Capitolo I° capitolo II° Back
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Le più antiche tracce relative a
concezioni che esulino dalla sfera naturale
concepite dall’uomo sembrano essere relative
esclusivamente ad una possibile
sopravvivenza
oltre la morte. Si ritiene allora che questo
aspetto abbia goduto di una precedenza ed urgenza
psicologiche assolute rispetto ogni altra
motivazione di natura teologica.
La
prima osservazione conferma quanto già detto in
precedenza delle principali motivazioni della
credenza nella vita d’oltretomba. Passiamo
allora a valutare la seconda osservazione, visto
che nelle attuali religioni il ruolo etico della
divinità in relazione all’esistenza di ogni
essere umano, e in funzione del suo futuro
d’oltretomba, è decisamente rilevante. Ora, i
dati a nostra disposizione ci dicono che le
primitive divinità non manifestano alcuna
funzione etica. Questo è un fatto sicuramente
sorprendente per molti di noi! Un primo elemento
rivelatore di questa particolare forma di
concezione della divinità è che
tali enti
sovrannaturali erano collocati in miti cosmologici
relativi solamente all’origine
della realtà.
Eppure
la presa emotiva delle religioni si fonda
costantemente, dati alla mano, su un unico aspetto
essenziale, universale e basilare quanto
primitivo: il nucleo profondo del meccanismo
emozionale che da sempre attira l’uomo al sacro,
che dà senso a tutte le religioni, è nascosto
infatti ad un livello ben più atavico,
circoscritto e fondamentale dello stesso concetto
di divinità, nei sotterranei di ogni ipotesi teologica.
Esso emerge in tutto il suo significato
allorquando consideriamo come l’uomo concentra
la sua attenzione solo
ed esclusivamente sul suo destino e, in
particolare, proprio sulla speranza di una sopravvivenza individuale oltre la morte!
Queste
semplici credenze costituirebbero le più
elementari, arcaiche ipotesi religiose concepite
dall’uomo. Non importa se in esse non si
contempla l’esistenza alcuna divinità, se non
si riconosce alcuna forma di dialogo od
intercessione verso la stessa o nei confronti dei
defunti, se siano connesse o meno a concezioni e
miti cosmologico teologici. La negazione della
dissoluzione dell’individualità che comunque si
afferma risulta potente ed efficace quanto basta
per risolvere pienamente le tematiche che
scaturiscono dalla presa di coscienza della morte.
Sotto questa prospettiva anzi nulla è stato
aggiunto dalle sovrastrutture successivamente
edificate al di sopra di questa base concettuale.
Piuttosto, i risultati di molte rielaborazioni
hanno rappresentato una esplicita involuzione
delle potenzialità di tale risposta!
Le
religioni minimali rappresenterebbero
dunque gli albori dell’esperienza religiosa, il
nucleo originario di tutti i sistemi religiosi
della storia successiva. Circa 150.000 anni or
sono si stava concludendo la fase a-religiosa
dell’umanità: in quelle popolazioni di Homo s.
sapiens iniziarono a manifestarsi profondi
cambiamenti culturali in conseguenza della
diffusione delle religioni minimali. Si verificò
una poderosa trasformazione psicologica;
l’orrore che la coscienza della morte aveva
riversato in questi lontani predecessori poté
stemperarsi con il diffondersi e radicarsi di tali
credenze. L’affermazione sociale delle religioni
minimali pose allora le basi per l’emersione di
una nuova realtà socio culturale: i loro principi
penetrarono progressivamente in tutti gli ambiti
della vita sociale, fino ad allora a-religiosa,
generando nuove categorie di pensiero, esigenze e
pratiche, quali i rituali funebri di cui abbiamo
fatto menzione,. Una vera e propria invenzione.
Siamo
in grado di definire con rigore gli aspetti
essenziali di questo contesto: era una realtà
profondamente diversa da quella propria delle
culture moderne. Ricorriamo ad ulteriori dati
etnologici e paleo etnologici a questo punto.
Elementi importanti per dirigere la nostra
ricostruzione si fondano principalmente sulle
analogie che accomunerebbero le attuali società
primitive di cacciatori raccoglitori di cibo alle
vere comunità preistoriche. I moderni studi, a
dispetto dei preconcetti che per secoli hanno
presentato le popolazioni indigene delle varie
parti del mondo come primitivi ed inferiori fossili sociali al cospetto della
nostra progredita civiltà, parlano di un
profilo globale di queste popolazioni estremamente
valido, umanamente dignitoso e culturalmente
rilevante. Nel ricostruire i tratti salienti di un
cacciatore-raccoglitore preistorico ad esempio,
dovremmo immaginarci un individuo capace di una
considerevole cultura naturalistica, in grado di
distinguere ad occhio tracce di decine di animali,
di conoscere le loro abitudini, di attuare le
opportune tecniche di caccia. Uomini che sapevano
costruire archi in grado di passare da parte a
parte un cervo adulto ad 80 metri di distanza, da
quale larva estrarre il veleno per le frecce,
cacciatori capaci di procurare in breve tempo alla
loro famiglia cibo sufficiente per un’intera
settimana. Donne capaci di partorire da sole, di
proteggere i loro piccoli dall’attacco di
predatori e di curarli con medicinali ricavati
dall’ambiente naturale.
L’antropologo
Robin Fox così descrive i tratti salienti della
personalità di un individuo maschio di una certa
leadership delle popolazioni primitive: «Accorto, astuto, aperto alla cooperazione,
attraente per le femmine, buono con i bambini,
rilassato, resistente, eloquente, abile,
intelligente ed esperto nell’autodifesa e nella
caccia». Nel nostro immaginario collettivo
dovremmo dunque attribuire a tali individui un
canone ben più dignitoso: non più orde
primordiali di bruti ominidi, ma gruppi efficienti
di esseri umani dallo sguardo affatto confuso ed
animalesco. Non per nulla le attuali società di
cacciatori raccoglitori di cibo, per il livello di
benessere sociale e materiale che le caratterizza,
in relazione agli sforzi ed alle risorse profusi,
sono state indicate come «...
la società opulenta originaria»!
Se
tale è quindi la tipica personalità di base
delle attuali società di cacciatori raccoglitori
di cibo dovremo realisticamente attenderci di
trasferire questi caratteri sociali, non i nostri,
alle vere popolazioni paleolitiche. Non si vuol
però romanticamente concludere che costoro
fossero dei fortunati e felici abitanti di un Eden
preistorico. Tale tipo di vita presenta situazioni
per noi insostenibili; ma non necessariamente
dobbiamo necessariamente immaginarla come stentata
ed inumana, vissuta con modalità indegne
dell’essere umano. Ma andiamo avanti.
Queste
società presentano inoltre – e questo è
estremamente indicativo – un’organizzazione
sociale egalitaria, in cui il potere personale si
può sviluppare limitatamente ed in cui
l’individuo, pur vincolato da precise norme,
gode di una notevolissima libertà. Lo spessore
sociale è infatti talmente esiguo da consentire
all’individuo di affermarsi autonomamente, senza
subire eccessive costrizioni nell’esprimere
pienamente la propria personalità. Tali culture,
dove sono assenti i meccanismi di costrizione
sociale ed etica così comuni nelle nostre società
e sono parimenti assenti strutture sociali in
grado di realizzarli, esprimono dunque una netta negazione
di principi autoritaristici.
Abbiamo visto che, per quanto
deboli, le relazioni di dominanza esistono fra gli
scimpanzé.
I rapporti sociali esistenti fra
i popoli primitivi dimostrano chiaramente che
l’uomo non è equipaggiato geneticamente per
questa psicologia di dominanza sottomissione.
L’analisi della società
storica, in cui per cinque o seimila anni la
minoranza dominante sfrutta la maggioranza,
dimostra molto chiaramente che la psicologia di
dominanza sottomissione è un adattamento
all’ordine sociale, e non la causa di
quest’ultimo.
Per i difensori dell’ordine
sociale basato sul controllo di un’élite, fa
certo molto comodo credere che la struttura
sociale sia il risultato di un’esigenza innata
dell’uomo, e quindi naturale e inevitabile. Ma
la società egalitaria dei primitivi dimostra
proprio il contrario».
Ebbene,
la formulazione di una qualsiasi ipotesi religiosa
comporta la necessità di ipotizzare un continuum
che travalichi l’esperienza mondana; ed
immaginare una continuità post
mortem necessita che venga definita una
dimensione dove dovranno dirigersi anime o
spiriti. Nella misura in cui queste ipotesi hanno
sempre e comunque costituito uno specchio
metafisico della realtà sociale, esse non
potranno che esprimere quell’uguaglianza e
dignità che regnava nella comunità dei vivi. Ed
ecco all’aspetto fondamentale, che rappresenta
la chiave di volta di tutta la nostra ricerca.
Tutto
il materiale sinora analizzato ci porta alla
conclusione che in tali culture, alla stessa
maniera in cui non
esiste alcun principio autoritaristico in vita,
verosimilmente non ne esisterà oltre la morte,
nell’oltretomba. Questo è legittimato sia
dall’identità di fondo osservabile tra le
popolazioni delle società illetterate, o
primitive, attuali e l’uomo delle civiltà
industrializzate, che da estese evidenze paleo
antropologiche ed antropologiche.
Esisterebbe
dunque una irriducibile discrepanza nelle qualità
riconosciute alle divinità creatrici dei popoli
primitivi rispetto a quelle delle divinità delle
successive religioni storiche; differenze tali da
rendere praticamente abissale la distanza tra
concezioni così diverse di divinità.
L’aspetto fondamentale che dobbiamo
mettere in risalto è che gli esseri supremi
originari non mostrano quell’onniscienza,
onnipotenza ed autorità morale nei confronti
dell’uomo costantemente attribuite alle credenze
religiose successive. Diversamente dalle divinità
successive, che mostrano onniscienza ed esprimono
un’azione morale, gli esseri supremi primitivi,
puramente creativi,
esauriscono la loro ragion d’essere nel solo
ruolo creativo
dell’universo.
Tali
divinità sembrano derivare da una tensione
percepita dell’imponenza di eventi naturali
quali l’alternarsi del giorno e della notte, il
prodigioso mutare delle stagioni, la nascita e lo
sviluppo di un essere vivente. Ma la loro
esistenza ed il loro ruolo sono rivolti a dare
risposte riferite esclusivamente all’origine
dell’ordine delle cose, non al destino
dell’uomo oltre la morte.
È
chiaro che in siffatte concezioni non entra per
niente il problema del futuro dell’individuo,
del suo destino d’oltretomba; non si ha alcun
motivo allora di rivolgersi all’essere supremo,
di interessarsi dei suoi divini umori in funzione
del destino dell’uomo. In proposito i dati
etnologici ci mostrano, molto opportunamente, che
in tali credenze le divinità mostrano una
fondamentale indifferenza per l’operato
ed il destino dell’essere umano. Dal alcun
profilo di tali divinità creatrici è osservabile
questa connessione, né – di conseguenza – è
possibile imputare alle stesse alcuna censura
morale.
Ma
se tale è l’autorità riconosciuta in queste
società è indubbio che solo questo tipo di autorità potrà
al più essere attribuito, pur se sublimato, ad
un’eventuale divinità suprema; e questa risulta
essere infatti la caratteristica valenza delle
divinità creatrici che sostanzia la loro diversità
nei confronti di divinità onniscienti ed
onniveggenti. Ciò dimostrano le indagini
etnologiche.
Ma
queste divinità onniscienti ed onniveggenti
esistono. Come si sarebbero originate?
Sembrerebbe
dunque, sulle prime, che la ricostruzione
dell’evoluzione delle credenze religiose ci
porti necessariamente alla conclusione di veder
sorgere inavvertitamente da tali credenze in
divinità creatrici la venerazione di divinità
onniveggenti e morali tramite una lenta, quasi
inevitabile ed ovvia
derivazione
teologica: ma questa non
è la verità.
Basta
osservare quanto diversi siano i valori etici, le
istanze religiose e tutte le esperienze ulteriori,
culturali, sociali ed affettive, che i fondamenti
cosmologici da cui in realtà derivano queste
diverse concezioni, per comprendere come sia
impossibile postulare tale ovvia
transizione. Un simile cambiamento
coinvolge profondamente tutta la sfera
etica ed etologica della società, sino agli
aspetti più reconditi del tessuto socio
economico, culturale ed emozionale e ciò implica
una metamorfosi altrettanto decisiva della
relativa personalità
di base. Una trasformazione troppo estesa e
profonda per realizzarsi in modo impercettibile,
ancor più quale inevitabile, indolore evoluzione
dalla situazione precedente.
A
ciò infatti si opporrebbe la stessa struttura
sociale; l’inerzia di un dato sistema culturale
rappresenta una decisa resistenza ad ogni
cambiamento che coinvolga gli spessori profondi
dello stesso. Questo aspetto, ad arte enfatizzato
di fronte alle spinte innovatrici dello status di
una società, e ripetutamente verificato
dall’indagine etnologica, si deve altrettanto
tenere in considerazione nell’evoluzione dei
sistemi religiosi. Ma se non possiamo parlare di
ovvia trasformazione dobbiamo immaginare in sua
vece solo una drastica mutazione, una tragica
trasformazione. Le origini del fatto religioso ed
i suoi più essenziali contenuti sembrano dunque
differire sensibilmente dalle attuali modalità;
eppure queste ultime si sono comunque originate.
E
questo sembra essere un altro formidabile
problema. Come avvenne?
Le
modifiche che dovettero verificarsi per dar
origine a nuove modalità socio religiose urtarono
sicuramente contro una strenua resistenza
culturale, tesa a salvaguardare uno status quo
profondamente distinto da quello delle successive
società. Siamo dunque nella necessità di dover
immaginare un salto, un gradino
evolutivo nella storia delle credenze religiose.
Una mutazione psico culturale? O una mera semplice
rivoluzione sociale? Ma chi, o cosa e come poté
procurare questo scatto, chi o cosa possedette
l’energia capace di sradicare i fondamenti etico
culturali e psico sociali di quelle culture
primitive? Quale fu quindi il grimaldello
capace di far saltare quest’opposizione, di
forzare questo ostracismo? Dove cercare questa forza?
Osserviamo
dunque come l’aspetto filosofico delle originali
religioni possa ospitare la radice del tutto.
Grazie alla nostra analisi possiamo concepire
2) modelli cosmologico teologici (tipo
B)
in cui l’uomo non
si trova in alcuno stato di subordinazione etica
rispetto a Dio.
Ebbene: come si pone l’uomo
dinnanzi ad un essere supremo, un dio creatore che non esplica alcuna
funzione e sanzione morale nei suoi confronti? In
quali risvolti psicologici?
Una
prima osservazione, semplice ed immediata, è che
l’accesso, la partecipazione a quell’esistenza
contemplata al di là della morte fossero assolutamente
indipendenti dalla condotta etica terrena
dell’individuo. Nei modelli (B)
l’uomo è completamente indipendente dal punto
di vista etico nei confronti della divinità e
questa non attua alcun condizionamento etico
sociale con quell’intensità ed estensione che
invece ritroviamo nei sistemi successivi (di tipo A).
Inquadrare
l’esistenza di un essere umano in tali contesti
conduce ad una prassi incomparabile rispetto a
quella esprimibile nei confronti di una divinità
onniveggente e censoria sotto il profilo morale:
in questo secondo ambito ciascuno deve orientare
la propria esistenza non sulla base di una totale
autogestione etica, quanto sull’osservanza di
una serie di norme e vincoli di origine divina.
Nei
sistemi (B)
risulta impossibile definire, proprio per
l’assenza di vincoli e proibizioni divini,
eventuali azioni contrarie
alle volontà della divinità. In termini più
immediati e prossimi alla nostra quotidiana
esperienza religiosa, tale situazione si può
esprimere affermando come in tali religioni
non
sia concepito alcun concetto di peccato:
sono
religioni senza
peccato. Di conseguenza... senza
peccatori! Si provi solo ad immaginare quale
senso esistenziale e del sacro ciò possa
comportare! Stupefacente!
Un
fatto è inconfutabile: le religioni che fanno
riferimento a divinità creatrici, tipiche di
società egalitarie e non autoritaristiche,
sembrano rappresentare, nel panorama religioso
universale, il miglior candidato a modello delle
originarie teologie preistoriche. Tenendo poi
conto che solo da meno di 10.000 anni l’uomo si
è organizzato in sistemi sociali imperniati su
valori filosofici ed ambiti socio culturali
diversi, (di tipo A),
la più diffusa e persistente forma religiosa
conosciuta nell’intera storia dell’umanità
risulterebbe essere la classe (B). E l’esistenza di questo tipo di
credenze è dovutamente documentata anche tra le
attuali società primitive. La conclusione più
ovvia è, visto quanto abbiamo già notato, la
seguente: all’interno dell’universo religioso
possiamo effettuare una profonda divisione. In una
classe dobbiamo porre credenze religiose di tipo (B)
in cui la
divinità suprema non è investita di
nessuna capacità d’intaccare la sfera morale,
l’autodeterminazione etica dell’individuo e
relativizzare il destino d’oltretomba in
funzione di un superiore giudizio morale.
Questi
modelli costituiscono una classe che, malgrado la
sua stupefacente eterogeneità di fondo, è
caratterizzata da una profonda omogeneità del
rapporto uomo-Dio. In questa classe di credenze
l’individuo gode di completa autonomia etica nei
confronti della divinità e non sente gravare su
di sé alcuna censura, nessun deterrente di un
giudizio morale in grado di condizionare
inevitabilmente la sua esistenza ed il suo futuro
ultraterreno; contemporaneamente queste credenze
gli permettono di superare il tragico evento della
morte con la positiva speranza in un futuro
d’oltretomba.
La
parte restante dell’universo religioso è
costituita dai modelli religiosi di tipo (A)
dove divinità onniveggenti e morali esercitano
un’azione censoria sull’individuo; in essi
l’essere umano è posto in una condizione di
subordinazione etica nei confronti della divinità.
Tali modelli religiosi sono in grado
d’intaccare, a causa di ben confermate e note
influenze psico sociologiche negative,
l’originario edificio filosofico concepito
dall’uomo per risolvere l’orrore della morte
tramite l’idea di una sopravvivenza oltre la
stessa. La loro negatività è data dal fatto che
nei sistemi (A)
troviamo espresso e sacralizzato un principio
comune a tutte le culture conosciute dell’epoca
storica, sino ad oggi: il controllo etico
dell’individuo, impostato questa volta sul più
bieco e subdolo sfruttamento di quella dolce
speranza sovrannaturale tramite il suo
condizionamento a sanzioni morali e punizioni
divine, strumento con cui si è attuata la
negazione sistematica del sacro diritto
all’autodeterminazione dell’uomo al contrario
sostenuto dagli anteriori sistemi (B).
Schema 2.1
Schema 2.2
Ai
fini di una maggior comprensione, si propone da
qui in avanti l’uso del termine religione
(in corsivo, e così varrà per eventuali
aggettivi e così dicendo) esclusivamente per i
sistemi religiosi di tipo (B)
collocabili in questa classe, che indicheremo come
«classe delle religioni».
Saranno
invece collocati in una seconda classe, denominata
«classe delle teoetotomie»
- dalle radici theòs (dio) ethos (costume di
vita) e :
tomia (cesura) – tutti i sistemi di tipo (A)
che esprimono
un’azione autoritaristico repressiva tramite
l’azione censoria e morale delle divinità.
Cosa
comporta tale suddivisione? Il pregio principale
di tale classificazione a grana grossa è
di fornire una chiave d’interpretazione
formalmente chiara e motivata dell’universo
religioso, in grado di originare una profonda
revisione filosofica dell’intero concetto di
teismo. Classicamente esso è inteso quale corpus
unico, in cui sono collocati tutti i sistemi
teologici conosciuti, contrapposto all’eterna
idea opposta: l’ateismo. Tale situazione può
essere rappresentata dallo schema 2.1.
Questa
nuova classificazione è esemplificata nello
schema 2.2.
In esso le religioni sono poste come
alternativa sia dell’ateismo che delle
teoetotomie. È da notare come le religioni risultino
storicamente antecedenti a queste ultime di
millenni.
L’evoluzione
religiosa si
dirige infatti verso obiettivi propri, avvalendosi
di itinerari evolutivi e vincoli distinti da
quelli dell’evoluzione teoetotomistica; distinto
è infatti il referente ultimo delle due dinamiche
nelle rispettive valenze filosofiche,
esistenziali, teologico sapienzali. Ancor più
muta lo scenario sociale in cui queste metafisiche
alternative hanno conosciuto le loro più
ortodosse manifestazioni, in cui si è realizzata
la frazione più rilevante della loro evoluzione;
un insieme di rapporti sociali ed economici che
legano tra loro civiltà anche lontane nel tempo e
nello spazio, comunque accomunate da questa
particolarità culturale.
Ebbene
quali prime considerazioni possiamo trarre da
questa suddivisione? Finora tutte le credenze e
teologie conosciute venivano inserite in un
unitario schema di sviluppo del teismo (vedi
schema 2.1), con la sola cura della loro
collocazione storico culturale in base a connotati
filosofico teologici, ed in un implicito
riferimento ai sistemi della nostra cultura
occidentale quali termini superiori di arrivo
dell’intero processo di evoluzione religiosa. Ciò
ha condotto ad una distorta interpretazione del
trascendente, eccessivamente etnocentrica, ed ha
inevitabilmente affossato la discussione
sull’origine di questo sentimento umano su
posizioni incoerenti e preconcette.
Le
correnti atee per contro, hanno inteso la
religiosità umana esclusivamente come prodotto di
particolari realtà socio economiche e culturali,
retaggio dell’ignoranza e della superstizione
propria di primitivi contesti culturali, in cui
l’uomo era incapace di una comprensione
oggettiva della realtà, prodotto di tutta una
serie di degradazioni della realtà sociale che
prima o poi dovrà inevitabilmente soccombere
all’incalzare di una conoscenza laica e
scientifica.
È
innegabile come in molte società il trascendente
sia vissuto in un manifesto timore riverenziale
nei confronti di una divinità la cui ombra
incombe sull’uomo; ciò tuttavia non rappresenta
né l’inevitabile condizione ontologica
instaurabile tra uomo e Dio né, sulla base delle
documentazioni finora raccolte, l’originaria
condizione in cui l’essere umano giunse al
cospetto del sacro. Specialmente nelle culture
primitive, la divinità è investita di attributi
e funzioni totalmente incompatibili con una
qualche attività censoria delle azioni umane.
Ad
esempio, osserveremo come solo in relazione al
verificarsi della degenerazione della realtà
sociale dovuta alle teoetotomie sono possibili
quei profondi scadimenti della situazione
esistenziale umana denunciati dalla critica
marxista. Eppure quest’eventualità non
rappresenta affatto l’inevitabile
conseguenza dell’accettazione del principio
teistico tout court, quanto il risultato
dell’accoglimento di una credenza
teoetotomistica. Nelle religioni non
sembrano verificarsi minimamente le degenerazioni
del tessuto socio-economico e culturale alla base
dell’alienazione denunciata dal marxismo. In
tali contesti sono affermati principi socio
economici radicalmente diversi da quelli delle
teoetotomie e, come vedremo, tali realtà sono
aliene da quella struttura di classe postulata dal
marxismo come presupposto di fondo dello stesso
sentimento religioso, della nozione di anima soffio. Come si vede, queste evidenze
rappresentano una smentita netta ed inequivocabile
della validità della visione marxista della
religiosità umana.
E
passiamo agli aspetti psico sociali. La divinità
assumerebbe in sé, come sostenne Freud, un
insieme di valenze psicologiche imperniate sulle
dinamiche edipiche. Alla luce della nostra
suddivisione è immediatamente verificabile come
questa eventualità non risulti l’inevitabile
conseguenza dell’accettazione dell’idea di
Dio, visto che le divinità religiose non
esprimono alcuno di questi attributi in rapporto
all’uomo. L’esistenza di forme religiose contribuisce
quindi a proiettare una lunga ombra su molte
teorie relative alle origini del sacro nella
storia dell’uomo e sollecita l’urgenza di una
nuova visione del teismo che renda giustizia a
queste eccezioni. Questo è l’obiettivo della
dicotomia tra religioni e teoetotomie: essa
rappresenta una ristrutturazione del teismo che
rimuove molte dottrine attuali dal loro infondato
ruolo di prime della classe, rivalutando
modelli finora erroneamente intesi quali forme
imperfette, minori
ed evidenziando nell’universo del teismo
l’esistenza di itinerari e dinamiche evolutive
esclusive quanto indipendenti sia per le religioni
che le teoetotomie.
Le
strutture religiose possono dunque confrontarsi
positivamente con le teoetotomie sotto il punto di
vista filosofico e teologico senza palesare remore
in relazione ai loro meno progrediti sistemi socio
economici. Esse anzi rappresentano
un’alternativa estremamente interessante per
l’uomo moderno, una base di riflessione che lo
stesso potrà arricchire in modo ineguagliabile il
suo attuale bagaglio filosofico culturale. Ma
passiamo al problema dell’origine delle
teoetotomie. Come e perché avvenne questo
scadimento di un’idea che negli originali
intenti aveva solo il fine di sollevare lo spirito
umano prostrato dall’orrore della morte? Come
poté questa speranza divenire essa stessa orrore?