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Il reality bootstrap
L'epistemologia moderna ci ha da tempo reso consapevoli di come la scienza, solitamente indicata come settore di conoscenza oggettiva per eccellenza, “autoevidente in sé”, sia in realtà anch'essa basata su dei presupposti metafisici: per l'esattezza ci riferiamo ad un'ipotesi “realistica” in cui si pone a priori di ogni osservazione scientifica l'esistenza di una realtà “univoca ed oggettiva” che, tramite strumenti scientifici, l'uomo cerca di indagare e svelare in un processo senza fine.
Tale corrente filosofica, nominata “realismo” e comunque distinta da un semplice realismo ingenuo, rappresenta la base metafisica dell'azione scientifica. Una cornice metafisica dunque, rimasta inalterata anche davanti a rompicapo della natura che sembrano mettere in crisi tale assunto - il riferimento scontato è per la fisica del sub nucleare, la meccanica quantistica -, in cui si ammette che esiste, “là fuori”, “una realtà” autonoma, che sussiste in coerenza, a prescindere dalla nostra osservazione, e si estende a comprendere anche il nostro “essere” o, più prosaicamente, di cui siamo parte .
L'atteggiamento dello scienziato contemporaneo non può più prescindere dalla corretta valutazione epistemologica sia del proprio ambito di ricerca che dei limiti intrinseci della stessa rispetto alla realtà in sé. E questo vale in special modo allorquando si cerca di avvicinare i temi inerenti le manifestazioni dell'oggetto più complesso osservabile in natura: il cervello umano.
Da un'esatta collocazione epistemologica di questa stupefacente opera della natura deriva addirittura la corretta consapevolezza del nostro stesso processo d'indagine, aspetto determinante proprio in campi di ricerca in cui convergono non solo interessi scientifici, ma temi filosofici ed esistenziali di ciascun essere umano. A questo argomento afferiscono infatti gli interrogativi più universali dell'uomo: da dove proveniamo? Chi siamo e cosa saremo? Perché esistiamo? Perché tutto questo e non altrimenti? Quali influenze ha sul nostro comportamento e sulla nostra personalità l'ambiente in cui ci formiamo, “sorgiamo” psichicamente, e quali influenze possono esprimere determinate strutture socioculturali sulla nostra stessa consapevolezza?
In particolare negli ultimi decenni, sull'onda lunga di un'impressionante maturità esplicativa, la scienza ha iniziato ad affacciarsi in modo sempre più netto, e sicuramente “ingombrante” per taluni, anche in ambito filosofico. Una “invadenza” che ha inevitabilmente originato un acceso contrasto intellettuale. Il patto sacro tra scienziati e filosofi, implicitamente stipulato agli albori della storia della scienza moderna, sembra sul punto di rompersi. Quali gli scenari, quali i risultati?
Lo scienziato moderno spesso fa proprio un atteggiamento di specializzazione della ricerca che porta ad approfondire progressivamente lo studio di un ambito sempre più ristretto e particolareggiato d'indagine. Se questa specializzazione è l'inevitabile prezzo da pagare per far fronte allo sforzo sempre più esasperato e concentrato della ricerca scientifica, è altrettanto importante sottolineare la continua necessità di condurre dei tentativi di sintesi dello state of art delle diverse discipline.
Nel corso della storia della scienza non sono mancati esempi di studiosi capaci di porre “trasversalmente” inquietanti e pertinenti interrogativi, nonché di fornire perspicaci risposte, o quanto meno di delinearne alcuni fondamentali contenuti, in settori formalmente lontani dai propri.
Pensiamo ad esempio a Schrödinger ed alla sua intuizione, pertinente nel campo della biologia, sull'esistenza del DNA, che il grande fisico ipotizzò nel suo autorevole What Is life? (1) ricorrendo all'immagine dei cristalli aperiodici, o alla valenza filosofica della teoria evoluzionistica della conoscenza sviluppata, tra gli altri, dall'etologo Lorenz e da questi esplicitata esaurientemente in L'altra faccia dello specchio (2) .
Quest'istanza risulta quanto mai “necessaria” nell'ambito delle scienze dell'uomo. In questo campo infatti è oramai incalzante l'esigenza di un approccio olistico, di una forma mentis inedita, criticamente aperta verso una padronanza efficace di contesti, linguaggi, tecniche e strumenti di lavoro molto diversi tra di loro.
Cogliere le connessioni ed i vincoli esistenti tra aspetti disciplinari reciprocamente lontani, trarre correlazioni tra discipline apparentemente divise da ampi iati, ad esempio tra fisica quantistica, teoria dei sistemi e scienze umane, costituisce un risultato di ricerca significativo, che nulla ha da temere rispetto a classici studi in campi specifici delle scienze umane, come la psicologia, la neurologia, l'etnopsichiatria, la sociologia. Questi obiettivi trasversali possono essere conseguiti solo tirando le fila di un'estesa indagine, purtroppo non onnicomprensiva data l'ampiezza del dispiegarsi delle varie discipline, su cui dinanzi ad un'inevitabile despecializzazione si possa far affidamento quale adeguato contraltare all'ampiezza di un'analisi “meta-disciplinare”.
Un esempio emblematico, e particolarmente pertinente per l'argomento di questo lavoro, deriva da una valutazione dal punto di vista delle scienze biologiche della meccanica quantistica (in seguito M.Q.). Questa potente teoria fisica ha rivelato aspetti paradossali della realtà, che hanno lasciato profondamente interdetti gli scienziati ed alimentato accesissime polemiche.
Uno dei padri della M.Q., Schrödinger, propose un esperimento ideale (gedanken experiment) quale metafora del paradossale senso epistemologico derivante da questa teoria: l'esperimento del “gatto di Schrödinger”, con cui si è soliti rappresentare uno dei grandi paradossi della M.Q.: la sovrapposizione degli stati quantistici. Egli propose di porre in una scatola un gatto ed un particolare dispositivo, capace di aprire una fiala di veleno a seguito dell'eventuale decadimento di una piccola quantità di isotopi radioattivi, uccidendo o meno il povero gatto. Il decadimento radioattivo è un tipico fenomeno quantistico: secondo la teoria eponima della M.Q. il collasso della funzione d'onda è un processo che dovrebbe verificarsi o meno in concomitanza dell'osservazione del contenuto della scatola da parte di un osservatore umano. Sino all'apertura della scatola ed all'osservazione delle condizioni di salute del gatto da parte dell'osservatore, fatto questo che potrebbe essere liberamente ritardato nel tempo, il gatto sarebbe dovuto restare, secondo l'interpretazione classica della teoria conosciuta come “interpretazione di Copenaghen”, in una “irreale” sovrapposizione di stati “vivo-morto”, ovviamente incompatibili.
Secondo la teoria, in sintesi, il gatto dovrebbe mantenersi in una sorta di situazione “impossibile”, certamente non “media” quanto nebulosamente posta tra i due stati “vivo” e “morto”, tra di loro “controfattuali”, sino all'apertura della scatola, comunque questa sia ritardata! Ai giorni attuali, per ovviare ad alcuni controversi aspetti e anche sulla spinta delle forti critiche che specialmente a partire del grande Einstein furono sollevate nei confronti della formulazione ortodossa della M.Q., molti studiosi sostengono l'opportunità di sottoporre gli aspetti epistemologici della teoria a una parziale revisione non detrattiva di molti suoi capisaldi.
In questa sede non si intende contestare la validità degli aspetti teorici propri della M.Q., la quale, tanto per fare il punto, specialmente nella formulazione della cromodinamica quantistica (Q.C.D.), rappresenta la teoria scientifica formulata dall'uomo più estesamente e precisamente verificata di tutti i tempi – si parla di precisione delle previsioni fatte su questa base teorica confermate al livello di uno su ! –, quanto porre alcune riflessioni di natura biologico-evoluzionistica di pertinenza epistemologica, dato che nella ortodossa teoria quantistica viene ad assumere un ruolo fondamentale, a detta dei suoi fondatori, il concetto di “coscienza” o “consapevolezza” umana.
Dato che è dunque in ballo un concetto “anche” biologico, è lecito porre in tal senso dei distinguo procedenti dalle scienze biologiche, le quali stanno prospettando profonde revisioni di tali concetti, con inevitabili ricadute sul piano epistemologico. Questo piccolo ma decisivo processo di revisione paradigmatica ci permetterà di giungere ad un importante risultato, ovvero di verificare come concezioni metafisiche sottese al senso comune possano influenzare addirittura alla base, e spesso pesantemente, anche una disciplina formalizzata e hard come la fisica teorica.
L'aspetto romanticamente idealista in cui possono intendersi alcune affermazione dei padri della M. Q., e sovente di tutta una folta letteratura non solo divulgativa dell'argomento, ha indotto una moltiplicazione di correzioni della teoria eponima e dell'esperimento di Schrödinger volte a dissolverne alcuni presunti paradossi. In alcune varianti si suggerisce di interporre tra l'osservatore e l'evento quantistico una registrazione computerizzata o un osservatore umano “intermedio”, posto tra l'osservatore esterno ed il gatto, magari in una stanza chiusa e senza altra comunicazione con l'esterno se non tramite l'osservatore. L'analisi di queste proposte mostra chiaramente quanto ancora oggi nella nostra cultura siano influenti, anche in campo scientifico, concezioni metafisiche inadeguate sul tema della coscienza, e precisamente una mitologica affermazione di una distinta natura ontologica della coscienza umana, ed in generale della natura umana, rispetto al mondo naturale.
Perché “un altro essere umano”? Perché non “un altro essere vivente”? Non si sottintende forse in modo implicito il mito metafisico dell'identità, esplicitamente antropocentrica, coscienza=uomo=anima, tema molto prossimo agli argomenti che successivamente affronteremo?
Mettiamo che nell'esperimento in questione il decadimento dell'isotopo determini, sulla base della variante proposta da John Bell (3), non la rottura della fiala del veleno ma l'eventuale apertura di uno di due scomparti posti nella scatola, l'uno contenente del latte e l'altro un topo. In questo caso sarebbe il topo a rimanere in uno stato di “irreale” sovrapposizione “vivo-morto”.
Lo scienziato che osserva il gatto dell'esperimento originale deduce l'avvenuto collasso quantistico dall'osservazione di elementi macroscopici controfattuali, lo stato degli indicatori degli strumenti, indotti ad assumere distinti stati dall'evento stesso; ma questi ultimi sono essenzialmente enti od eventi fisici alternativi offerti alla stessa osservazione condotta dal nostro gatto, che ha da scegliere tra le opzioni “latte” e “topo” in base all'apertura di una o l'altra delle due porticine. Se la coscienza, come dimostrano sia la teoria evoluzionistica della coscienza che le più recenti ricerche sul comportamento animale (4), sembra emergere da un continuum bioevolutivo che si spinge senza alcuna ontologica soluzione di continuità sino a forme di vita inferiori, quale specifico quid cosciente è necessario per provocare il “livello di osservazione” da cui deriverebbe il collasso quantistico?
Questa obiezione, procedente da osservazioni proprie della più ortodossa scienza biologica, evidenzia allora decisamente il grave errore metafisico implicito nelle precedenti affermazioni di tali fisici: in base a quale principio infatti è possibile stabilire che il livello di “consapevolezza” di un gatto non sia sufficiente per realizzare l'“osservazione” sperimentale?
Quale principio pone la coscienza umana, se intesa come evento fisico, come qualità in nuce ontologicamente diversa dalle capacità percettive e cognitive di altri esseri viventi? Non è questa una pretesa fondamentalmente segnata da una aspettativa metafisica quanto meno antropocentrica o riduzionistica, per non dire addirittura a-scientifica? Si potrebbe, al fine di evidenziare con maggior decisione questa forzatura, concepire un esperimento ancor più significativo: si può far sì che l'eventuale decadimento dell'apparecchiatura posta nella scatola conduca ad accendere o meno una piccola fonte luminosa in uno scomparto contenente una colonia di organismi unicellulari fototropici.
Questi allora si concentrerebbero alternativamente o all'interno della fonte luminosa o seguiterebbero a muoversi disordinatamente nel loro mezzo altrimenti uniformemente illuminato – o oscuro –, realizzando così, semplici microrganismi, realtà macroscopiche controfattuali che possono essere intese come risultati di una “osservazione” quantistica (5).
Siamo dunque indotti a sollevare il quesito inerente al livello di percezione, o di consapevolezza, a cui si realizzerebbe il collasso quantistico. La natura come si accorge della “presenza” del fenomeno coscienza, o del livello psichico dell'osservatore? Nella misura in cui si contestano queste alternative tirando in ballo una particolare essenza qualitativa e quantitativa, ontologica, della consapevolezza necessaria ad una autentica osservazione, si introdurrebbe inequivocabilmente un principio a-scientifico, fondamentalmente animistico, che comunque non basterebbe ad evitare l'insorgenza di altri sorprendenti paradossi.
Cosa succederebbe infatti se si ponesse ad osservare il contenuto della scatola un neonato, in cui l'incompleto processo di mielinizzazione del sistema nervoso rende assolutamente impossibile una qualsiasi esperienza conscia, oppure, molto più prosaicamente, un osservatore umano assolutamente digiuno di meccanica quantistica? Oppure individui che si trovino in stati alterati di coscienza, ad esempio a seguito dell'assunzione di allucinogeni o di patologie cerebrali?
Dulcis in fundum, due piccole ma pertinenti osservazioni scaturiscono da queste semplici eccezioni “biologistiche” alla interpretazione epistemologica ortodossa della M.Q. Da quanti anni l'uomo ha iniziato ad eseguire osservazioni quantistiche? Le prime osservazioni quantistiche risalgono all'inizio di questo secolo: la “prima” di esse è dunque estremamente recente.
Come si potrebbe “iniziare” a fare tali osservazioni nell'ipotesi che la coscienza umana sia, come sostengono i fisici, il vero “motore” del collasso quantistico, e quindi del “precipitare nel reale” della stessa realtà fisica? In questo caso si realizzerebbe un paradosso insostenibile, che potremmo indicare del reality bootstrap: se è necessaria una coscienza “umana” per procurare il precipitarsi della realtà nella dimensione fisica, “reale”, quotidiana, che dà origine concreta ed univoca a pianeti, molecole, esseri viventi, sorge infatti il paradosso logico di come sia possibile giungere alla prima osservazione quantistica.
Nella misura in cui ogni creatura cosciente impegnata ad osservare la realtà, come un paesaggio o un volto, “non” realizza alcuna misurazione degli stati correlati di un evento quantistico – ad esempio quantità di moto e posizione di un elettrone, o l'arrivo di un fotone ai bastoncelli della nostra retina, eventi che restano assolutamente oscuri alla nostra coscienza –, le classiche osservazioni quotidiane non assumono minimamente il significato di misurazioni di questo tipo.
Anche se alcuni di tali eventi possono essere inconsapevolmente percepiti – il nostro sistema visivo può ad esempio essere in grado di percepire, beninteso a livello periferico e ovviamente inconscio, addirittura l'arrivo di un singolo fotone –, l'informazione quantistica non emerge dalla nostra quotidiana osservazione macroscopica.
È quindi impossibile invocare quel concetto di misura da parte dell'osservatore umano cosciente che Bohr e gli altri padri della meccanica quantistica hanno invocato nella formulazione della teoria quantistica eponima: dovremmo infatti dedurre in questo caso che solo dal secolo scorso un qualche ente cosciente abbia potuto procurare collassi quantistici? È evidente il paradosso.
I babilonesi, Socrate, Alessandro Magno, i costruttori delle piramidi egizie, gli Incas, Nietzsche, Kant, Beethoven, Einstein, un nostro antenato del XVIII secolo, Bohr, Schrödinger e Heisenberg non erano enti ontologici già “reali”? Le stesse attrezzature usate da questi ultimi erano già reali: come sarebbe stato altrimenti possibile osservare lo stesso collasso?
Anche le strutture biologiche alla base delle capacità coscienti dell'osservatore della teoria devono essere già reali a monte e durante l'atto stesso della osservazione quantistica. Questo vuol dire, ad esempio, che dovevano essere già “reali” i cicli biochimici connessi alla funzione del citocromo C dei mitocondri delle cellule dell'osservatore, un corredo enzimatico ereditato attraverso centinaia e centinaia di milioni di anni di “reale” storia evolutiva a partire da semplici e altrettanto “reali” predecessori unicellulari.
Possiamo altresì ricordare lo sviluppo filogenetico di tutti quei dispositivi neuro percettivi che risulterebbero “reali” già milioni e milioni di anni prima che la coscienza sia apparsa nei primi ominidi: si pensi agli ossicini dell'orecchio, essenziali per l'udito, derivati dalla lenta e progressiva trasformazioni delle articolazioni dell'apparato boccale dei primi pesci teleostei, o alla frazione limbica del cervello, in cui ha sede tra l'altro la memoria a lungo termine e di importanza fondamentale per la classificazione e l'accumulo delle esperienze e dei concetti, tutti fenomeni irrinunciabili negli stessi eventi coscienti.
Ma allora si potrebbe introdurre un'idea fondamentalmente animistico-fideistica: da quale “osservazione” dovrebbe dunque essere derivato questo mondo secondo la teoria quantistica classica? Ma non è questo il nostro fine: ci muoveremo anzi in una direzione completamente diversa.
Il suddetto paradosso del reality bootstrap si estende comunque ancora molto più addietro nel tempo di questi orizzonti cronologici.
Come sarebbe diversamente possibile “osservare” una grandezza fisica macroscopica come la eco “reale” del Big Bang, la radiazione di fondo a microonde scoperta nel 1969 e all'incirca risalente ai primi 300.000 anni di storia dell'universo, quando ancora non erano stati sintetizzati neppure i mattoni della vita? Per ottenere atomi idonei per la vita, come C, O, N, Mg, e in generale gli elementi della tavola periodica successivi ad idrogeno ed elio, formatisi “poco dopo” il Big Bang, bisogna infatti attendere le immani maree cosmiche originate dalle esplosioni di supernova, eventi che si realizzarono miliardi di anni dopo.
Una coscienza cos'è poi se non un processo pesantemente condizionato da elementi biologici e da percezioni spesso estesamente preconsce ed inconsce, come confermano le moderne neuroscienze?
La retina di uno scienziato ad esempio esegue una complessa rielaborazione assolutamente inconscia quanto essenziale per il fenomeno della visione dei segnali che riceve e che precede qualsiasi percezione della consapevolezza di tali eventi; ciò avviene con modalità simili in altre specie viventi anche filogeneticamente lontane, come ad esempio in un semplice topolino. È questo evento, o l'invio successivo al nucleo genicolato laterale, o la successiva elaborazione parallela di vari nuclei della neurocorteccia, a proporsi come aspetto topico di un'osservazione quantistica?
Anche eventi ritenuti consci, come l'osservazione dell'indice di uno strumento o il raffinato dialogo in atto tra due filosofi, sono continuamente preceduti, nel loro svolgersi, da una serie di attività cerebrali completamente inconsce (6). Azionare un pulsante di un pannello o formulare una frase sensata implica un'attività cerebrale inconscia che precede di alcuni decimi di secondo la consapevolezza di un gesto, sia questo l'emissione significativa di una sequenza di parole o la consapevole assunzione del senso semantico della frase – semanticamente e logicamente confezionata, si noti bene, dalla precedente ed inconscia attività cerebrale. Tra un mero percepire sensoriale e la presa di coscienza di un discorso o l'assunzione consapevole di una misura di laboratorio si ha un analogo ritardo di decimi di secondo. Con cosa coincide allora il collasso: con l'inizio, con la fine degli intervalli di tempo inerenti a questi processi, o con un qualche stadio intermedio?
Queste riflessioni neurologiche suggeriscono in definitiva che il collasso quantistico debba essere molto più realisticamente inteso come un fenomeno completamente “sconnesso” dalla coscienza umana in sé. Ed è estremamente significativo che proprio questo indirizzo di studio sia attualmente in atto: vari fisici teorici stanno infatti riformulando la teoria del collasso quantistico in un quadro in cui lo stesso risulti sconnesso dal fattore coscienza, come ad esempio il superamento di una determinata soglia, detta soglia di Plank, che limita tutte le dimensioni inferiori a cm, magari da parte di alternativi fenomeni gravitazionali dovuti al collasso della funzione d'onda (7).
Come si vede l'apporto di una scienza lontana sia per argomenti che per prassi metodologica, nonché per linguaggio – un altro fondamentale fattore critico quest'ultimo – pone vincoli di maggior rigore a riflessioni epistemologiche sviluppate in altri settori, contribuendo ad una collocazione più solida di ipotesi spesso venate di contenuti metafisici, in grado di condizionare pesantemente lo stesso stato della ricerca.
Tratto da:
R. Verolini, F. Petrelli, L. Venturi: “Neuroscienze ed Evoluzionismo per una concezione Olistica delle Psicopatologie e dei Disturbi della Personalità”. Università degli Studi di Camerino (MC), Dipartimento di Scienze Igienistiche e Sanitarie Ambientali - Camerino 2000.
Note
(1) E. Schrödinger, Cos'è la vita, Milano, Adelphi, 1995.
(2) K. Lorenz, L'altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza, Milano, Adelphi, 1974.
(3) J. Horgan, La filosofia dei quanti, «Le Scienze», n. 289, settembre 1992, p. 83.
(4) D. R. Griffin, Menti Animali, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
(5) Ad esempio i batteri rossi, il cui movimento è casuale in assenza di qualsiasi differenza di illuminazione, sono capaci di percepire un gradiente luminoso, disponendo di un dispositivo fotosensibile che provoca una reazione di shock da gradiente (con relativa inversione a 180° della direzione di avanzamento), e di restare all'interno del cono di luce eventualmente incontrato. Alcune alghe unicellulari sono caratterizzate da fototropismo positivo: esse sono cioè capaci di muoversi attivamente verso una fonte di luce puntiforme.
(6) R. A. Damasio, L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano , Milano, Adelphi, 1995; R. A. Damasio e H. Damasio, Cervello e linguaggio, «Le Scienze», n. 291, novembre 1992, p. 64; F. Crick e C. Koch , Il problema della coscienza, «Le Scienze», n. 291, novembre 1992, p. 126.
(7) R. Penrose, Ombre della mente, Milano, Mondadori, 1996; G. C. Gherardi, Un'occhiata alle carte di Dio . Gli interrogativi che la scienza moderna pone all'uomo, Milano, Il Saggiatore, 1997; P. Yam, Il gatto di Shorödinger resuscita, «Le Scienze», n. 348, agosto 1997, p. 91.