eppure da quest'interpretazione, non meno lecita di quella ortodossa, emergono importanti aspetti:
1) Si ha innanzi tutto un netto avallo alla presente esegesi: essendo il concetto di Dio un prodotto dell'intelletto umano, una teoria filosofica assolutamente indimostrabile, essa resterà, sempre e comunque, un'ipotesi parimenti confutabile con mezzi logico filosofici, quindi solamente accettabile per fede. Un'ipotesi passibile quindi di un'inevitabile, scettico rifiuto dall'applicazione, non meno realistica e dopo tutto fondata, della prassi edonistica atea.
2) Al ricco Epulone, si potrebbe associare un atteggiamento edonistico tipicamente materialistico: indicarlo col termine ateo è dunque fondato e realistico.
Si perdoni tale conclusione… ma talmente distinte sono le conseguenze culturali, psicologiche ed in ultima analisi di prassi esistenziale che derivano dall'ideale ateo, a confronto specialmente con quelle che procedono dall'ideale religioso, che non si vede come ciò possa essere ignorato in questo contesto.
Circoscrivendosi totalmente nell'immanenza sensibile, un ateo non può esimersi di incanalare in tale ambito ogni sua scelta, specialmente quelle più significative ed esiziali per la sua unica condizione ontologica concepita. Non bisogna essere fuorviati in queste considerazioni da eventuali comportamenti altruistici, sempre comunque mediati da aspetti culturali, che la moderna etologia e sociobiologia sta cercando di spiegare anche come parte di un vero e proprio comportamento sociale, addirittura con radici genetiche, comunque complesso nella sua determinazione globale.12
Significativa è tal pro l'implorazione di Epulone (Lc 16, 27-28). Essa dimostra infatti l'esistenza di una struttura caratteriale estremamente chiusa, discriminatoria e vuota di ogni valore umanitario, di qualsiasi spirito critico, estremamente debitrice, si noti, di un sistema di coordinate culturali rivolto a sottolineare quei contenuti come il legame di sangue, di clan, lo spirito xenofobico, di razza e di etnia.
Una struttura caratteriale che contraddistingue i sistemi culturali sia teoetotomistici che ateistico patriarcali, autoritaristico repressivi, ove centralismo, differenziazione etnica e razziale, accumulo della proprietà privata, competizione ed indifferenza sono estremamente diffusi a livello sociale.
Epulone aveva ogni giorno davanti la figura implorante di Lazzaro, la sua indegna condizione esistenziale, prodotti di un mondo, di un sistema socio culturale in cui la proprietà privata, le istituzioni socio economiche scavavano baratri orrendi tra uomo ed uomo. Solchi che ancora oggi possiamo riscontrare ad esempio tra paesi industrializzati dell'occidente ed il terzo mondo, tra i vari strati sociali delle nostre società «moderne» e che potranno essere colmati solo da «Uomini» animati da ideali ben diversi da quelli, pure atei o teoetotomistici, che informano le attuali direttive sociali ed economiche delle nostre società.
Possiamo dunque rivedere in Epulone noi uomini dei paesi progrediti che, accomodati nelle nostre sicure dimore, rimpinzati dalle nostre cacce in traboccanti market, ingoiamo tutte le menzogne passateci dai mass media, che ci esaltiamo per una conquista spaziale o sportiva, che parteggiamo per uno dei contendenti delle numerose ma lontane guerre che alimentiamo con i nostri armamenti – baluardi di pace per la propaganda, business per i commercianti di armi; l'Italia è tra le prime cinque nazioni produttrici di armi e dal 1972 c'è l'avallo ufficiale, mascherato da legge sulla vendita all'estero delle stesse, dello stato italiano, così cattolico!13
Scorriamo con indifferenza riviste che spiegano l'uso e la potenza di sistemi di morte sempre più orrendi ed efferati, ascoltiamo con sufficienza esperti che in un qualche scontro tra grandi potenze computano svogliatamente morti «necessari» o «sopportabili» – oggi detti «danni collaterali» dovute ad «armi intelligenti» (sic!) o ad azioni di fuoco delle forze di «peace-keeping» – senza saper provare ribrezzo per tutte le cause economico politiche ed ideologiche che conducono al massacro migliaia di uomini.
Possiamo far scorrere le immagini di bambini denutriti mentre siamo comodamente seduti a pranzo, magari facendo un appassionato programma degli impegni sportivi necessari a smaltire l'eccesso di calorie. Non abbiamo neanche lo spirito critico e l'onestà di accettare, finalmente, che proprio noi, abituali e normali consumatori delle società industrializzate, facciamo la parte da leone nell'esigere l'esistenza di un ordine economico mondiale in grado di far confluire dai confini delle nostre società le risorse planetarie necessarie ad aumentare i profitti delle imprese, a garantire i confort voluttuari a cui siamo ormai abituati – il mondo occidentale sta attualmente utilizzando e sperperando l'80% delle risorse mondiali in beni di lusso e stili di vita assolutamente inattuabili in modo globalmente democratico etc.14 No, non possiamo più dire che non sapevamo.
Siamo proprio come il ricco Epulone, che si interessava dei membri del suo clan, di se stesso e basta: un interesse centripeto ristretto alle sue necessità, al mondo che lo circondava più da vicino e non aperto all'universalità ecumenica dell'uomo. Un atteggiamento per certi versi sicuramente normale, proprio della natura umana, ma assolutamente inconcepibile da un punto di vista filosofico ed umanistico agli attuali livelli di espressione, che solo un ideale religioso può far superare, colmando il gap che divide la figura e gli ideali dell'ateo, del teoetotomista, dall'«immagine e somiglianza di Dio», dall'Uomo.
Come si vede ben diversi sono, o possono essere, i contenuti di tale parabola e diverso è pertanto il contesto in cui in essa si ricorre al concetto di Ade.
Tornando quindi più d'appresso al problema dell'inferno, smitizziamo un'altra affermazione che, sempre nell'esegesi ortodossa, viene esibita a sostegno dell'esistenza dello stesso: il «fuoco della Geenna» (Mt 5, 22-30; 18, 8-9).
La Geenna era la valle di Ben-Hinnon. Questa valle era posta nei pressi di Gerusalemme ed era adibita ad immondezzaio. In questo luogo le note storiche narrano che nelle passate occupazioni fenicie venivano bruciati dei giovani in sacrificio al dio Molok (II Re 23, 10). Era quindi un luogo doppiamente poco gradito, sia per motivi igienici che per i lugubri ricordi che evocava.
Dunque il fuoco della Geenna starebbe a rappresentare le fiamme eterne che avvolgeranno, negli inferi, i dannati. Ma l'immagine evocata dalla Geenna non è forzatamente, necessariamente trasponibile ad una realtà d'oltretomba, ad un luogo di pena senza fine che attenderebbe le anime dei peggiori peccatori.
Ciò deriva solo ed esclusivamente dall'aver travisato in blocco il messaggio di Gesù, collocando erroneamente tutte le sue affermazioni, tutti i suoi insegnamenti in un contesto teoetotomistico ove tutto è catalizzato in una prospettiva futura, extranaturale, di salvezza personale dal peccato. Spostando l'escatologia del messaggio di Gesù nell'esistenza mondana, come è avvenuto per tutta la presente analisi quest'immagine diventa invece veicolo di un contenuto assai diverso: l'essere «gettati nel fuoco inestinguibile della Geenna» può infatti rappresentare le infauste e disumane condizioni personali e sociali imputabili a contesti sociali teoetotomistici, ove la configurazione teologica, il rapporto col sacro, non possono che condurre a realtà esistenziali aberranti, pervasi dall'irrazionalità di una struttura caratteriale estremamente castrante. (Mt 10, 28)
In essi l'«Uomo» è perso, smarrito, scartato, scarnificato, ridotto ad immondizia, alienato dalla sua vera essenza divina e la sua esistenza irrimediabilmente «bruciata». Si può cogliere l'accostamento tra ciò e le espressioni di gettar via l'occhio, il braccio, la mano (Mt 18, 8-9) da sé pur di vivere umanamente, in verità.
Gesù non minaccia mai pene infernali, non è né nel suo stile né nei suoi intenti, ma esorta continuamente l'uomo ad un rigoroso, fiducioso ed onesto lavoro di comprensione auto-cosciente, a vedersi e rivedersi fino in fondo per raggiungere se stesso, ripulirsi collettivamente ed individualmente delle conseguenze dell'alienazione della propria libertà, della propria indipendenza etica, per raggiungere la meta spirituale di sentirsi infine realmente e propriamente divino.
«È meno doloroso, meno castrante vivere senza un tuo membro, senza un tuo gesto, un tuo senso che vivere senza te stesso, alienato dalla tua libertà, la tua divinità».
Questo è il messaggio di Gesù che procede da tali affermazioni, da tali iperbolici eufemismi.
È meglio per l'uomo vivere al di fuori delle teoetotomie, salvandosi dalla dipendenza etica a queste imputabili, che lasciarsi andare ai frutti delle stesse – senso di protezione, atteggiamento gregario, essere sollevati dalle responsabilità della propria autogestione etc.
Egli, in tutte le sue predicazioni, esortò l'uomo a «rifarsi» (Gv 3, 7) di nuovo al fine di entrare nella «vita», a cercare in sé e nella sua società l'origine degli scandali (Mt 18, 7), a mirare verso un autogestione oggettiva, verso una responsabilizzazione più spinta e libera, ma per questo più gratificante. Ed in più c'è da porre un'altra considerazione, che non si vuole qui esplicitamente esporre, ma che deriverà sicuramente dalle riflessioni scaturite dalla seguente domanda:
«Cosa potremo sentire e pensare quando, dopo la morte, ci troveremo, se veramente mai esistesse un aldilà, nella condizione di poter finalmente verificare, senza più ombra di dubbio, la nostra autentica natura divina, il nostro essere Déi (Gv 10, 34), quando, ancora eccitati e confusi ci rivolgeremmo indietro, alla nostra unica ed irripetibile esistenza mondana ormai trascorsa, ed osserveremo in pienezza ogni nostro atto, scelta, ideale, ogni momento di felicità, di dubbio e di dolore? Potremmo dire di aver vissuto in pienezza la nostra indipendenza ontologica, il nostro esser Déi, nei momenti più significativi ed intensi della nostra vita, ed esultare?».
Note:
1 C.C.C. op. cit. [1992], cap. 391-395, pag. 111-112; per i punti successivi si vedano anche gli altri capitoli così come da indice tematico.
2 Friedrich Nietzsche, Breviario, Rusconi Ed., Milano, 1993, pag. 127.
3 Sigmund Freud, Op. Cit. [1969].
4 Erich Fromm, Marx e Freud, la verità che rende liberi, Il Saggiatore, 1980.
5 J. Ruffié, Dalla biologia alla cultura, Armando Armando, Roma, 1978, pag. 415.
6 Michel Cattier, Op. Cit., [1970].
7 La Sacra Bibbia. Nuovo Testamento, Sel. dal Reader's Digest, Unione Tipografica ed. Torinese, Garzanti, Torino, 1968, pag. 34.
8 Giacomo Dacquino, Religiosità e psicoanalisi, Saggi S.E.I., Torino, 1981, pag. 47-78; 121; 222-233.
9 Nei secoli passati i genitori potevano essere addirittura nel lecito, secondo la Chiesa, anche nel sopprimere i figli che si presentavano o troppo recalcitranti o che mostravano addirittura un atteggiamento in modo manifesto «maligno» e peccaminoso.
10 Matteo, Ed Paoline, 1978, pag. 309.
11 Tobie Nathan, Op. Cit., [ 1993]; George. Devereux, Op. Cit., [ 1978].
12 Benedict R., Op. Cit., [1970]; Edward O. Wilson, Op. Cit., [1980]. Ulteriori voci bibliografiche sull'argomento verranno presentate nei prossimi aggiornamenti.
13 Questa frase è stata volutamente lasciata così come fu scritta nel anni 1984 (circa). Dunque i riferimenti al presente sono quel che risultava a quei tempi.
14 Henri Perroy, Op. Cit., [1973]; Herman E. Daly, Op. Cit., [1981]; Zorzoli G. B, Op. Cit., [1982]. Jeremy Rifkin, Ted Howard, Op. Cit., [1982], pag.111.
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