CAPITOLO 9

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Il Vangelo di San Giovanni

È strano notare come questo Vangelo, che riporta più profondamente di tutti i contenuti teologici e filosofici del messaggio Cristiano, sembrerebbe dovuto, come mostrerebbero alcune tradizioni storico letterarie, ad un discepolo – il suo prediletto (Gv 21, 20-24)1 – che probabilmente era assai giovane al termine della missione di Gesù. Trattare en passant di questo Vangelo, anche in funzione del dichiarato atteggiamento di smobilitazione finale, è quanto mai arduo e fastidioso, tanta è la massa di contenuti teologici che scaturiscono dallo stesso, massa che metterebbe in indubbia difficoltà critici ed intelletti di ben più alto profilo rispetto a chi scrive.

Ma, pur mostrando anche qui con un'umiltà che forse segue d'appresso l'innocenza, ma comunque consci di quanto sdrucciolevole sia il sentiero dell'ipotesi che si vuol seguire «nonostante tutto», si avanzeranno le ultimissime ipotesi e tematiche che l'approccio particolare sin qui dato all'interpretazione dei brani evangelici fa inevitabilmente scaturire. Il fine a questo punto è quello di poter avviare a partire da una ben diversa posizione interpretativa del tema un dibattito che, comunque si concluderà… se si concluderà, non farà che approfondire, anche nella definizione dell'errore, la nostra conoscenza dell'argomento – o meglio, diminuire, di un niente forse, la nostra ignoranza in proposito. Questo brano concluderà comunque l' escursus esegetico – sicuramente non completo né definitivo – presentato al fine di mostrare come sia possibile superare alcuni scogli esegetici dei Vangeli alla luce della peculiare lettura inizialmente condotta su Genesi 1-3.

È ormai ben delineata la traccia esegetica, il taglio interpretativo relativo a questi testi, la visione alternativa della figura di Dio, di Gesù, dell'uomo e del suo rapporto con il sacro, in generale, da poter concludere con delle semplici considerazioni su questo Vangelo.

Ricordando chi per secoli ha dichiarato che nessuno può mai pensare di «conoscere, afferrare le volontà ed i disegni del Creatore», specialmente a questo punto sarà evidente come nessuno potrà pensare di «conoscere, afferrare le volontà ed i disegni del Creatore» così da poter indebitamente proporre «a priori ed in modo unilaterale» una data chiave di lettura «classica» rispetto ad un'altra assolutamente «equipollente», specialmente se quest'ultima esibisce evidenti concordanze con altri importanti ambiti della conoscenza umana – aspetto che alla prima sfugge totalmente.

A questo punto solo un sano «confronto epistemologico», non sottoposto ad autorità, giudizi, intermediari o istituzioni di parte, ma condotto nel retto metodo epistemologico moderno, potrà essere invocato per dirimere la questione: e proprio alla luce di questa meta ci si è arrischiati nella formulazione di questa nuova ipotesi teologico interpretativa. Si vedrà dunque… chi è «luce» e chi è «tenebre».

Nel Vangelo di Giovanni è possibile trovare una conferma diffusa della presente interpretazione filosofico teologica. Sorprendentemente, per taluni, è possibile proporre un'interpretazione dei suoi profondi passaggi strettamente aderente alle presenti proposte esegetiche. Malgrado ciò, in questo momento non si cercherà di esporre «tutte» queste «concordanze», ma ci si limiterà a presentare la chiave interpretativa dei passi più interessanti ed ardui del Vangelo di Giovanni, o quanto meno dei passi più difficilmente inquadrabili nella presente interpretazione a motivo di un'inconscia assuefazione ad una ben diverse esegesi; in rapida successione, in modo sì incompleto ma non per questo insufficiente, lasciando ad altri l'onere ed il ruolo critico di estendere autonomamente tale visione e critica anche al resto del Vangelo, ed inevitabilmente sottoponendo queste ipotesi ad una tranquilla ed autentica riflessione individuale ed ad un confronto dialettico... quanto mai auspicato.

Iniziamo dall'inno introduttivo: Gv 1, 1-18. Si può notare come all'inizio dello stesso (Gv 1, 1-5) siano esposti perfettamente, e con un notevole lirismo, i contenuti formali di una tipica visione cosmologico teologica religiosa, con in più un'inevitabile aggancio all'escatologia cristiana, che nei versetti seguenti viene efficacemente e poeticamente evocata senza inutili orpelli formali.

Dio e Verbo, idea ed espressione di vita, azione, movimento, sono tra loro intimamente legati, come parimenti è indissolubilmente connessa a questa «causa» ogni cosa, l'ente creato, l'«Uomo». Da questa origine perfetta, increata, deriva ogni cosa, tutto l'ente creato. In Dio c'è la vita e questa è la luce che avrebbe potuto e dovuto illuminare l'uomo: l'Uomo. Ma le «tenebre» non la compresero. Notevole è il fatto che la differenza nel tempo dei verbi di Gv 1, 5 possa indicare il valore assoluto ed immutabile della «luce»: la luce «brilla» – verbo al presente – ma le «tenebre» non la «compresero» – passato remoto.

«Chi» sono le «tenebre», oppure, «cosa» rappresenta questo termine? È superfluo insistere nella ortodossa contrapposizione luce-tenebre, data l'immediatezza della stessa: qui si parla di qualcosa di distinto da questa: le tenebre non compresero la luce. È come se si attendesse dalle prime un'intelligenza, una «conoscenza» della luce che non si è affatto avuta. Non si parla neppure di una scelta «negativa» delle tenebre nei confronti della luce, in quanto questa avrebbe dovuto, anche ai fini di un razionale e seppur infausto rifiuto, prima «comprendere» la stessa; bensì di una vera e propria incapacità di giungere a comprensione del significato della luce. Non è implicito né inevitabile intendere in ciò un distaccato disprezzo, bensì sembra possibile cogliere, non meno realisticamente, uno sgomento dell'autore, un'amara constatazione della tragedia che è dietro a questa mancanza, a quest'impotenza.

Si consideri allora un uomo al buio, immerso nelle tenebre: non può fissare punti di riferimento, deve rifarsi all'udito, all'olfatto, al tatto. Ogni suo movimento è esitante, lento, impacciato, inframmezzato da urti inattesi ed inciampi dolorosi. Per l'uomo la luce è chiarezza, conoscenza, vita. E la vita è luce per gli uomini.

In Dio «... era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1, 4).

Si può intendere allora, non distaccandosi in questo dal canone interpretativo ortodosso, per «tenebre» la condizione interiore dell'uomo «cieco», che non «conosce» e quindi non può comprendere la «vita», la «luce» di Dio, la loro sacralità e che vegeta però, senza questa «vita», senza questa conoscenza, nell'oscurità culturale ed esistenziale delle teoetotomie.

Dal versetto Gv 1, 9 la luce viene usata per indicare esplicitamente Gesù, il suo spirito. Uno spirito che non fu riconosciuto dal mondo, dai suoi parenti, ma che avrebbe donato a chi lo avesse accolto, la capacità di essere generati come figli di Dio – si noti l'aspetto spirituale di quest'accoglienza che alla luce delle nostre conclusioni rende estremamente intelligibile la frase «... né da sangue né da volontà di carne né da volontà di uomo ma da Dio furono generati» (Gv 1, 13).

Un contenuto estremamente interessante quest'ultimo, sottolineato dall'analogia che ci porta immediatamente ad un importante passo di Giovanni: l'incontro tra Gesù e Nicodemo (Gv 3, 2-21). Nicodemo era un capo dei giudei. Egli andò col favore delle tenebre – «... di notte...» (Gv 3, 2) – da Gesù, animato probabilmente dalla necessità di un colloquio che resta estremamente interessante ed esplicativo date le dichiarazioni rivolte all'anziano maestro; affermazioni straordinariamente comprensibili ed esaurienti alla luce delle nostre teorie interpretative.

Ecco gli spezzoni più rilevanti, per il nostro discorso, di tale incontro. «... Rispose Gesù: In verità, in verità ti dico: “Se uno non è nato dall'alto, non può vedere il regno di Dio”. Gli dice Nicodemo: “Come può un uomo nascere se è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e nascere?” Gesù rispose: “In verità in verità ti dico: Se uno non è nato dall'acqua e dallo Spirito non può entrare nel regno di Dio.

Il nato dalla carne è carne e il nato dallo Spirito è spirito.

Non meravigliarti che ti abbia detto: Voi dovete nascere dall'alto.

Il vento soffia dove vuole e senti il suo sibilo, ma non sai donde viene né dove va.

Così è chiunque è nato dallo Spirito... E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così deve essere innalzato il Figlio dell'uomo, affinché chiunque crede, in lui abbia la vita eterna.... Dio infatti non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non viene condannato; chi non crede in lui è già condannato, perché non ha creduto nel nome del Figlio Unigenito di Dio.

Ora il giudizio è questo: la luce venne nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie.

Poiché: chiunque fa il male odia la luce e non viene alla luce, perché le sue opere non siano smascherate.

Colui invece che fa la verità viene alla luce, perché si riveli che le sue opere sono operate da Dio”.» (Gv 3, 3-22).

Si provi ad intendere tali affermazioni alla luce delle presente teoria interpretativa: si può immediatamente percepire la profonda, immediata intelligibilità che tali passi vanno ad assumere grazie a questa chiave di lettura: diventa immediatamente comprensibile il senso del «rinascere» che aveva sorpreso Nicodemo, l'essere nato dall'acqua – la chiarezza – e dallo Spirito, il senso salvifico, per l'esistenza mondana dell'uomo innanzi tutto, della missione di Cristo. Come, ancora, sia diversamente intendibile nell'ipotesi religiosa l'assenza della condanna di chi crede, il quale finalmente non vede più stagliarsi all'orizzonte del suo crepuscolo estremo, e, non meno, al presente di ogni sua scelta ed azione, il castrante «giudizio divino».

Si veda a tal proposito Gv 3, 36: «... Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi disubbidisce al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio rimane su di lui». Un'affermazione il cui significato che può essere parimenti espresso nella frase: «chi crede di avere in sé la vita eterna», a motivo di quell'essere «inevitabilmente ed ineluttabilmente» divini, sacri come Gesù ci ha rivelato – «Non è scritto nella vostra legge: – Io ho detto: siete dèi –? Se ha detto dèi coloro cui si è rivolta la parola di Dio – e la Scrittura non si può abolire –, a colui che il Padre ha santificato e ha mandato nel mondo voi dite: – Tu bestemmi –, perché ho detto: – Io sono Figlio di Dio –?» (Gv 10, 35-36) –, è già passato dalla morte della propria alienazione mondana della sua essenza divina alla vita dell'«Uomo», della divino che è in lui.

Si veda anche Gv 5, 24: «In verità in verità vi dico: Chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna, e non incorre nel giudizio, ma è passato dalla morte alla vita.»

Un filone interpretativo si delinea dunque e nell'alveo dello stesso possiamo allora collocare, con insperati sviluppi esegetici, anche Gv 5, 25, Gv 5, 28-29: «Non stupitevi di ciò: viene un ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri ascolteranno la sua voce e coloro che hanno fatto il bene ne usciranno per la resurrezione della vita, coloro che hanno praticato il male per la resurrezione del giudizio.»

Collocando ora a fianco di queste affermazioni dei detti di Gesù quali Mt 8, 22: «Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti...» si rende possibile una lettura del brano su esposto in cui intendendo come «resurrezione» non quella resurrezione che l'escatologia ortodossa ci induce ad immaginare, trasposta in un lontano ed estremo futuro, bensì una rinascita interiore nell'uomo – ricordiamoci di Nicodemo – di quello spirito sopito che lo porterà a vivere, sentirsi perfettamente «Uomo», per dare a tali affermazioni un significato radicalmente diverso e non meno interessante e profondo, teologicamente parlando,... anzi, ben più comprensibile ed immediato. Nonché gratificante.

Tutto Giovanni rappresenta, lo si ripete, un'ossessiva ripetizione ed estensione di questo concetto: si provi ad esempio ad intendere – scandalosamente? – Gv 5, 39-47 alla luce di quanto detto, facendo solo un immediato accostamento tra Giudei e Cattolici!

Si noti la differente valenza dell'avere in sé la vita eterna per chi crede alle sue affermazioni, religiose, il senso e l'importanza di tale «luce» della vita ed il significato del «chiunque fa il male» – di chi dunque vive nell'ottica dualistica delle teoetotomie subendo nell'intimo incomprensibili pulsioni che si possono solo nascondere, non smascherare allo scandalo esteriore degli altri. Ecco da un lato l'odio per la «verità», per la luce, conseguenza del terrore di veder reso pubblico il proprio mondo interiore, così osceno e negativo anche e soprattutto ai propri occhi, alla propria coscienza violentata dal concetto di peccato. Ecco, dall'altro, l'amore per la luce, per una vita spasmodicamente tesa a favore della ricerca di verità, pur anche sempre sfuggente, di chiarezza, di un attuare e manifestare in chiarezza la positiva, peculiare auto-percezione procedente da una filosofia religiosa (vedi Mt 5, 37: «Sia il vostro linguaggio: sì, sì; no, no; il superfluo procede dal maligno»). Ecco dunque il diverso modo d'intendere, alla luce della presente interpretazione, il misterioso ed affascinante paragone del vento con la rinascita in Spirito.

Un effetto che si può ripetutamente riscontrare in tutto il Vangelo di Giovanni, ma non meno negli altri Vangeli. Con queste affermazioni, particolarmente care a chi scrive, Gesù traccia infatti una «rinascita» interiore dell'individuo, l'emersione di un sistema di coordinate filosofico teologiche, di una concezione cosmologica ed umanistica, di una struttura psichica che crea, in ultima analisi, una nuova sintesi tra intelletto – lo spirito – e la carne dell'«Uomo». Una crescita spirituale, ora estremamente razionale e comprensibile alla nostra consapevolezza, che scuote l'individuo – sì, anche con dolore, ma non meno con un grande trasporto positivo –, conducendolo ad una diversa percezione del mondo e di sé stesso: un'esperienza magnificamente evocata da Gesù con l'accostamento al sibilo del vento.

Si vive infatti – unico personalismo: esperienza diretta – una crescita, una serie di sensazioni di grande intensità, che comunque possono essere comprese non immediatamente nel loro senso più alto, ma solo dopo una certa maturazione delle stesse, la quale conduce a dare un taglio nettamente coerente, individuale ed autentico, alla propria auto-percezione, al proprio essere. Un itinerario evolutivo i cui limiti, le cui mete si presentano talmente ampie da sfuggire a qualsiasi tentativo aprioristico di composizione ed immaginazione delle stesse, di completa comprensione della dinamica da cui si è sconvolti. Ecco il senso del non sapere, come col vento, né da dove procede né dove conduce tutto ciò.

Quel che finalmente si percepisce in modo estenuante ed estremo è la sensazione impareggiabile di vivere un pieno amalgama tra spirito e corpo, tra pensiero e sentimento, un nuovo sentimento profondissimo, struggente, e, sulle prime, non meno malinconico, e se si permette anche problematico, di una netta integrità ed univocità psichica, di una solitudine interiore dall'alto della quale cui non ci si può esimere da osservare, stupefatti, la banalità dell'esistenza di chi vive fuori da tutto ciò, la loro sofferenza ontologica, l'effimero delle loro mete mondane, e non meno il loro continuo anelito di cercare, senza fondamenti e meta, proprio quell'esperienza interiore profonda a cui si è giunti grazie a ciò.

Si percepisce la totale potenzialità dell'uomo, la sua capacità inespressa di giungere a mete impensabili dalla quotidianità del nostro essere – «... Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Colui che crede in me, come disse la scrittura: – fiumi dal suo ventre sgorgheranno di acqua viva.» (Gv 7, 37-38) Un'esperienza in cui ci si sente d'un tratto quasi estranei, ma non con sufficienza, al frenetico, monotono e sterile quotidiano di chi ci circonda, ed in cui si è stati in precedenza.

Ogni potenzialità che sorge alla mente, che anima d'un tratto le membra, resta allora inutile, senza possibilità di sfogo, di dialogo e partecipazione, e si rimane lì, di lato, con tutte le proprie aspirazioni e potenzialità in grembo, stupiti ed attoniti di quanti esseri umani vivano, o meglio sopravvivano vegetando, alienando da sé stessi tutto ciò.

Soffermiamoci ora sui versetti seguenti – che ometteremo di riportare per esteso: Gv 5, 21-22; 5, 25; 5, 28-29; 6, 62; 9, 39; 11, 25-26; 12, 23-32; 13, 31-32; 19, 30.

Questi versetti sono accomunati dal far riferimento alla missione ed alla «venuta del Cristo». Essi possono essere intesi come preannuncio dell'imminente ora del giudizio, della nuova era dell'umanità che Gesù, con la sua missione terrena, i suoi insegnamenti, la sua morte e resurrezione, inaugurò circa duemila anni or sono, portando a perfetto compimento (Gv 19, 30) la sua opera di redenzione e salvezza.

Si prenda Gv 4, 35 e lo si colleghi alla parabola della zizzania di Mt 13, 24-30: non è avventato, è anzi lecito e spontaneo porre quest'accostamento per intendere nell'incarnazione di Gesù, il Messia (Gv 10, 24-25), l'avvenuta compiutezza dei tempi, considerando per «l'ultimo giorno» non quello di un futuro giudizio a venire, quanto quello della sua morte (Gv 8, 28; 12, 31-32) o della sua resurrezione in cui verrà completata la sua missione redentiva (Gv 11, 25-26).

Si noti, per inciso, come in tali affermazioni trasparisca un'enfasi comunque misurata da un disagio, un'angoscia crescente nelle sue parole, dato l'avvicinarsi, tragico ed inevitabile, dell'ora del terribile sacrificio estremo di Gesù. È quindi verosimile avanzare un'interpretazione che ci conduca ad intendere come versetti quali Gv 6, 39-40; 6, 44; 6, 54 possano far riferimento non a qualcosa di lontano, futuro da realizzarsi, quanto all'imminente completamento della missione di Gesù, particolarmente comprensibile e chiara nei suoi contenuti nella presente ottica religiosa: un sacrificio tramite il quale l'uomo potrà finalmente accedere dalla morte interiore ed ontologica, data dalla sua impossibilità di essere pienamente «Uomo», «Uomo-Déo», oppresso com'è dalla visione dualistico teoetotomistica di Dio e di se stesso, dalla degenerazione del possibile rapporto «Uomo»-Dio a ciò imputabile, alla percezione impareggiabile ed unica di avere in sé, pura ed incondizionata, immacolata, la vita eterna, di essere irrimediabilmente e perfettamente divino, santo, di poter anelare alla conoscenza e pretendere il suo diritto alla libertà.

Ecco finalmente il senso del brano Gv 8, 32:«... e conoscerete la verità e la verità vi farà liberi.»

Gesù aveva come meta il poter ridonare all'uomo la luce incontaminata dell'idea di vita eterna, di questa speranza, lo spirito capace di superare le tenebre delle teoetotomie e di fargli percepire di nuovo, novello Adamo, la realtà ontologica del suo essere «Uomo»-Dio, pertanto libero.

Questa meta sarebbe stata glorificata dalla sua morte e resurrezione: nell'ultimo giorno, quando fu resuscitato e glorificato, egli attrasse tutti a sé e resuscitò dalle tenebre che credette in lui e chi, in futuro avrebbe creduto in lui (Gv 6, 47-51; 6, 53-58; 6, 62-63). Tra questi versetti è notevole sottolineare Gv 6, 44-46:

«... Nessuno può venire a me se il Padre che mi ha mandato non lo attira, e io lo resusciterò nell'ultimo giorno.

È scritto nei profeti: – E saranno tutti istruiti da Dio –.

Chiunque ha ascoltato il Padre ed ha accolto il suo insegnamento, viene a me. Non che alcuno abbia visto il Padre se non colui che è da Dio, lui ha visto il Padre.»

Che significato ha l'attrazione del Padre? Cosa si sottende a ciò? Questi versetti hanno generato, in un'erronea interpretazione degli stessi, l'illusorio e fuorviante concetto di «grazia», se non l'eccessiva ed odiosa idea di «predestinazione» della dottrina protestante: orrori ed errori che comunque è possibile correggere, e superare, alla luce del presente taglio interpretativo, in modo estremamente efficace. L'attrazione di cui si parlerebbe non rappresenta un'azione esplicita e personale del Padre nei confronti dell'individuo, di qualche particolare individuo, della sua coscienza, che si somma a priori all'azione di Cristo, da intendere quale imprescindibile presupposto della sua azione redentiva, quanto l'effetto dell'annuncio, dell'insegnamento stesso di Gesù. Tali versetti dovrebbero infatti essere intesi come segue; «Tutti conosceranno, tramite il mio insegnamento, lo Spirito di Dio – il Padre – e, nella misura in cui ne verranno attratti intellettualmente, nella misura in cui accetteranno coscientemente quest'insegnamento – questa logica –, conosceranno il Padre che è in me – Gv 8, 19; 14, 6– 7; 21, 23-24 – con gratificazione spirituale – Gv 6, 63-69 –, ed avranno la vita eterna, saranno liberi dal peccato – Gv 8, 32».

L'attrazione verso lo Spirito, verso il Padre, non è quindi da intendere come una grazia, ma rappresenta una scelta meditata, razionale, chiara al nostro intelletto, alla nostra ragione e volontà, che coinvolge completamente l'individuo nel suo essere (Gv 6, 60-65; 7, 17-18; 7, 24). Chi è veritiero, coerente nel suo comportamento, nella sua auto-percezione e nel suo rapporto con il mondo, sarà Uomo, libero, completo, perfetto – Mt 5, 48 – e farà quindi implicitamente la conoscenza con Dio, la sua gloria, poiché Dio stesso è via, verità, vita – Gv 3, 21; 8, 45.

Un commento ora su Gv 8, 21-51 e Gv 9, 39-41.

Si provi ad intendere questi discorsi ed affermazioni di Gesù nella presente ottica interpretativa, nei contenuti della concezione religiosa: è sorprendente come questi brani assumano un'intelligibilità e dei contenuti nuovi ed inediti.

Si è ripetutamente accennato alla profonda valenza psicologica della collocazione dell'individuo in un contesto teoetotomistico repressivo, dovuto ad una particolare rielaborazione filosofica dell'ideale teistico condotta autonomamente e liberamente dall'uomo, alle profonde dinamiche psicopatologiche – sensi di colpa, alienazione, nevrosi etc. –, all'inevitabile perdita dell'indipendenza etica ed ad un'auto-percezione dell'individuo in cui sia presente la definizione del concetto di peccato, di condizione d'impurità e di «corruzione ontologica interiore» dello stesso a ciò connessi. È impressionante vedere come frasi quali «... morirete nel vostro peccato...» (Gv 8, 21) e «... chi fa il peccato» – si noti qui come l'articolo ed il verbo di questa frase fan sì che la stessa acquisti lo spiccato senso di «fare», «creare», «inventare» il peccato, in stretta coerenza con le nostre ipotesi riguardo all'origine di tale concetto: il «creare il peccato» rende schiavo dello stesso; anche il suo artefice «... è schiavo del peccato...» (Gv 8, 34) una conclusione che s'incastona perfettamente nel nostro discorso. La trasformazione del senso di questi brani che emerge alla luce di queste nuove posizioni esegetiche è stupefacente.

E per concludere, finalmente, – lo si confessa: è una tribolazione intellettuale enorme –, si faccia riferimento alla «sfida», così forse possiamo definirla, lanciata da Gesù ai propri interlocutori nel versetto Gv 9, 46: «Chi di voi può convincermi di peccato?»

Già, ed allora, molto laicamente:

«Chi di voi può convincermi di peccato?»

 

Roberto Verolini

 

Note:

 

1 Giovanni, Ed. Paoline, 1978.

 

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