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Ciò potrebbe essere riscontrato proprio nelle leggi semplici, ma generatrici di complessità, che sembrano operare ogni qualvolta si ha a che fare con un sistema costituito da diversi segmenti operativi tra loro interconnessi. Si è visto recentemente come il genoma rappresenti una base informazionale in cui sono rilevanti anche e soprattutto fattori quali le connessioni tra geni e geni e processi d'inibizione e di attivazione, che fanno sì che il genoma partecipi a tutta una rete di complesse relazioni reciproche con gli altri costituenti dell'organizzazione e della materia vivente.

La peculiarità di queste reti nell'indurre stati in continua oscillazione tra intrinseci livelli di ordine e di caos sia nell'espressione genetica che nella differenziazione biologica, viene attualmente spiegata con sofisticati strumenti matematico statistici, in grado di far apprezzare come questi fattori siano decisivi nell'organizzazione ontogenetica e nelle dinamiche filogenetiche.

A questi fattori interni c'è in definitiva da affiancare un'azione dell'ambiente esterno, anche questa rivalutata alla luce di nuovi paradigmi interpretativi. Questo fattore, influenzando drasticamente la disponibilità energetica, assume un ruolo decisivo nel condizionare un qualsiasi processo evolutivo fornendo spinte selettive insostituibili. Ad esempio, il potenziale genetico dei progenitori degli uccelli è stato per circa 150 milioni di anni potenzialmente in grado di dare origine agli uccelli volanti moderni. Eppure questi ultimi emersero solo a partire dagli ultimi 30 milioni di anni, seppure la loro nicchia ecologica fosse da tempo libera. Molto probabilmente quest'espressione fenogenetica dovette attendere l'avvento delle piante fanerogame, e di riflesso degli insetti volanti che costituirono la biomassa necessaria per questo tipo di evoluzione. S'intende sempre più estesamente come tutti questi fenomeni rappresentino solo una serie di contingenti fatti bio evolutivi!

In questo contesto è poi essenziale il ruolo di tutti quegli eventi che possono indurre decisivi, spesso catastrofici, effetti sugli ecosistemi. Le evidenze fossili del processo dell'evoluzione delle forme viventi sulla terra ci parla infatti di ricorrenti, catastrofiche estinzione di massa a cui, per mezzo di impressionanti processi di radiazione adattativa, sono seguite comunità biologiche interpretate da forme diverse e man mano più efficienti. Questa valenza casuale della macroevoluzione emerge in tutto il suo significato nelle sequenze evolutive che sin dal precambriano giungono sino a noi. In esse è immediatamente apprezzabile la natura caotica, ad esempio la profonda analogia tra gli alberi filogenetici ricostruibili su base paleontologica e le complesse figure delle strutture frattali.

Da queste evidenze emerge innegabilmente l'intrinseca natura indeterministica del processo evolutivo, il quale non risulta affatto identificabile in un albero che tende all'emersione di specifiche fronde evolutive, quanto in un folto cespuglio in cui a fenomeni di repentina radiazione evolutiva derivano soltanto statiche progressioni contraddistinte da contingenti, impercettibili trasformazioni ed ampie estinzioni. Queste evidenze hanno inferto duri colpi alla semplicistica interpretazione di una filogenesi diretta all'affermazione del più adatto, introducendo fenomeni contingenti ad ogni stadio del processo, in grado di condizionare pesantemente un dato itinerario evolutivo. Nel contempo però hanno evidenziato alcuni aspetti che, finalmente, risultano essenziali nella nostra ricerca di una qualche valenza teleonomica.

Due sono le evidenze decisive: la prima è quella che, pur prospettando una completa neutralità dei processi evolutivi, il fatto stesso che le prime forme viventi emergano forzatamente solo presso l'estremo inferiore di complessità, presso quel che S. J. Gould chiama il muro minimo di complessità, fa sì che gli itinerari evolutivi non possano che trovare eventuale ulteriore sfogo, manifestazione, verso forme di vita più complesse. Ciò è altresì garantito dal processo, asimmetrico, di corsa agli armamenti che si verifica innegabilmente tra specie in reciproca competizione in un dato ecosistema. Si pensi ad esempio all'altezza media delle essenze vegetali di una foresta tropicale, che milioni di anni di competizione ha attestato a livelli tali da richiedere uno sforzo fisiologico proibitivo a ciascun individuo, costretto a competere per un posto al sole, per la vita, con tutti i soggetti circostanti.

C'è poi da addurre una significativa considerazione. Le forme viventi a ridosso del muro minimo di complessità risultano essere le forme batteriche, gli organismi unicellulari. Ora, come anche Gould sottolinea, queste forme di vita sono le più cosmopolite, adattate e poliformi specie viventi mai esistite; organismi capaci di sopravvivere nelle nicchie ecologiche più estreme, dei camini e delle pozze idrotermali, dove le temperature giungono a valori proibitivi per qualsiasi altro essere vivente, di circa 120°C, sino ai termini opposti, di varie decine di gradi sotto lo zero, dei ghiacci polari, in condizioni di pressione, anaerobiosi, concentrazione, acidità e basicità più invivibili. Addirittura si sta sempre più postulando l'esistenza di forme di vita batterica all'interno dello strato roccioso superficiale della Terra, fino a svariati chilometri di profondità. Forme capaci di tassi di riproduzione effettivamente esponenziali, esplosivi, che sembrerebbero rappresentare dunque, sia per la loro persistenza nel tempo geologico che nei più disparati siti naturali sia per il loro potenziale genetico, la forma di vita più adatta mai apparsa sulla terra. Eppure il processo evolutivo ha, si noti bene, ripetutamente condotto all'emersione di forme di vita diverse da queste; forme pluricellulari, marine, terrestri e capaci di solcare i cieli della terra, dove, incontrastati, sono senza tregua seguitati a persistere, in quantità ed estensione ineguagliate, proprio le forme unicellulari e batteriche. Non rappresenta questa una palese incongruenza evolutiva?

Perché dunque si sono ripetutamente verificati processi di deriva verso la complessità, verso forme di vita sì più complesse ma nello stesso tempo meno efficaci e più vulnerabili? E' lecito considerare questi fenomeni di deriva fortuite coincidenze e non delle potenziali prerogative, sia chiaro attendibili solo statisticamente nei loro caratteri più generali, del processo evolutivo stesso, da tenere in debita considerazione alla pari dei fenomeni di radiazione evolutiva, di omologia ed analogia solitamente invocati da paleontologi, evoluzionisti e genetisti?

La seconda evidenza è costituita dalla peculiare capacità d'indurre un ambiente progressivamente più selettivo dovuta all'evoluzione degli apparati neuro psichici, in altre parole dall'emersione progressiva del sistema nervoso, ed in ultima istanza dello psichismo e della coscienza. Questa salita verso forme man mano più efficaci di psichismo delle forme viventi, che non è una professione di fede della zoologia quanto una evidenza sperimentale e teorica, è infatti espressione di un processo evolutivo che si pone in netto contrasto con i fenomeni evolutivi a carico di ogni altro organo delle specie viventi. Il sistema nervoso infatti imbocca singolarmente la via di una despecializzazione delle sue funzioni che conduce, non importa in quale forma, all'emersione di un organo capace sempre più di una percezione più sofisticata ed estesa dell'ambiente.

Questa oggettiva polarizzazione evolutiva rende dunque realisticamente attendibile l'emersione di forme viventi progressivamente più evolute dal punto di vista psico anatomico. Questo processo inoltre innesca una dinamica autocatalitica che conduce ad un'esasperazione della pressione selettiva all'interno delle popolazioni interessate a questi fenomeni, principalmente per il fatto che tramite imitazione e trasmissione culturale l'evoluzione genetica, di natura darwiniana, viene man mano surclassata da un tipo di selezione ed evoluzione lamarkiana molto più rapida. La spinta evolutiva che ne deriva fa sì che gli organismi, evolvendo, vanno incontro a processi evolutivi sempre più serrati, in scenari che, pur se diversi, incommensurabili tra di loro, sono accomunati da un'analoga emersione psichica. Tutto questo, beninteso, rappresenta una dinamica sottesa ad ogni particolare processo evolutivo che non potrà mai essere identificata con il contingente svolgersi dello stesso nelle particolari forme viventi originatesi di volta in volta. Come alcuni autori hanno proposto, queste qualità rappresentano degli aspetti non predeterministici quanto predisposizionistici della natura. Le dinamiche naturali dunque sembrano evidenziare solo una direzione teleonomica lassa, a grana grossa, di scenari bio evolutivi.

Tutte queste risultanze, nel tentativo di sostenere una valenza finalistica nei processi evolutivi, possono cioè deporre esclusivamente a favore di un quadro che postuli nell'universo una emersione ripetuta, non predeterministica dunque ma solo statisticamente attendibile, di forme viventi autocoscienti assolutamente imperscrutabili a priori nei loro dettagli biologici ed etologici.

Richard Dawkins, genetista a cui sicuramente nessuno potrà mai attribuire un atteggiamento filo creazionistico, prospetta, in merito alle possibilità di quantificare le possibilità dell'emersione di forme viventi, che tali stime dovrebbero essere condotte componendo tre fondamentali frazioni di probabilità: la prima per rappresentare l'apparire nell'universo di idonei sistemi planetari, la seconda per l'innescarsi un processo di evoluzione biologica, la terza per l'emersione di una forma di vita intelligente (non si parla assolutamente della specifica emersione dell'uomo).

Ebbene, lo stesso Dawkins ammette il fatto che, stando allo stato delle conoscenze sui vari fenomeni e fattori in discussione, la maggior parte dell'incertezza risiederebbe, forse contrariamente a quanto comunemente inteso, nella prima frazione, nel senso che, una volta realizzate tali condizioni di partenza, lo svolgersi del meccanismo bio evolutivo ha in sé tutte le potenzialità per sfociare verso scenari contraddistinti da forme progressivamente più perfezionate, non meno sotto il profilo psico intellettuale, quanto imprevedibili a priori nei dettagli. Potremmo quindi tentare di spendere quasi tutte le nostre chances nella possibilità di contare su idonei siti planetari ed attendere con una certa tranquillità il verificarsi delle dinamiche successive. Il problema dunque si tende pragmaticamente tra due possibili estremi:

•  Il fenomeno evolutivo si è realizzato solo sulla terra;

•  Il fenomeno evolutivo si è realizzato almeno su ogni pianeta di tipo terrestre in ciascun sistema planetario esistente nell'universo.

È chiaro che si potrebbe più realisticamente prevedere l'esistenza di scenari intermedi, ad esempio l'esistenza di forme di vita in almeno un pianeta per galassia e così dicendo, al fine di prospettare opzioni più prudenti e realistiche. Pur restando il fatto scientifico che, sinora, le forme di vita sono conosciute solo sulla terra, sembra che il corredo teorico necessario per poter spiegare naturalmente l'emersione della vita sul nostro pianeta ci porti a considerare inevitabilmente riduttiva la prima opzione.

Ed è questo che spinge i biologi ad interessarsi sempre più della cosiddetta esobiologia: le esigenze teoriche della concezione evoluzionistica infatti non possono esimersi di intendere il processo evolutivo, alla stressa stregua di ogni altro fatto comprensibile tramite un modello scientifico, al di là della contingente espressione terrestre. Così come infatti una teoria scientifica può essere dedotta dalla verifica delle uniformità e ricorrenze sottese ai singoli fenomeni, anche in merito a questi processi eminentemente storici, dunque irripetibili nei dettagli come giust'appunto le dinamiche bioevolutive, la scienza è costretta a postulare conclusioni speculative positivamente disposte verso una accezione universale, plurale, del fenomeno evolutivo. Il processo evolutivo può allora essere inteso come dinamica cosmologica e pertanto rientrare nella cornice degli eventi fondamentali della cosmologia, aspirando forse ad un ruolo anche maggior elitario rispetto al passato. Una possibile obiezione a quest'ultima accezione del processo evolutivo può invero derivare da valutazioni relative sia alla finestra spazio temporale in cui i processi bioevolutivi possono avere luogo, sia all'aspetto quantitativo degli stessi, specialmente in confronto alla scala dei tempi universali. Od ancor più di come, a livello termodinamico, possa essere problematico intendere quale fine dell'universo un evento fisicamente e cosmologicamente irrisorio, nonché cronologicamente di molto antecedente alla serie di fatti futuri, terminali, che si dispiegherebbero tra la cosiddetta morte termica od il big crunch.

In merito a tali eventuali obiezioni c'è da dire che valutazioni di tipo quantitativo non possono essere valutate in senso finalistico teleologico.

Tanto per fare un esempio, l'esiguo rapporto tra la biomassa umana e quella costituita da tutte le forme di vita coesistenti o sinora succedutesi sulla faccia della terra (rapporto dimensionale sicuramente superiore a 1: !) potrebbe essere tranquillamente invocato per inficiare tutti gli ortodossi tentativi finalistici sinora condotti per intendere l'uomo quale fine dell'evoluzione terrestre.

Per quanto riguarda la seconda obiezione è sufficiente riflettere su una semplice metafora: di un cerino non resta altro che un residuo di nero legno carbonizzato, ma nessuno potrà obiettare che un cerino non possa rispondere ad una esigenza teleonomica, ad un uso, ad un progetto, ad una funzione che non si identifica affatto nell'esistenza finale di un grumo di cenere.

Oppure, l'universo è un pasto gratuito? È chiaro che in questo contesto interpretativo sono pertinenti aspetti ben diversi da tali valutazioni quantitative contingenti. Si può assumere dunque una connotazione universale ai processi bio evolutivi con l'evenienza che questi fenomeni risultino statisticamente ricorrenti nell'universo, ma solo in scenari unici, irripetibili ed imprevedibili nei dettagli. In particolare, è possibile postulare l'origine di quadri bio evolutivi caratterizzati dalla presenza di organismi dotati di strutture psichiche progressivamente più raffinate, capaci infine di supportare l'emersione dell'intelligenza, della coscienza riflessa. Questo, sia chiaro, non rappresenta l'inevitabile scenario che segue ad una qualsiasi emersione di forme viventi sulla fascia di un pianeta, quanto un complemento secondario del fenomeno evolutivo, comunque realisticamente attendibile per quanto sempre imprevedibile a priori, che risulta quasi inscritto nelle leggi naturali. Un dato di fatto che, muto, resta a disposizione di chi voglia avanzare valutazioni teologico metafisiche, ma che non può assolutamente essere piegato a qualsiasi eccesso, da qualsiasi parte si voglia, in merito o alla rigida valenza teleonomica o alla completa caoticità delle singole, contingenti realizzazioni evolutive.

A tal pro, ecco, di sfuggita, un ulteriore brano di un Huxley acuto ed ironico – se si pensa al contesto critico in cui è collocabile – e forse profetico di quel senso prudente che si stà proponendo per una corretta valutazione metafisico teologica delle dinamiche bioevolutive: «La teologia, la quale presuppone che l'occhio, così come lo vediamo nell'uomo o in uno dei vertebrati superiori, sia stato fatto precisamente con la struttura che presenta, al fine di consentire di vedere all'animale che lo possiede, ha indubbiamente ricevuto il suo colpo mortale. Tuttavia è necessario ricordare che c'è una teologia più ampia la quale non è toccata dalla dottrina dell'evoluzione, ma è fondata effettivamente sulla proposizione fondamentale dell'evoluzione. Questa proposizione è che il mondo intero, animato e inanimato, è il risultato della mutua interazione, secondo leggi definite, delle forze possedute dalle molecole di cui era composta la primitiva nebulosità dell'universo. Se ciò è vero, non è meno certo che il mondo esistente era potenzialmente contenuto nel vapore cosmico e che un'intelligenza sufficiente avrebbe potuto prevedere, da una conoscenza delle proprietà delle molecole che componevano quel vapore, lo stato della fauna britannica del 1869 con la stessa certezza con cui si può dire che cosa accadrà al vapore del respiro in una fredda giornata d'inverno…» - Thomas Henry Huxley On the reception of the «Origin of Species» in Life and letters, vol. I, pp. 554-555. 137

A questo punto si può ricordare la questione delle cosiddette costanti fisiche fondamentali della natura. 138 Tali grandezze, precisamente definite dalla ricerca scientifica, assumono un concerto di valori estremamente critico ed interdipendente, che non sembra procedere da alcuna legge o relazione naturale sottostante. Perché questo concerto di valori, decisivo nel rendere possibile l'emersione della vita? Perché questo universo?

Per alcuni autori questi fatti rappresenterebbero un indizio a favore di una finalità teleologica che in parte si può anche condividere, a patto di non invocare contemporaneamente l'attuazione di sedicenti predestinazioni etico genetiche assolutamente inaccettabili. Ma questo non è affatto un problema per chi voglia sostenere un'ipotesi creativa divina sui generis. Altro è per chi voglia sostenere certe ipotesi creative divine: è dunque un problema delle caratteristiche di contorno dell'ipotesi teistica, non della stessa.

Come si vede, omettendo contenuti teologici irrazionalmente ancorati ad un'improponibile visione antropocentrica a favore di un finalismo meno focalizzato sull'uomo, è possibile disporre di un modello scientificamente coerente quanto teologicamente valido. L'evoluzione non punta sull'uomo, e l'uomo non rappresenta l'apice evolutivo, l'evento terminale dell'evoluzione: siamo forse solo dei contingenti comprimari, confinati in uno sperduto angolo dell'universo, di un consorzio universale di enti viventi.

Ma l'uomo, pur scalzato dal ruolo, infondato, di apice dell'evoluzione, può sostenere comunque una relazione con il sacro non meno soddisfacente di quanto avvenuto sinora. In tutto ciò anche la divinità subisce ovviamente una riformulazione formale: e tutto questo compone diversamente il rapporto ontologico tra uomo e Dio, evidenziando nuovi interessanti contenuti.

In un contesto evoluzionistico indeterministico, la teleologia della creazione non è più incentrata in una determinata specie vivente ed in ambiti esistenziali su cui porre valori etici superiori, intervenire, vigilare e sui quali attuare veti e sanzioni. Il gesto creativo costituirebbe un progetto in cui non si predefinisce l'emersione di alcuna realtà etica o genetica da sottoporre all'osservazione di vincoli di origine sovrannaturale: un fatto, questo, a cui una divinità non è necessariamente né avvezza,bramosa. In tale progetto il creato sarebbe lasciato evolvere, essere, in piena libertà, quale intrinseca, spontanea manifestazione delle leggi naturali. In modo analogo, l'uomo risulterebbe totalmente libero di essere e divenire, sia nelle sue prerogative che nei suoi limiti naturali; ne deriva la condizione ontologica di un ente eticamente indipendente dalla divinità. Questi esseri sono cioè, finalmente, ontologicamente liberi, responsabili ed autonomi anche dinanzi al loro stesso creatore. Questo è l'unico senso teleologico proponibile in un processo di evoluzione biologica pertinente nell'ontopoiesi della coscienza riflessa, nell'emersione del pensiero nel creato.

E nell'ipotesi di intendere la natura quale ente creato questo è quel che la stessa natura, se indagata in modo non banale e preconcetto con i mezzi della scienza, ci dice esplicitamente in riferimento al suo presunto creatore ed alle sue volontà! Qui come non mai abbiamo l'eventualità di estrapolare la famosa frase di Galileo Galilei per notare come in realtà l'osservazione delle modalità di «… come vadia il cielo…» 139 ci permetta alla fin fine di poter porre delle pesanti discriminanti teologiche.

Questo e solo questo aspetto rappresenta dunque il possibile fine teleologico della creazione da parte di una divinità che si può scientificamente ammettere: naturale e totale libertà alle creature. Questo testimoniano tutte le dinamiche cosmologiche e bioevolutive. Sembra quasi che la natura urli questa verità… assolutamente inascoltata oramai per millenni.

Ebbene: quali sono le questioni epistemologiche e filosofiche più significative sollevate da queste concezioni della realtà? Cosa implica questa concezione nell'idealistica esistenza di una intelligenza superiore, o, parafrasando Einstein, sulle partite a dadi di Dio ?

Si possono a questo punto fare due considerazioni finali, rilevanti sì sotto profilo metafisico epistemologico ma ancor più teologico:

1) Se un'intelligenza creativa superiore, volesse disporre l'evolvere di una qualsiasi semplice dinamica naturale nell'ambito di un ben determinato progetto creativo si troverebbe nell'estenuante necessità di sobbarcarsi la supervisione ed analisi continue dell'enorme quantità di eventi fisici elementari in atto nella totalità dei livelli del reale, nessuno escluso, vista la natura complessa delle dinamiche naturali che avrebbe essa stessa originato.

Usando termini cari alla metafisica teologica, a cui più o meno inconsapevolmente facevano riferimento sia Laplace, che Einstein e Plank, la teleologia del creato, la stessa provvidenza divina o, in termini più generali, l'influenza determinativa della divinità sul divenire dell'universo fisico non può assolutamente esimersi da una continua e totale dedizione conoscitiva ed attuativa. Una eventualità teologicamente possibile questa, che però spoglia totalmente le sue creature da ogni pur minima ipotesi di libero arbitrio. In questa eventualità infatti Dio si sarebbe dovuto cimentare per almeno quindici miliardi di anni, in ogni luogo e tempo dell'universo, nella supervisione di ogni singolo lancio in una partita a dadi di estenuante impegno giocata in tutto l'universo in cui si sarebbe avuta come posta in palio l'emersione specie umana! Ogni decadimento radioattivo, ogni transazione energetica in atto in un qualsiasi orbitale atomico, ogni fenomeno quantistico, ogni dinamica naturale, dalle fluttuazioni di una invisibile particella subnucleare alle violente maree cosmiche, ogni pur insignificante mutazione genetica, ogni battito di farfalla, ogni nuance, tempo ed evento della realtà debbono essere sottoposti all'analisi ed al controllo fine, ossessivo, di tale intelligenza, essendo potenzialmente in grado di far deviare l'evoluzione del creato verso scenari assolutamente in contrasto con il raggiungimento di determinate finalità.

Ed ancor più tutti gli eventi evolutivi, dalla sintesi prebiotica delle prime proto cellule alle mutazioni genetico metaboliche che condussero alle prime cellule eucariotiche, dall'impatto dell'asteroide che decretò l'estinzione dei dinosauri all'acquisizione della mano prensile da parte di ominidi protoumani, tutti questi eventi dovrebbero essere stati finemente supervisionati nel loro stesso divenire da ogni divinità che avesse avuto giust'appunto il proposito di creare la specie umana sul terzo pianeta interno del sistema solare in un universo quale quello che osserviamo e descriviamo con le leggi e le teorie della scienza moderna.

Ma se andiamo a valutare queste eventualità non possiamo che concludere come la divinità sarebbe dovuta essere necessariamente in grado di prevedere perfettamente, a monte del loro verificarsi, tutti questi seppur infinitesimi eventi, senza eccezione alcuna. Prendiamo per esempio il caso dell'oggetto che 65.000.000 di anni or sono cadde sulla terra deviando decisamente i processi evolutivi verso l'emersione attuale della specie umana. In quale modo si sarebbe potuto supervisionare questo evento?

Di quel corpo celeste si sarebbe dovuto prendere in considerazione ogni aspetto fisico chimico: massa, posizione, traiettoria, quantità di moto, velocità, composizione etc. Ed altrettanto si sarebbero dovuti valutare tutti quei fattori dinamici, gravitazionali etc. che condizionarono la sua traiettoria fino a farlo cadere sulla terra. Ma altrimenti sarebbero dovute essere supervisionate le orbite terrestri sin dalla formazione originaria del sistema solare… e così via a ritroso fino a comprendere l'urto anteriore con la Luna, le variazioni di massa della Terra, le relative modifiche dell'orbita, la posizione generale del sistema solare rispetto alla Via Lattea, tutti gli oggetti celesti circostanti e cosi via, senza alcuna pur minima possibilità di discriminazione. Un recesso esorbitante. Questo è quel che ci dimostra la meccanica odierna e l'analisi matematica dei sistemi fisici, in particolare quelli complessi. Se si vuol determinare a priori il verificarsi di un evento di tal fatta ci si deve fare carico di questa analisi infinita. Tutto ciò è possibile solo ed esclusivamente determinando e regolando, in qualsiasi modalità si voglia non fa differenza, le influenze di tutti i fattori che contribuirono a quell'evento, dai più minuscoli ai più universali.

Ma questa eventualità implicherebbe inevitabilmente a livello ontologico, ed è questo che risulta decisivo, che tutte le dinamiche naturali risultino irrimediabilmente deterministiche, almeno per la divinità, ovvero che all'origine del creato tutto il futuro, in ogni dettaglio infinitesimo, possa essere totalmente compreso a monte del suo divenire dalla stessa. Ed altresì, che la divinità si faccia avvezza di imporre ab ovo l'introduzione nell'immanente di oggetti e/o eventi in deroga alle normali dinamiche naturali in atto – sia ben chiaro sempre e comunque riferiti, in ogni ipotesi creativa, a suoi gesti creativi causalmente anteriori. Un aspetto questo ovviamente inquietante ed inaccettabile a livello teologico, come è facile intuire, specialmente nella concomitante eventualità – o meglio necessità – di concedere un qualche spazio alla possibilità delle creature di esprimere autenticamente e responsabilmente le loro volontà personali. Questa goffa alternativa metafisica risulta dunque assolutamente problematica se non inattuabile sotto ogni profilo.

2) L'unica alternativa concepibile a tale, estenuante impegno divino, per inciso teoricamente lecito da proporre, possibile, quanto problematico, avvilente, poco convincente e credibile sotto il profilo teologico, è quella di una divinità postulata solo ed esclusivamente quale origine, causa causarum, di un universo... perfettamente lasciato a se stesso. Dunque un universo, seppur originato da un proposito creativo divino, in cui però non si cerchi minimamente, magari con interventi posticci, goffi ed inopportuni – se non addirittura assolutamente non necessari –, di forzare gli eventi al fine di fare emergere una qualche dinamica naturale specifica.

Ebbene: è possibile sostenere logicamente e teologicamente questa ulteriore concezione? La risposta è che oggi come oggi possiamo tranquillamente asserire come non si veda all'orizzonte nulla e nessuno in grado di obiettare o confutare alcunché in tal senso. Eppure un'eccezione immediata che, penso, potrà essere sollevata in particolare da certi ambienti, potrebbe essere la seguente: «Sì, ma in tal caso che senso avrebbe l'idea di creazione? Quale sarebbe il suo fine? Quale proposito teleologico si potrebbe invocare per motivare tale gesto?»

Sorprendentemente, risposte reciprocamente coerenti e significative a tali domande scaturiscono, sulle prime del tutto inattese, proprio dal collocare le suddette teorie matematiche e fisiche, assieme ad altre, altrettanto decisive teorie scientifiche, in una concezione teologica di tipo religioso. Esse derivano proprio dall'associazione dell'indeterminatezza indotta dalla cesura indeterminismo-determinismo sostenuta in particolare dalla meccanica quantistica, nella cornice teologica religiosa, pienamente coerente con le attuali teorie cosmologico evoluzionistiche, proprio in funzione della valenza creatrice intrinsecamente espressa e supportata dalle divinità non morali proprie della classe delle religioni. Si noti infatti come la mancanza di un'espressione morale, di una supervisione censoria nel profilo delle divinità religiose, la perfetta mancanza di tutti gli aspetti escatologico soteriologici tipici delle teoetotomie, i quali necessitano inevitabilmente l'identificazione e l'attuazione di tutta una serie ben definite mete immanenti – da intendere sottoposti ad una pervasiva supervisione divina –, rende le teologie religiose intrinsecamente capaci di assumere in sé valenze assolutamente non pre-deterministiche e, per quel che riguarda le divinità religiose, elimina qualsiasi impellente funzione interventistica in merito alle vicende naturali.

Una divinità religiosa, niente affatto avvezza ad introdurre in modo posticcio, ripetuto e puntuale il proprio operato nelle vicende mondane – né sottoposta ad alcuna necessità escatologico soteriologica –, è perfettamente associabile ad una concezione cosmologica indeterministica quale quella che emerge dalle teorie scientifiche odierne.

L'asimmetria di cui si parlava più sopra, e successivamente l'indeterminatezza che si esprime nell'evoluzione dei sistemi complessi, ed ovviamente delle forme viventi, focalizzano l'attenzione, in ottica teistico creativa, sul fatto che la natura non subirebbe intrinsecamente nessuna predeterminazione né alcuna supervisione. Pur ammettendo una ipotesi teistica, il creato sarebbe lasciato a se stesso, senza alcuna necessità di supervisione e/o controllo di tal fatta. Un'eventualità quest'ultima assolutamente incomprensibile alla luce delle accezioni canoniche di creazione delle ortodosse, contingenti modalità teologiche – ovviamente teoetotomistiche – a cui si è sinora fatto indubbio riferimento nella trattazione di questi aspetti, quanto assolutamente lecita, inevitabile e perfettamente valida sotto il profilo squisitamente logico filosofico; nonché teologicamente stringente.

È quindi possibile interpretare un evento creativo ad opera di una divinità creatrice quale processo volutamente indeterministico, in cui non si attua alcuna rigida progettualità, o finalità che preveda tempi, luoghi, modalità e caratteri dettagliatamente pre-definiti a monte. Questa ben diversa concezione teologico cosmologica definisce una modalità creativa inedita, in cui non si esplica alcuna predeterminazione fine del proposito creativo ed in cui non è contemplata l'emersione di specifiche realtà naturali, né, ancor più, di alcuna speciale forma biologica da considerare quale realizzazione ultima, finale, in grado di coronare con il suo emergere l'originario intento creativo.

È la natura stessa delle dinamiche naturali che di fatto impedisce – né, ancor più, necessita – di postulare l'eventualità di attuare supervisioni, o interventi di indirizzamento fine degli stessi eventi mondani tali da ottenere, tramite un numero economicamente finito di eventi correttivi, il raggiungimento di un determinato scenario immanente finale. Un quadro questo che ribalta totalmente quelle grossolane e sedicenti accezioni di finalismo implicitamente e necessariamente sostenute sinora in ogni ipotesi teistica anteriore – finalismo questo rigettato con vigore in ogni sano e corretto approccio scientifico.

Questo è un aspetto metafisico molto importante, di assoluta evidenza, visto che tutte le odierne revisioni concordistiche puntano decisamente su questa miscela di eventualità: processi evolutivi frammisti a puntuali, attivi interventi della divinità. Nella fattispecie questo è quanto proposto nelle odierne speculazioni dei teologi cattolici – ed invocato in modo molto discutibile e confuso, come abbiamo visto, dallo stesso Magistero cattolico – in cui a Dio si affida l'ufficio, od onere abilmente nascosto dietro una facciata di sedicente liceità, di operare interventi diretti nelle fasi critiche dell'evoluzione biologica: origine della vita, delle forme viventi superiori ed infine origine speciale – compresa infusione sovrannaturale dell'anima – dell'uomo.

Ma il fatto è che questi eventi risultano tutti assolutamente gratuiti, ed assolutamente non necessari, se si inquadra in modo distinto – quanto scientificamente ed epistemologicamente coerente – la questione. È piuttosto questo il classico caso di invocare il rasoio di Ockham.

L'aspetto saliente di questa nuova concezione è che le dinamiche complesse sono tali da rendere in breve del tutto vano qualsiasi intervento di tal fatta, dato che l'eventuale valenza di tali interventi risulterebbe limitata dall'influenza irriducibile e progressivamente sempre più estesa di tutti gli innumerevoli fattori presenti nella realtà cosmologica in cui si dovrebbero realizzare le divine finalità. In aggiunta poi, tutto questo sarebbe poi estremamente problematico da includere in una definizione teologicamente valida del ruolo e del profilo della divinità creatrice. Perché questi goffi ed ineleganti rattoppi? Perché tutte queste correzioni? Dov'è la sontuosa eleganza creativa che dovrebbe esser propria di una divinità? Chi sarebbe questa divinità così sprovveduta, confusionaria, inetta, addirittura patetica quanto incapace nell'espressione nelle sue prerogative creative? Chi sarebbe questa divinità intenta a scansare asteroidi, costruire pianeti od ad pasticciare con le gonadi di primati mollemente appollaiati sotto un albero? Come può assumere in sé il benché minimo livello di perfezione, di assolutezza e di quant'altro carattere solitamente riconoscibile alla sfera del divino, un mesto ed idiota Dio tappabuchi di tal fatta?

La cornice metafisico cosmologica che emerge dall'analisi delle dinamiche delle realtà naturale è tale da ammettere solo profili di una valenza deterministica della divinità creatrice del tipo tutto o niente, un aspetto questo teologicamente molto significativo. Nel caso del tutto … la divinità non può che precludere in modo assolutamente devastante ogni determinazione spontanea, ogni nuance dell'esistenza alle varie creature. Al contrario, nel caso del niente … le creature si trovano ad esistere… in una situazione assolutamente positiva, significativa ed elitaria sotto il profilo ontologico: sono lasciate libere, perfettamente libere dal loro stesso creatore divino! Un significato ontologico – nonché teologico – sconcertante e rivoluzionario questo: niente supervisione – specialmente etica – a carico delle creature che emergono nel creato! La differenza è decisamente sostanziale sia sotto il profilo teologico che filosofico. E d'indubbio risalto etico, ed addirittura politico, come vedremo.

Il fatto che le dinamiche naturali sono lasciate a se stesse, libere di evolvere naturalmente verso qualsiasi eventualità, assume un'evidenza non più eminentemente metafisica quanto accessibile, verificabile addirittura alla stessa indagine scientifica, e questa evidenza esprime un risalto decisivo nella verifica tra alterne concezioni teologiche – religiose e teoetotomistiche – dotandoci di un termine significativo di discriminazione nel nostro originario intento di verifica epistemologica di distinte ipotesi teologiche.

A livello fisico, cosmologico e bio-evolutivo esistono dunque evidenze fondamentali in grado di fare la differenza. Un universo in evoluzione indeterministica, dove processi fisici, cosmologici, ma principalmente biologici, pur nei loro ovvi limiti fisici si accavallano in totale libertà, totalmente scevri da qualsiasi interferenza sovrannaturale, rappresenta una cornice metafisica coerente solamente con una teologia dove la divinità non esprima alcuna supervisione, né alcun intervento nei processi naturali. Ed è singolare – se non sospetto – cercare di sostenere, come in ultima ratio si sta facendo nel tentativo di trovare concordanza tra assunti teologici e concezioni scientifiche, che in tutta quella concessione traboccante di libertà che osserviamo nell'intera natura la divinità si riduca ad esigere alla fine una sovranità morale su una dei milioni e milioni di specie viventi presenti nel creato, addirittura in ossequio ad una sorta di predilezione divina nei confronti della stessa! Incomprensibile!

Si valutino a tal pro, alla luce di questa nuova accezione, le seguenti riflessioni di Einstein: «Chi è fermamente convinto che la causalità sia un principio assoluto e continuamente operante non può, neppure per un momento, pensare a un essere che interferisca nel corso degli eventi… Un tale individuo non sa che farsene della religione della paura e nemmeno di una morale religiosa o di una religione sociale. Un Dio che ricompensi e punisca è per lui inconcepibile, per il semplice motivo che le azioni dell'uomo sono determinate dalla necessità, esterna e interna, e perciò agli occhi di Dio egli non può essere ritenuto responsabile, così come un oggetto inanimato non lo è dei movimenti che subisce… Il comportamento etico dell'uomo dovrebbe basarsi in maniera attiva sulla solidarietà, sull'educazione, sui legami e sui bisogni sociali. L'uomo sarebbe ben poca cosa se fosse necessario controllarlo con la paura del castigo e la speranza della ricompensa dopo la morte.» - Da Religione e Scienza, «New York Time Magazine», 9 novembre 1930, pp. 1-4. 140

Il profilo di una divinità morale – tipica delle dottrine teoetotomistiche – è dunque assolutamente inaccettabile quanto teoricamente improponibile, sempre che si vogliano tenere in debito conto le evidenze scientifiche ed i più basilari principi della logica. Per primo non si riesce a proporre alcuna concreta motivazione dell'eventualità di togliere la facoltà di esprimere la propria autodeterminazione mondana ad una determinata specie, l'unica – da quanto possiamo osservare sinora – in grado di esprimere compiutamente una autocoscienza ontologico morale, in grazia addirittura di una sua sedicente superiorità ontologica! Quale sarebbe il senso di questa concessione ? Quale il senso di questo vero e proprio sopruso etico, di questo vero e proprio becero autoritarismo su di un essere assolutamente incolpevole della propria condizione ontologica?

Secondo, perché la divinità dovrebbe mostrarsi quale dio creatore intento ad ovviare ad un creato che sfugge dai suoi originari intenti – oppure, e questo sarebbe ancor più grave – che contenga in sé i germi di eventuali deroghe e/o corruzioni? Il creato risulterebbe forse uno strumento inadeguato per giungere spontaneamente ai risultati finali che si erano divinamente proposti? Non sarebbe questa una palese e clamorosa denuncia di una imperdonabile ed assoluta carenza di onnipotenza creativa?

È facile convincersi quindi che la concezione indeterministica della scienza odierna risulta in definitiva – allo stesso modo di come, in senso generale, il big bang è in grado di poter essere ospitato in una ipotesi creativa – perfettamente coerente con la modalità religiosa ma nello stesso tempo essa si mostra del tutto improponibile, per ovvi motivi, nell'opposta modalità teoetotomistica.

Anzi, questa particolare concezione è in grado d'impreziosirsi in funzione della sua capacità di rispondere in modo unico alla domanda di cui sopra. Il fine dell'evento creativo? Semplice e sublime: libertà, perfetto esercizio della propria autodeterminazione etica delle creature. Creature finite quando si voglia ma creature in grado di porre in atto nella loro esistenza una libertà totale, piena, ontologicamente perfetta e gratificante – specialmente ad un'eventuale creatura cosciente – pur nel suo essere commisurata agli intrinseci limiti dello status ontologico di creature.

La nostra conclusione è che questa concessione di libertà è l'unica valenza teleonomica, l'unico concreto e verificabile tipo di finalità che possiamo coerentemente derivare in ottica metafisica dall'analisi scientifica delle dinamiche biologiche. Una libertà che si origina e si esprime dunque in una realtà naturale assolutamente non pan-deterministica quanto aperta, traboccante di autentica novità, in cui ogni creatura, e soprattutto eventuali creature dotate di autocoscienza, possono esprimere pienamente la loro autonomia etica.

Si noti anzi come questa eventualità, in un contesto teologico religioso, conduce addirittura una sacralizzazione del concetto di libertà etica, ponendo questo aspetto addirittura come termine teologico creativo: le creature sono originate tramite un processo creativo divino in cui emerge chiara e netta niente di meno che una necessità di esprimere pienamente la loro autonomia etica. Una necessità che emerge ad ogni livello, che trasuda da ogni sfaccettatura naturale, che è proclamata da ogni dinamica naturale: le creature, tutte, senza eccezione, scaturiscono da processi non deterministici, derivano dalla libertà, emergono in libertà, sono in libertà. E come tali esse devono essere dunque libere ed infine intese – e rispettate. Una testimonianza della natura, cioè di quel che dovremmo considerare come la più diretta ed incontaminata espressione dell'ente creatore che, in ultima analisi, non dobbiamo minimamente ignorare nell'ambito in cui più di ogni altro esprimiamo la nostra influenza: nell'ambito sociale, relazionale.

Questo è l'aspetto teleonomico di fondo ossessivamente ribadito, oserei dire urlato dall'intera creazione! Come ignorarlo; alla luce di quale principio non rispettare questa esplicita e significativa testimonianza specialmente là dove possiamo finalmente esprimere la piccola ma significativa sfera della nostra determinazione personale, del nostro essere individui umani, creature autocoscienti, eticamente responsabili e liberi? Ecco forse emergere, finalmente, dopo migliaia d'anni di disconoscimento e d'oblio, l'autentico senso di Gv 8,22:

«… e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi».

 

Note

137 John C. Greene, [1984], op. cit. p. 350.

138 Davies Paul – op. Cit. Milano, [1984], [1993]. Barrow D. John, Tipler J. Frank Il principio antropico. Adelphi, Milano, 2002; Le scienze. Versione italiana di Scientific American, n° 162. Il principio antropico. Gale George, febbraio 1982.

139 Galileo Galilei, Lettera a Madama Cristina, in Opere, V, pp. 315-343.

140 Albert Einstein [1997], op. cit., p. 111.

 

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