capitolo I° Back
In
questa sintesi si esporranno i risultati della
ricerca condotta nel 1994 e sfociata con al
pubblicazione, presso l’università di Camerino,
dell’opera «Metamorfosi della Ragione.
Esegesi evoluzionistico psicosociologica di Gn 1,3
ed implicazioni bioetiche» – da cui la
versione commerciale «Il Dio Laico: caos e
libertà» della casa editrice Armando Armando
(1999).
È
ovvio che spesso una sintesi può significare
minor precisione, e perdita di aspetti non sempre
di dettaglio, ma ci si augura di poter giungere ad
un’essenziale illustrazione del problema con una
certa snellezza espositiva. Ai fini di questa
sinteticità si è deciso di evitare riferimenti bibliografici.
(
La
storia della scienza e della filosofia testimonia
il continuo tentativo dell’uomo di definire
generali modelli interpretativi della realtà: i
babilonesi ad esempio, immaginavano la terra come
un disco posto al centro della volta celeste;
Aristotele ed i suoi contemporanei immaginavano
che la natura tutta, comprese le forme viventi,
fossero costituiti dalla combinazione di soli
quattro elementi fondamentali, acqua, fuoco, terra
e aria (sono gli stessi che definiscono i segni
zodiacali negli oroscopi che troviamo tutti i
giorni sui giornali o alla TV). Oggigiorno la
scienza ci dona una «visione» della
natura estremamente acuta e raffinata, in grado di
determinare con sostanziale efficacia le vicende
fisiche e chimiche che si sarebbero verificate
nell’universo nel corso di miliardi di anni a
partire dal cosiddetto big bang.
In
questi modelli sono ospitate le teorie fisiche,
chimiche e biologiche con le quali l’uomo ha
cercato di capire quali fossero le leggi che
governano il mondo in cui si trova. Tali modelli,
detti paradigmi,
hanno profondamente influenzato il pensiero umano
in tutta la sua storia. E questo fatto è stato
particolarmente importante nel campo della
teologia, di cui cercheremo di interessarci. Il
caso Galilei, la celebre condanna inferta agli
inizi del 1600 dal S. Uffizio a Galileo Galilei,
colpevole di sostenere che la terra ruotasse
intorno al sole – contrariamente a quanto
sarebbe affermato dalla Bibbia –,testimonia
l’importanza di questi argomenti. (La scienza ha
poi dimostrato che Galilei aveva ragione e
recentemente, comunque dopo 300 anni, anche la
Chiesa ha dovuto render conto – ma non troppo,
per la verità – di questo grave errore).
Per
capire l’importanza di questi argomenti basta
cercar di rispondere a domande semplici, quanto importune
per qualcuno, come ad esempio: «Lei
crede in Dio?», «Chi
è Dio?», «Perché
dobbiamo credere ad una creazione?»;
«E come
avvenne? E perché saremmo stati creati?»; «In
che rapporto si trova l’uomo al cospetto del
creatore?»,
«Che
significato, importanza e ruolo ha l’uomo la
nostra esistenza individuale, le nostre vicende
terrene, le scelte, le gioie e i dolori di
ciascuno di noi, nel progetto della creazione?»,
etc.
Il
solo tentativo di rispondere a queste domande ci
obbliga, «a monte», ovvero ancor prima
del farci venire in testa una qualche abbozzo di
risposta, di immaginare un quadro generale ove
collocare un dato concetto di Dio, e poi di
creazione, della eventuale natura del rapporto tra uomo e Dio e così via. E
quando si cerca di rispondere si corre
continuamente il rischio di deformare le risposte
esprimendo in esse, anche senza esserne
consapevoli, idee su cosa sia la natura, cosa
significhiamo noi uomini e, non ultimo, cosa
dovrebbe essere Dio, che derivano solo ed
esclusivamente da ideologie e
potenti condizionamenti occulti, nascosti alla
nostra consapevolezza, dovuti alla particolare
cultura in cui ci siamo formati. Si provi ad
immaginare come possano esser diverse le possibili
risposte di un ateo, un cattolico, un buddista od
un sacerdote Maya alle suddette domande!
Ebbene, nell’opera «Il Dio Laico: caos e libertà» si è
cercato di verificare proprio gli aspetti più
nascosti e profondi di questi problemi e questa
ricerca ha dato origine a concezioni e risposte
nuove e efficaci.
Ma cerchiamo
rapidamente di spiegare il perché di questo strano
titolo. Innanzi tutto è importante
sottolineare il fatto che questa nuova concezione
ha, rispetto alle altre concezioni, ed in
particolare alle concezioni diffuse nella nostra
cultura occidentale, le teologie bibliche, un
innegabile vantaggio: quello di presentare una
forte ed ampia sintonia con la scienza moderna,
carattere questo che la rende unica nel panorama
internazionale delle varie concezioni conosciute.
Questo problema è
particolarmente importante per ciò che riguarda
l’interpretazione del primo libro della Bibbia,
il libro della Genesi, in cui, è noto, si parla
dell’origine del creato, dell’uomo e di un
particolare evento, il cosiddetto «peccato
originale», importantissimo per l’intera
teologia biblica.
Si pensi che tutti i
problemi all’origine del contrasto tra scienza e
fede, iniziato storicamente con Galilei e
incancrenito all’apparire di Darwin e la sua
teoria dell’evoluzione, derivano quasi
totalmente dal disaccordo tra il teologo e lo
scienziato sorto proprio a causa
dell’interpretazione dei primi tre capitoli
della Genesi. E questo è ancor più grave se si
pensa che proprio sulla natura di questo
misterioso evento la stessa dottrina ufficiale
cattolica ammette – colmo dell’ironia – la
sua più completa ignoranza!
Negli ultimi due
secoli dunque, tutti i tentativi di dare una
qualche risposta coerente con la scienza moderna a
tali interrogativi sono stati vani: nessuna delle
passate interpretazioni della Genesi è stata in
grado di essere in accordo con quanto la scienza
ci ha rivelato sulla natura e sulla nostra storia
naturale, sulle nostre origini biologiche. Questo
è tanto più grave se si riflette su come e
quanto il «senso comune», le convinzioni
dell’uomo della strada, dell’esile vecchietta
genuflessa davanti all’altare, siano influenzati
da tali concezioni.
Quel
che si andrà a presentare non costituisce però
un ulteriore e sterile tentativo di forzare
le moderne concezioni scientifiche nelle pre-esistenti,
classiche concezioni teologiche, come hanno invano
cercato di fare frotte di teologi e sedicenti
studiosi che, partendo da ipotesi quanto meno
inverosimili, o tirando i ballo improbabili
visitatori extraterrestri, sedicenti civiltà
sconosciute del passato, ed ancor più scoperte
scientifiche poi sistematicamente rivelatesi dei
falsi grotteschi, hanno cercato di dimostrare che
«La Bibbia
aveva ragione...».
L’originalità
di questa nuova concezione è che parte innanzi
tutto «da zero»; nel senso che non si
appoggia su alcuna concezione preesistente ma
prende le mosse solo ed esclusivamente dalle
attuali e riconosciute concezioni scientifiche per
poi affrontare gli argomenti di cui sopra,
ovviamente sfociando, ad un certo punto, in una
discussione che non potrà più considerarsi
scientifica, quanto teologica. Ma non è tutto!
Questa nuova concezione è caratterizzata sì dal
fatto di presentare una forte concordanza con le
teorie scientifiche ma, e questa è sicuramente
una sorpresa, di far propri gli argomenti laici
più tipici delle posizioni atee,
laiche collocandoli però in una concezione sacra!
Dunque un sacro laico.
Ecco spiegata la provocazione del titolo: «Il
Dio Laico: caos e libertà».
Per
presentare questa nuova concezione dobbiamo
partire da sponde apparentemente lontane dai
quesiti teologici che abbiamo proposto poco fa: la
nostra prima tappa sarà allora quella di capire
cosa ci possono dire la scienza moderna e la
filosofia, senza però cadere in contrasto
reciproco, sulla natura
dell’uomo. Cos’è biologicamente l’uomo,
cosa determina la sua personalità, il nostro
sentirci «qualcuno», il riconoscerci come
«persone», quale è la vera natura
umana, la coscienza,
dove scorgere la mente?
Cosa si può proporre a partire dalle scienze
moderne, e non da una dogmi a cui possiamo essere
stati inconsapevolmente assuefatti, a queste
domande?
La
risposta che intendiamo proporre si presenta come
del tutto inedita e ci porterà –
sorprendentemente per il lettore – ad affrontare
temi che possono essere evocati con tre nomi, che
hanno rappresentato sinora le punte di diamante
della critica atea al teismo: Darwin,
Marx
e
Freud! Ma come: vogliamo parlare di religiosità e
chiamiamo in causa costoro?
Sì,
andremo ad analizzare i lavori ed il pensiero di
questi tre importanti esponenti dell’ateismo
ortodosso. Ma il risultato sarà però sicuramente
sorprendente per chi è anche solo appena
introdotto al ruolo del loro pensiero nei
confronti della fede, del sacro. Vedremo infatti
che le loro posizioni filosofiche e le loro teorie
possono essere quanto mai utili per la verifica
della nostra concezione della religiosità ed
ancor più collocabili in ben altri ambiti
filosofici. Incontreremo dapprima Marx e Freud e
presenteremo la revisione del pensiero marxista,
darwiniano e freudiano nell’ordine, al fine di
giungere all’interpretazione del Genesi avendo
già chiari i contributi che potremo mediare da
questi autori.
Se c’è qualcuno che vuol lasciare… adesso… o mai più.
Continuiamo.
Iniziamo
dunque dal comportamento umano e soffermiamoci in
dettaglio su questo argomento: qui non si afferma
minimamente che l’uomo sia incapace di
atteggiamenti volontari e consapevoli, ma se
teniamo conto degli odierni risultati delle
discipline psicologiche, dobbiamo ammettere che il
comportamento umano risulta essere condizionato da
molteplici fattori, biologici e culturali, in modo
tale da sfuggire – e non poco – alla nostra
consapevolezza.
L’universalità
che si osserva in comportamenti come l’approccio
sessuale, le espressioni di ostilità, aiuto,
paura, stupore e felicità del viso, fanno capire
quanto sia profonda ed estesa la determinazione
genetica del comportamento umano e della nostra
psiche. Ed altrettanto possiamo dimostrare in
merito all’esistenza di condizionamenti non
genetici, ma culturali. L’essere umano, pur
salvaguardando una zona franca in cui esprimere la
propria volontà e personalità, sembra
inconsapevolmente adattarsi sotto il profilo
psicologico ai condizionamenti di diverse
strutture sociali e culturali, come varie
ricerche, anche famose, hanno dimostrato. Questi
fattori possono modificare aspetti importanti del
comportamento e condizionare le stesse mete
individuali.
Il
problema è ancora fortemente dibattuto, ma
sostanzialmente nessun serio studioso nega
l’esistenza di questi condizionamenti. Ebbene,
il nostro interesse si concentrerà sul
condizionamento del comportamento umano dovuto a
fattori psico sociali e
culturali; ci occuperemo dunque
dell’influenza di un dato modello religioso
nella formazione della personalità umana.
L’uomo esprime e produce continuamente cultura
nell’ambiente: dalle più quotidiane
informazioni pratiche, come il saper accendere il
fuoco – che comunque liberò i nostri avi dalla
prigionia dell’oscurità della notte innescando
l’evoluzione verso la civiltà –,
fino alla scoperta dell’energia atomica e
così via. Ovviamente ciò vale anche per
l’espressione di esperienze, relazioni sociali
ed affettive, e non per ultimo credenze religiose,
le quali risultano essere altrettanto decisive
nello sviluppo e nella caratterizzazione della
personalità dell'individuo. Nell’uomo la sfera
culturale assume un’importanza ed
estensione uniche e proprio su questo fatto
sentiamo solitamente affermare, fatto che
sostanzialmente condividiamo, la nostra differenza
rispetto al mondo animale. Ma quanto è estesa
e profonda l’azione di un fattore culturale?
Fin dove si spinge? Ed in che limiti si esprime?
Molti
dati scientifici dimostrano innanzi tutto la
gradualità con cui si ebbe l’emersione della
trasmissione culturale
negli esseri viventi più evoluti, come ad esempio
i primati – a cui apparteniamo. Questo risultato
è filosoficamente importantissimo.
Si
è addirittura scoperto che lo sviluppo anatomico
del cervello umano, e di conseguenza le facoltà
intellettuali dell’uomo, siano dovute oltre che
ad una base genetica, all’incessante e
concomitante influenza dell’ambientale esterno. In sintesi: le nostre capacità
intellettuali sono un’impronta
della realtà esterna; geni ed ambiente non
costituiscono fattori in opposizione, ma fattori
dal cui mutuo concorso prende
origine l’individuo.
Ciò
ci costringe a rivedere molte idee a proposito
della nostra natura umana. Il cervello è il
frutto di un particolare sviluppo biologico, detto
epigenetico,
che non si limita alla sola determinazione
genetica. La cablatura neuro-anatomica del
cervello, ovvero quei collegamenti tra le cellule
del cervello (chiamati neuroni)
essenziali nei processi mentali,
non sono affatto stabilite geneticamente, ma
derivano dall’interazione continua tra individuo
e l’esterno.
In altri termini più immediati è come se il
cablaggio di un complicatissimo computer non fosse
stato progettato ma lasciato sviluppare
liberamente in seguito al suo stesso
funzionamento!
I geni si limitano infatti ad una regolazione
diciamo a
grana grossa del cervello, mentre è
l’ambiente esterno, le esperienze,
l’apprendimento, che realizzano, scolpiscono
in dettaglio i collegamenti tra i neuroni
interagendo con il sistema nervoso.
Nel
cervello poi sono state poi scoperte delle parti
funzionali, dette moduli
cerebrali, che condividiamo con altre specie
viventi: tali moduli eseguono funzioni
fondamentali come ad esempio darci il senso di
equilibrio, impostare il comportamento sessuale,
avere la possibilità di riconoscere volumi,
forme, colori e movimenti, sentire segnali di fame
o di sete etc. Gli scienziati, indicando queste
parti con termini quali cervello dei mammiferi,
dei rettili e così via, vogliono
sottolineare come questi moduli si siano dovuti
evolvere attraverso le rispettive forme di vita
per milioni di anni, prima di giungere ad essere tutte
parti importanti del cervello dei Primati, ed
infine della specie Homo. Il nostro cervello, le
attuali capacità cerebrali umane, si sono dunque formate
in tempi lunghissimi, nel corso di milioni e
milioni di anni, ed addirittura molte delle sue
componenti più importanti, da cui derivano infine
le attuali capacità umane, si sono
costituite molto prima che esistesse un qualche
cranio più o meno umano capace di raccoglierle
insieme. Questo cambia di parecchio le nostre idee
in merito al funzionamento del cervello.
Ogni
nostra più consapevole,
fredda ed autonoma
elaborazione logica
non deriva da esclusivi e superiori moduli
umani,
totalmente indipendenti dalle strutture
arcaiche del cervello; queste parti recenti del
cervello, più direttamente impiegate nel pensiero
riflesso, sono imprescindibilmente integrate con
le parti evolutivamente più antiche di questo
organo. Ed è solo grazie a questa integrazione
che quei moduli superiori possono
funzionare, che possiamo contare fragole in un
cestino, organizzare il fine settimana, fare la
corte ad una bella ragazza o distribuire risorse
finanziarie in un processo produttivo, gustare una
sinfonia ed infine… immaginare l’esistenza o
meno di un creatore! Il cervello è tutto umano
ed è un tutt’uno con il corpo!
La
nostra capacità di capire che quell’odore, quella tavolozza di
colori che giunge ai nostri occhi in un giorno d’estate
non è solo un informe guazzabuglio chimico cromatico ma
rappresenta oggetti con volumi e forme proprie di
una data realtà tridimensionale: veri fiori e vere
farfalle che volano su di un campo profumato; la nostra
capacità di riconoscere i caratteri fisici e i
movimenti degli oggetti che percepiamo, le loro
qualità, in sintesi
di percepire e capire quel vero e proprio teatro
spazio temporale in cui ci muoviamo con la
nostra mente, deriva da un cervello formatisi
assolutamente prima
alle esperienze che ci danno la consapevolezza
del nostro Sé personale.
Ma
cosa implica tutto ciò nell’esatta comprensione
del fenomeno della coscienza, ed ovviamente del
sacro? Non sembrano aspetti assolutamente lontani
tra loro? No. Innanzi tutto dobbiamo imparare a
concepire, con umiltà,
che la nostra psiche non è affatto prerogativa di
una distinta
e superiore essenza dell’uomo, quanto
una facoltà basata su naturali capacità psico
sensoriali che vediamo emergere progressivamente
nel mondo vivente a partire da altre specie anche
lontane da noi. Una consapevolezza assolutamente
non minore e/o indegna, quanto onesta, realista ed
umile. Già questo dovrebbe far intuire
il risalto – e niente timore: risalto niente
affatto negativo o svilente – di questi argomenti in merito al
sacro...
Le
culture umane, non importa se tramite riti o
leggende,
incisioni su pietra, libri, fibre ottiche o terminali,
trasmettono un flusso sempre più cospicuo di
informazioni su ciascuna realtà sociale,
culturale ed economica. E ciò costituisce una
vera e propria esplosione di forme culturali che
contraddistingue il pianeta
Uomo. Ma la trama di questo arazzo
di culture è formata da fili
che provengono più o meno direttamente dalla
biologia umana e che poi si intrecciano con i
fattori culturali: usi e costumi, leggi,
conoscenze scientifiche, modalità di scambio
economico, contenuti delle relazioni sociali,
valori etici e culturali e così via. Ma se
nell’uomo l’influenza dei fattori culturali
assume un indubbio rilievo, esistendo diversità
notevoli nelle varie strutture sociali conosciute,
nei rapporti interpersonali, nelle filosofie e così
via, potremmo dedurre che, mediamente,
a fronte di tali differenze si possano
osservare altrettante differenze – nella media
– nel comportamento umano.
In
effetti la psicologia ci insegna come ciascuno di
noi, formandosi in un preciso contesto socio
culturale, assimili durante il suo sviluppo
valori, norme e divieti che modellano il suo
comportamento e la sua psiche, o sopprimendo o
gratificando l’espressione di determinati
comportamenti in base alle esigenze della società
e, non meno, influenzano l’emersione delle sue
capacità intellettive. Ciascuna cultura sembra
infatti favorire lo sviluppo di una struttura
psico caratteriale media, indicata dagli
antropologi con il termine di personalità di base (P.d.B.): questa
P.d.B. rappresenta la struttura caratteriale
statisticamente ricorrente in una data cultura,
quindi la struttura della personalità tipica, modale
in una popolazione, gruppo regionale, etnico o
confessionale che sia. Ma attenzione: ciò vale
solo a livello medio: si immagini, per capire come
bisogna intendere con prudenza questo concetto, a
quei puzzle ottenuti dalla sovrapposizione di
migliaia e migliaia di fotografie in scala di
volti umani di ogni razza. È chiaro che
l’immagine risultante non rappresenterà mai
in dettaglio le fattezze di un singolo
volto umano, ma costituirà la media dei tratti
facciali umani, una sorta di prototipo
inter-razziale, sfumato del volto umano, in cui si
potranno misurare solo caratteri medi, come ad
esempio la distanza media tra gli occhi o il
rapporto tra altezza e larghezza del volto, tra
naso e bocca, colore dell’iride e via dicendo.
Analogamente,
la P.d.B., che rappresenta un filo conduttore,
generico, molto delicato e da usare con prudenza e
parsimonia, che identifica gli aspetti essenziali
delle personalità realmente presenti in una data
società. Esso comunque costituisce, nello studio
comparato delle culture umane, uno strumento in
grado di far apprezzare i collegamenti di fondo
tra una società e i caratteri della personalità
mediamente più diffusi nella stessa.
Se
confrontiamo ad esempio la P.d.B. di un’odierna
società occidentale con una società di
cacciatori raccoglitori di cibo della foresta
tropicale possiamo osservare come nella prima sia
diffusa l’immagine di un individuo sicuro di sé,
ambizioso e dinamico, portato ad un accumulo di
ricchezze, iper competitivo – magari solo nella
vita pubblica, celando spesso nell’intimo
problemi psicologici anche profondi. Al contrario,
la ricerca antropologica ci dimostra come nella
seconda società lo stereotipo sociale è
solitamente rappresentato da soggetti
fondamentalmente pacifici, distesi e cordiali nei
rapporti sociali, cooperativi, che non si
impegnano in ambiziosi progetti di accumulo
personale di ricchezze, per nulla smaniosi di
puntare a cariche sociali. Tali distinte P.d.B.
sembrano originate soltanto da stimoli socio
culturali differenti e non sono infatti
assolutamente dovuti a diverse basi genetiche. La
natura umana risulta dunque sostanzialmente
omogenea: pur se cambia la massa e la qualità
delle informazioni recepite, la base psichica
umana esprime un’unità di fondo del genere
umano che mantiene tutto il suo valore al di là
di qualsiasi variazione razziale ed ancor più
etnica.
Un
ulteriore esempio del significato delle influenza
culturale è dato dai canoni estetici femminili in
voga in società e tempi diversi. Nei secoli
passati nella nostra società era di moda un
ideale di bellezza femminile diverso da quello
odierno; statue, dipinti del 17° e 18° secolo ci
mostrano donne paffute, atteggiate in pose
romantiche. L’ideale moderno è invece di una
donna asciutta, prorompente, dinamica, aggressiva
totalmente diverso dagli ideali del passato. Ma
ancora oggi significativo è il fatto che in
alcune tribù africane vengano apprezzate donne
appesantite da vistosi pannicoli adiposi. Con
questi esempi siamo di fronte al variare nella
stessa società dei canoni estetici femminili in
tempi diversi o nello spazio, essendo presenti,
pur nello stesso istante, in limitate nicchie
culturali. Questo ci fa capire come le diverse
forme di società, pescano nell’universale ed
identica dote della specie Homo,
enfatizzando od osteggiando le possibili forme di
comportamento umane in base alle proprie necessità.
Non possiamo motivare queste differenze ricorrendo
ai geni: qualsiasi ipotesi relativa ad una
presunta origine genetica di tali differenze
dovrebbe poter contare su parecchie generazioni al
fine di diffondere questi caratteri in una
popolazione. Il che non è.
Ciò
ci fa capire che se è vero ed innegabile che
l’attrazione verso l’altro sesso ha un solido
fondamento genetico, è anche vero che non
esistono, in senso così evidente, geni che
rendano più attraenti donne obese nei confronti
di donne longilinee, e viceversa. Il comportamento
umano è sintesi profonda di fattori genetici e
non che si esprimono negli ambiti più diversi: e
non solo l’emotività, i sentimenti ed i
comportamenti interpersonali ma anche le più
elevate capacità cognitive e razionali umane sono
espressione sintetica di questo inestricabile
contributo. Ed eccoci infine giunti dinnanzi
l’inevitabile interrogativo: se il comportamento
umano è così influenzato da fattori genetici e
parallelamente influenzato da fattori socio
culturali, l’individuo è in grado di mettere in
atto scelte volontarie, consapevoli, in qualche
misura immuni da tali influenze? Possiamo parlare
di libero
arbitrio, di comportamento consapevole o siamo
costretti ad un ruolo di inconsci robot?
Diciamo
innanzi tutto che se la scienza ha relativizzato
accezioni assolute di termini quali «libertà
etica» e «scelta consapevole», «responsabilità
soggettiva», non è affatto giunta,
all’opposto, a negare tali concetti. L’uomo
non è un essere succube di condizionamenti
esterni o fattori innati, ma un essere cosciente
la cui intelligenza si esprime in una distesa
ampia, pur se dai bordi confusi. Solo che una
risposta meditata e scientificamente fondata a
tali quesiti ci conduce ad una collocazione ed un
significato non così assoluti e perentori quali
quelli che spesso vediamo espressa dal senso
comune e che sono affermati da certe confessioni
religiose. La prima evidenza concreta di questa
interpretazione venne dalle teorie
psicoanalitiche. Sottolineando come il
comportamento umano possa venir condizionato da
esperienze vissute dall’individuo specialmente
nell’infanzia e come nel profondo di ogni uomo
agisca un substrato di potenti ed inconsce
pulsioni psichiche, esse scardinarono le basi
antropologiche, filosofiche e sociali della
cultura occidentale.
Da
tempo abbiamo capito che l’individuo non è una tabula
rasa su cui la cultura imprime senza
restrizione i suoi vincoli etici. L’uomo è sì
straordinariamente malleabile da condizionamenti
esterni, ma risulta profondamente legato alla
soddisfazione di esigenze esistenziali universali,
che vanno ben oltre le necessità biologiche
primarie. Eppure, così come precisi stati psico
fisiologici (ansia, stress, irritabilità, etc.)
possono derivare da particolari condizioni
esistenziali, allo stesso modo comportamenti
asociali, aberranti e psicopatologie possono
essere visti come reazioni inevitabili dell’individuo
esposto a fattori ambientali e culturali
insopportabili. Ebbene: ora si capirà il perché
ci sia dilungati su questo aspetto. Il nostro
obiettivo infatti è stato quello di mostrare come
si possano includere tra i fattori ambientali
capaci di originale profonde psicopatologie e
distorsioni nell’espressione delle P.d.B.
particolari – ma non tutte – concezioni del sacro.
Questa
conclusione, che può sorprendere qualche lettore,
deriva dall’inedita concezione –
si ripete,
non confessionale,
dunque puramente filosofica, o meglio ancora: laica
–
dell’uomo di Dio e creazione che si vuol
presentare. Ma non è tutto: si vedrà come questa
concezione potrà essere importante per
interpretare, e sempre in modo coerente con la
scienza moderna e le ricerche storiche ed
antropologiche, il terzo, controverso capitolo
della Genesi, su cui la stessa Chiesa cattolica,
come già accennato, ha addirittura confessato la
sua più assoluta ignoranza.
Però,
prima di iniziare ad illustrare la nostra nuova
concezione, è opportuno mettere in risalto alcuni
aspetti del tema della religiosità umana in
generale: tale tema, ovviamente, ci conduce nel
cuore del contrasto filosofico tra teismo ed
ateismo.
Le
attuali teorie sulla religiosità umana si
dividono in sostanza in due classi. Da un lato
quelle che, puntando su fattori psico
intellettuali, affermano una visione positiva
della religiosità umana. Esse intendono
l’origine e la maturazione del sentimento
religioso quale lenta ed inevitabile evoluzione
universale del sentimento sacro. Secondo tali
concezioni la religiosità umana, sin dalle
primitive credenze preistoriche fino alle sontuose
religioni attuali, è da intendere come
espressione di un sentimento universale di
rispetto e sudditanza in cui si dovrebbe
riconoscere l’umanità tutta: dunque il fine
inevitabile di un’esigenza radicata nella stessa
natura umana che, a prescindere dalle strutture
sociali, si manifestò non appena l’uomo superò
un certo livello minimo di evoluzione
psichica e culturale. La struttura sociale
eserciterebbe solo influenze secondarie sulle
espressioni religiose come il culto, la richiesta
di intercessione, la fede in ricompense e
punizioni ultraterrene per l’individuo in
funzione all’obbedienza o meno dei precetti
divini: ma tale connaturata
e comune predisposizione umana si sarebbe comunque
manifestata in ogni società.
A
tutte queste concezioni si oppone, ovviamente,
l’ateismo. Esso da un’interpretazione negativa
all’esperienza religiosa: la religiosità
sarebbe basata su irrazionalità, ignoranza,
superstizione e atavica paura dell’uomo dinnanzi
alla natura. L’ideale ateo auspica l’avvento
di un’era futura in cui la ragione umana potrà
superare queste resistenze grazie allo sviluppo di
una visione scientifica, di una filosofia
illuministica e laica sia dell’uomo che della
natura. Di queste teorie meritano una nostra
attenzione particolare, come abbiamo già
accennato, le concezioni marxista e freudiana
della religione, causa l’importanza filosofica e
politica che hanno avuto nella nostra cultura che
per il loro tradizionale ruolo di opposizione
filosofica alle religioni.
Il
marxismo da parte sua, afferma che il sentimento
religioso si sia originato e diffuso esclusivamente
come conseguenza dell’avvento delle società
classiste - alle quali il proletariato si
troverebbe oppresso e sfruttamento – ed ha
assunto quasi certamente la più tenace
contrapposizione socio politica alla cultura
capitalistico borghese occidentale. Sia chiaro che
i nostri futuri riferimenti al marxismo sono
limitati e giustificati essenzialmente
all’interpretazione del problema religioso.
Ora,
il contrasto tra le diverse posizioni è così
profondo che, nella prassi, risulta estremamente
difficile affrontare tale problema con obiettività
e serenità, senza suscitare immediate prese di
posizione, spesso preconcette, viscerali e faziose
dall’uno o l’altro degli opposti schieramenti.
Questa difficoltà emerge anche e soprattutto nel
momento in cui si voglia proporre un’ulteriore
interpretazione, che abbia l’ardire –
addirittura – di proporsi come inedita
alternativa tra i due poli!
Cominciamo
allora ad analizzare l’argomento non a partire
da dogmi – atei o confessionali che siano – ma
basandoci su fatti e documentazioni concrete.
Quali sono gli universali
della religiosità umana? Quali
suoi fondamenti si possono mettere in evidenza con
un approccio naturale
o meglio etno-antropologico?
Gli
studi più obiettivi e scientificamente
consistenti sul tema condotti sinora collocano
senza eccezione in cima all’elenco dei contenuti
più fondamentali ed universali dell’esperienza
religiosa la «credenza
animistica in un’esistenza dell’individuo in
dimensioni d’oltretomba». Questa credenza
costituisce il nucleo irrinunciabile su cui poggia
l’intera questione, a partire sin dalle più
remote e primitive tracce di religiosità umana di
cui si abbia notizia. Se si può affermare che non
esiste cultura sprovvista di una qualche credenza
religiosa, non è noto alcun sistema religioso in
cui manchi il concetto di questa dimensione ultra mondana.
Molteplici
evidenze fanno capire come l’uomo abbia
psicologicamente reagito ad
una diretta e profonda presa di coscienza
della morte con modalità che risultano
fondamentalmente uniformi e convergenti, al di là
di inevitabili differenze. Le più antiche tracce
di una cultura non esclusivamente rivolta ad
attività materiali sembrano essere sepolture e
pratiche di manipolazioni di scheletri, risalenti
a circa 50
La
tragica presa di coscienza dell’evento della
morte sembra trasparire costantemente nelle
vestigia delle ultime migliaia di anni della
nostra storia, periodo in cui tali credenze si
pongono a sigillo di un’umanità già
completamente e drammaticamente raggiunta, e
condivisa. Nel corso dell’evoluzione umana
possiamo dunque concepire un periodo in cui si
emersero e si diffusero pratiche relative ad una
sopravvivenza d’oltre tomba (post mortem).
Tra le tappe dell’evoluzione dell’uomo sarebbe
cioè collocabile uno spartiacque
culturale, una soglia che indichi l’approdo del
genere umano al trascendente. Purtroppo di tale attimo
– in realtà dobbiamo pensare a secoli o
millenni – non abbiamo alcuna documentazione
diretta. Ogni ipotesi dovrà essere condotta,
molto prudentemente, potendo contare solo su
scarse evidenze paleontologiche e etnologiche.
Comunque
sia, un limite superiore
– ovvero vicino a noi – del periodo storico in
cui l’umanità avrebbe oltrepassato questa
tappa, può essere dedotto dalle documentazioni
relative a rituali funerari. Le più antiche
tracce di queste pratiche risalgono al Paleolitico
medio (~
60 ¸
40.000 anni fa). Sappiamo che l’uomo di
Neanderthal seppelliva i morti e manifestava
attenzioni particolari per le loro salme. Queste
testimonianze sembrano esprimere relazioni
affettive, probabilmente non molto dissimili nei
contenuti dalle nostre, nei confronti dei defunti.
È interessante notare che anche i fanciulli
usufruivano del rito della sepoltura; segno che
tali rituali derivavano, più che dal ruolo
sociale del soggetto, dal suo valore affettivo e
da quell’atmosfera di mistero e d’angoscia che
avviluppa molto democraticamente l’individuo
dinnanzi alla morte.
Quest’atmosfera
è richiamata con straordinaria immediatezza nella
grotta di Shanidar in Iraq, dove nei tardi anni
’50 furono rinvenuti i resti di un individuo
disteso su una superficie eccezionalmente ricca di
polline: ciò ha portato alla formulazione
dell’ipotesi che un letto di fiori fosse stato
preparato con cura attorno e sotto il cadavere.
L’inumazione sarebbe avvenuta, in base al ciclo
biologico delle specie vegetali e le probabili
condizioni climatiche dell’epoca, tra la fine di
maggio ed i primi di luglio di quasi 50.000 anni
fa.
Oltre
alle sepolture, merita di essere menzionato come
probabile manifestazione
di interessi che sembrano trascendere quelli
d’ordine materiale l’endocannibalismo,
cioè il cibarsi per scopi rituali del corpo di
individui morti. Questo dimostrerebbe come gli
autori di queste pratiche già dovevano essere
assuefatti alla credenza che qualche parte del
corpo dovesse albergare un principio vitale in
grado di migrare in altri individui. Un concetto
questo puramente animistico spirituale.
Più
vaghe risultano le ipotesi relative al possibile
limite cronologico inferiore di tale periodo; nessuna
evidenza paleontologica è in grado di sostenere
un’analoga ricostruzione così come è avvenuto
con le sepolture neanderthaliane. Dobbiamo allora
puntare su aspetti indiretti del problema.
L’emersione dell’ipotesi della vita
d’oltretomba richiede capacità psichiche ed un
linguaggio in grado di esprimere simile credenza.
Dunque a monte di tutto è necessario disporre di
uno psichismo ed una base culturale considerevoli.
Potremmo allora pensare che questo limite inferiore possa aversi solo a partire
da quando, nel corso dell’evoluzione umana, si
realizzarono queste due condizioni.
In
base ai dati antropologici in nostro possesso, un
tessuto socio culturale ed un corredo psichico in
grado formulare una concezione animistica sarebbe
presente nei primi Homo sapiens o, secondo alcuni,
addirittura tra quegli Homo erectus che avevano
intrapreso il cammino verso l’Homo sapiens
(circa 200 ¸
300.000 anni or sono). La specie Homo erectus
compare circa 1,5 ¸1,7
milioni di anni fa. Egli popolò il Vecchio Mondo
mostrando capacità d’adattamento a climi e
situazioni diversi. In questa specie troviamo
pressoché realizzate le più esclusive peculiarità
fisiche del genere Homo: mano prensile e stazione
eretta permanente, da cui il nome erectus.
In particolare, il volume del cervello dell’H.
erectus oscillava dai 775 ai 1.000 cc.. (Oggi
siamo circa sui 1.300 cc.)
Ma
l’aumento delle dimensioni della scatola cranica
non è che una inesatta eco della ben più
significativa ristrutturazione interna a carico
delle parti molli del cervello, che culminò
attorno a 400.0000 anni or sono, quando si
sarebbero originati i precursori della specie H.
sapiens sapiens a cui apparteniamo. Siamo ormai
alla fine della massiccia evoluzione biologica che
contraddistinse nei millenni passati il processo
ominativo; alle soglie
dell’Homo sapiens il processo evolutivo imbocca
a grandi passi una nuova strada. Tra
200.000 anni, data approssimativa della comparsa
dei primi sapiens, ai 50.000 anni, data della
comparsa degli uomini attuali (H. sapiens sapiens)
si osservano modificazioni che possono essere
interpretare solo come modesti tentativi di
razziazione. Da lì in avanti le modificazioni
nelle popolazioni umane saranno sempre minori e
geograficamente limitate, attribuibili solo a
modificazioni ambientali (in particolare al tipo
di vita e all’alimentazione) piuttosto che ad un
processo di selezione genetica. Esse non possono
dunque essere assimilate ad fenomeni di
evoluzione; è al momento in cui l’evoluzione
culturale inizia che l’evoluzione biologica
dell’uomo si stabilizza.
Il
livello culturale dell’Homo erectus rappresentò
un’eredità di tutto rispetto per i successivi
Homo sapiens. Le nostre documentazioni ci
forniscono un quadro omogeneo, in cui spiccano
significativi aspetti tecnologici e culturali. Ad
esempio è ampiamente documentato l’uso del
fuoco da parte degli erectus. Nel sito cinese di
Chou-Kou-Tien furono portati alla luce resti di
numerosi fuochi. L’Homo erectus esibisce poi
significativi miglioramenti tecnologici per quel
che concerne l’industria litica; la qualità di
questi manufatti è misurata dal rendimento
della lavorazione stessa, in termini di cm di
parte tagliente per kg di materiale. Esso passa
dagli iniziali 10 cm di tagliente per chilo di
materiale originario delle tecniche più antiche
fino ai 100cm/kg della tecnica chiamata levallois,
risalente a circa 250.000 anni or sono. Le
tecniche più recenti poi, consistenti in un abile
distacco di schegge dalla pietra originale
indicano che l’operatore era in grado, ancor
prima di fabbricare l’utensile desiderato, deve
visualizzare mentalmente la forma definitiva.
Abbiamo
dunque la prova di una notevole intenzionalità
nell’operato di questi individui, un’evidenza
di capacità d’astrazione e psichismo notevoli;
una progettualità che si manifesta addirittura
con aspetti estetici quali simmetria, precisione
di lavorazione, e non per ultimo una sorta
d’eleganza. L’H. erectus mostra dunque capacità
tecnologiche e attività socio culturali di
notevole qualità: costruisce ampie capanne, usa
il fuoco, si serve di tecniche non banali di
lavorazione delle selci, conduce impegnative
battute di caccia ed ama creare utensili in cui è
manifesta una latente sensibilità estetica.
Ebbene,
queste capacità rendono più che lecito postulare
l’esistenza di un veicolo di trasmissione delle
informazioni: il linguaggio. L’emersione e lo
sviluppo di questo strumento coinvolgerà ed
accompagnerà pesantemente l’evoluzione psico
morfologica e socio culturale umana. Seguendo in
rapida successione tali trasformazioni, potremmo
immaginare il cranio di questi antenati esser
oggetto di profondissimi e plastici cambiamenti:
la mandibola si va progressivamente affinando,
mentre l’inserzione dei muscoli si sposta
progressivamente verso i punti attuali. La faringe
si modifica disegnando un diverso canale vocale ed
uditivo mentre la lingua, riducendosi in
lunghezza, va acquistando in mobilità.
Di
questo lungo processo possiamo fissare alcune
tappe grazie ai risultati di misurazioni paleo
anatomiche. Nonostante sia difficile credere che
l’Homo habilis, anteriore all’erectus,
utilizzasse un linguaggio articolato, dobbiamo
considerare come già ai suoi tempi sia avviato
quel processo d’evoluzione tecnologico culturale
che determinerà intensamente le ere successive.
Questo è provato da scoperte sui modelli di
comportamento e sussistenza di questi ominidi,
come ad esempio spartizione sociale di cibo,
trasporto dello stesso in siti diversi da quelli
in cui è avvenuta la predazione ed uso di
utensili per la macellazione.
Con
l’avvento dell’H. erectus poi, le evidenze di
una fase più avanzata di questo processo si fanno
più significative. Il grande balzo evolutivo
diretto all’acquisizione di un efficiente
linguaggio parlato aveva dunque già scavato in
questi lontani predecessori una notevole frazione
della distanza che separa l’uomo moderno dagli
altri primati. Da qui in poi l’evoluzione del
cervello e della morfologia del tratto vocale
condusse ad una più esatta produzione,
articolazione ed associazione di fonemi.
Con
l’ausilio di sofisticate tecniche di simulazione
computerizzata e sulle misurazioni della base
cranica di alcuni teschi fossili, si è giunti a
identificare i suoni potenzialmente producibili da
tali strutture; queste ricerche hanno rivelato che
il canale vocale dell’uomo moderno, in grado di
produrre facilmente le vocali [a] [i] e [u], si
sarebbe sviluppato solamente in tempi molto
recenti. A quanto risulta, sia la specie H.
erectus che l’H. sapiens neanderthalensis non
disponevano di un canale vocale come quello
dell’uomo moderno. Si è comunque osservato che
ciò non sembra limitare completamente la capacità
linguistica; è possibile infatti che la cavità
vocale dell’H. erectus possa essere stata in
grado di produrre vocali come [e] ed [o] più un
congruo numero di consonanti. Ma queste vocali
sono sufficienti a formare fonemi validi dato che
il significato semantico di un termine è espresso
principalmente dalle consonanti. Un esempio: anche
se nella frase seguente le vocali [a], [i], [u]
sono state volontariamente sostituite dalle [e] ed
[o], se ne afferra tranquillamente il significato.
Sono enfette
le consonente ed espremere prencepelmente el
segnefeceto sementeco delle frese! Di pensi a
certi dialetti!
Potremmo
in definitiva dedurre che già dal tardo Homo
erectus l’evoluzione umana abbia prodotto
un’anatomia in grado di permettere l’uso di
scarne forme di linguaggio. I neanderthaliani da
parte loro ci hanno lasciato indizi di una cultura
ed un livello tecnologico che richiedono l’uso
sociale di informazioni relative a numerosi
eventi, oggetti, simboli, sensazioni fisiologiche
ed emotive. Si dovevano indicare e catalogare
decine di specie animali e vegetali, le loro parti
anatomiche, aspetti geografici, forma ed uso di
strumenti diversi; dovevano concettualizzare le
fasi essenziali di processi tecnologici complessi,
indicare relazioni sociali, i principali momenti
dell’esistenza di un individuo... ed infine, a
quanto sembra, intuire il senso profondo di una
essenza spirituale e di una vita oltre la morte.
Una siffatta cultura richiederebbe almeno 300
termini distinti, ai quali dovremmo aggiungere
decine di termini necessari per una minimale
grammatica.
In
alcune lingue europee attuali, che pur dispongono
di decine e decine di migliaia di vocaboli,
raramente si utilizzano, nel lessico corrente, più
di 2.000 parole, molte delle quali sono sovente
sinonimi. In molte culture primitive attuali poi
si sono contati solo 500 ¸2.000
vocaboli; in alcuni clan addirittura si ha un uso
comune di meno di 100 termini!
Ricollegandoci
al nostro discorso, le precedenti ipotesi vanno a
delimitare uno spezzone temporale della nostra
storia passata tutto esiguo rispetto ai tempi
dell’avventura dell’uomo sulla terra,
riducendosi a qualche decina o centinaia di
migliaia di anni: indicativamente da circa 300 ¸ 400
mila anni fa sino a 150.000 anni or sono. In esso
troviamo quell’importante tappa evolutiva da cui
l’uomo iniziò a disporre dei primi e
rudimentali mezzi di comunicazione verbale in
grado di esprimere a quanto sembra stati mentali
significativi ed aspetti esistenziali nei quali
possiamo includere l’elaborazione di tematiche
connesse con l’evento della morte, espresse in
manifestazioni nei confronti dei defunti che
possono essere intese come qualcosa di ben più
profondo di una mera decorazione di una salma: una
concezione animistica di una sopravvivenza
d’oltretomba.
Tale
presa di coscienza sembrerebbe dunque
un’universale ed inevitabile conseguenza
dell’evoluzione psichica dell’animale uomo,
una maturazione che solo successivamente poté
manifestarsi in credenze e pratiche religiose.
L’immediatezza con cui l’uomo avrebbe condotto
l’elaborazione intellettuale e la
formalizzazione esteriore di questa problematica,
la sostanziale convergenza rintracciabile nella
sfera emotiva e filosofica delle diverse culture
conosciute, sembrano dunque un indizio notevole
dell’universalità delle tematiche umane del
dolore, della vita e della morte. Tali componenti
si rivelano nelle cerimonie ed usanze di tutte le
società che si sono rincorse sin dalla più
lontana ed oscura preistoria e ci permettono di
comprendere le scarne, misteriose testimonianze di
quelle antiche pratiche in una chiave di lettura
così immediata ed univoca da farci sentire
vincolati da un profondo legame che, pur
scomparendo in nebbie millenarie, si tende tra noi
ed i misteriosi autori di tali rituali. È
indubbio però che questo vincolo non
è assolutamente sufficiente per dimostrare una
identità tra il nostro sentire e vivere queste
esperienze e le reali concezioni ed emozioni
all’origine di quelle delle pratiche religiose.
Dobbiamo cioè evitare l’errore di ricostruire
«... senza
scrupolo la storia perduta, facendo affidamento
sulla conoscenza generale dei principi del
pensiero e dell’agire umano come guida per
sistemare i fatti nell’ordine appropriato...
», come scriveva E.B. Tylor, pioniere di
questi studi.
Ma
i nuovi indirizzi dell’antropologia hanno
delineato l’ottica con cui capire correttamente
l’uomo e le società primitivi: possiamo
evidenziare correttamente questi fatti solo con un
approccio a
grana grossa. Una metafora di questa prudente
prospettiva di studio è data dalle cartine
geografiche, che solo grazie ad un livello non
troppo spinto d’ingrandimento permettono di
apprezzare la forma complessiva di una data
regione. Parimenti, soltanto per i contenuti più
generici dei sistemi religiosi è possibile
cogliere, parallelamente all’evoluzione sociale
e culturale umana, la loro evoluzione ed i loro più
probabili contenuti.
A
questo punto, dopo aver dato una sufficiente
collocazione storica alla probabile fase emergente
della religiosità, cercheremo d’inoltrarci nel
tentativo, ben più arduo, di ricostruire
eventuali motivazioni, contenuti, modalità di
realizzazione e natura delle risposte di tali
credenze.
È
verosimile che l’uomo paleolitico, attraverso le
lenti proprie del suo contesto culturale, possa
essere stimolato da sogni, dall’immagine di un
compagno aggredito da una fiera e così via, ad
ipotizzare, magari indotto dalla vista del sangue
che esce dalle ferite o dal vapore acqueo che si
solleva dalle membra straziate, che qualcosa
abbandoni il corpo. Fatti analoghi
possono evocare immagini capaci di far nascere una
sconvolgente ipotesi: «l’esistenza
di un nucleo animistico capace di sopravvivere
oltre l’evento della morte, oltre quell’arcano
ed orrido limite, superando il disfacimento del
corpo materiale». Il fatto che si potrà poi
comprendere in ben altri contenuti l’esatta
natura di tali immagini nulla toglie alla loro
valenza psicologica: nelle società primitive
simili ipotesi vengono continuamente riscontrate
ed il fatto di trovarle ripetutamente incluse in
esplicite e riconosciute manifestazioni culturali
dà la misura della loro capacità di
gratificazione psicologica.
Innumerevoli
studi etnologici riportano testimonianze di
credenze armoniosamente collocate in fantastiche
ed affascinanti concezioni della realtà naturale.
L’esistenza di esseri spirituali rappresenta una
costante
quasi assoluta di tutte le società finora
conosciute. Sono le strutture psichiche, le stesse
categorie di linguaggio a motivare l’atavica
capacità umana di formulare siffatte idee - si
pensi ad esempio ai contenuti animistici
di frasi come «...
il mare è
agitato... » , «...
il cielo è
sereno...
», caratteristica propria della struttura
universale profonda del linguaggio umano.
Cerchiamo
ora di indagare su quali precise necessità
affettive e psicologiche dovettero rivolgersi le
iniziali ipotesi proto religiose, probabilmente
originalmente limitate ad una semplice credenza in
un’ulteriore esistenza oltre la morte. La spinta
a questa conquista intellettuale sembra provenire
dall’angoscia che allaga la mente quando
l’uomo riesce a cogliere il significato della
morte, la dissoluzione che incomberà su di lui,
l’angoscia di immaginare, «vedere il
proprio cadavere». Possiamo perfettamente
renderci conto che questo trauma e questo realismo
sono indissolubilmente funzione l’uno
dell’altro: quanto più l’uomo scopre la
perdita dell’individualità dietro la realtà
putrida di una carogna, del suo cadavere, tanto più
è «traumatizzato»; e quanto più è
coinvolto dalla morte, tanto più scopre
l’irreparabile perdita dell’individualità.
Questa
«marea
d’angoscia, panico e disperazione che ha
allagato la
psiche della scimmia umana quando questa ha preso
coscienza della morte... », come scrisse Luigi de Marchi,
generò allora la spinta che l’uomo, con lucidità,
riuscì a placare ed incanalare completamente
con la formulazione dell’ipotesi di una vita
oltre la morte; una speranza, un sì
incondizionato capace di risolvere lo sfacelo
totale del proprio Io. Una risposta
temeraria. Ma un’ipotesi realistica,
gratificante ed efficace contro quell’orrore.
Postulando una qualche chance di essere
oltre la morte l’uomo fece sì che
quest’orrore perdesse la sua valenza, la sua
tragica presa psichica: un risultato di assoluta
importanza.