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L'amore ed il prossimo: la parabola del Samaritano
Nota personale
«Questo capitolo vuol rappresentare fondamentalmente un omaggio, quanto mai dovuto, a Françoise Dolto e Gérard Sévérin. Dalla lettura della loro opera «Psicoanalisi del Vangelo»1 nell'autunno del 1979, in particolare del capitolo sull'interpretazione della parabola del Samaritano (Lc 10, 25-37), prese il via la profonda riflessione che mi ha condotto a questo lavoro.
Dalle loro conclusioni infatti trovai lo spirito, la speranza di comporre finalmente in modo coerente una auto-percezione ontologica, una visione del mondo, degli altri, la mia disposizione al mondo, agli altri, che sollevasse il mio animo alle anonime perplessità che da sempre avevo covato e, penso condiviso con altri esseri umani, nei confronti dell'intero quesito metafisico di Dio e del sovrannaturale, della collocazione e del destino dell'uomo nell'ambito del teismo»
VR
I contenuti della suddetta parabola sono profondamente vicini alle affermazioni di Gv 13, 34-35; quel che seguirà rappresenta solo una rielaborazione, un adattamento delle conclusioni dei due autori summenzionati, nulla più, un tributo si spera, all'interpretazione del messaggio evangelico testé sostenuto.
Luca ci riporta, unico tra i quattro autori evangelici, di una parabola narrata da Gesù ad un Dottore della Legge che aveva domandato: «Cosa debbo fare per avere in sorte la vita eterna?» (Lc 10, 25)
Gesù a tale domanda «... disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che vi leggi?” “Quegli rispose dicendo: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso”. Ed egli a lui: “Hai risposto bene; fai questo e vivrai.” E quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “Ma chi è il mio prossimo?”» (Lc 10, 26-29).
E Gesù a questo punto inizia a narrare la parabola del Samaritano, conducendo il suo interlocutore ad una risposta chiara, circostanziata… su cui però l'esegesi cattolica ha preso un'altra grave cantonata.
Un uomo viene assalito e depredato da dei briganti in una località isolata e lasciato mezzo morto lungo la strada. Per caso, si susseguono lungo tale sentiero tre persone: un sacerdote, un levita ed infine un Samaritano.
Mentre i primi due ignorarono il malcapitato «passando oltre», il Samaritano, «impietosito» lo soccorse, gli prestò le prime cure, lo portò in un albergo, dove si prese ulteriormente cura di lui sino al giorno successivo quando, dovendo proseguire il suo viaggio, lo affidò all'albergatore.
Gesù chiede quindi al suo interlocutore di indicare chi, tra i tre, il sacerdote, il levita ed il Samaritano, possa essere stato «il prossimo di colui che è incappato nei ladroni» (Lc 10, 37). «Quello rispose: “Colui che gli ha usato misericordia”. E Gesù gli disse: “Va, e comportati anche tu a quel modo.”» (Lc 10, 37)
La «morale» tratta dall'esegesi ortodossa di tale parabola è che «il prossimo è ogni uomo, senza distinzione di nazionalità, credo, razza e sesso che potremmo trovare sul nostro cammino, alla stessa stregua del malcapitato bastonato dai ladroni che il Samaritano soccorse». Qualsiasi uomo bisognoso di cure, di misericordia, di aiuto è il nostro prossimo: poveri, malati, indigenti, ogni essere umano sofferente, vicino e lontano, ciascuno di questi è il nostro prossimo da amare come noi stessi.2
L'invito è quindi quello di prendersi in sorte le sventure e le esigenze del nostro prossimo, di chi soffre, di farsi «prossimi» a coloro che soffrono, amarli coinvolgendoci totalmente in ciò, reprimendo il nostro egoismo, sollevandoci dalla nostra indifferenza alla stessa stregua del Samaritano che si prese cura del suo prossimo, dello sventurato malmenato dai briganti. Così si amerebbe il proprio prossimo.
Il «vai e fa lo stesso» dovrebbe spronare ad agire come il Samaritano, che sembra riconoscere nel poveretto il prossimo da amare. Uno slancio, secondo l'esegesi classica, da spingere anche oltre tale fine, addirittura all'espressione dell'amare il proprio nemico (vedi Mt 5, 44) poiché sostiene che lo sventurato attaccato dai banditi dovesse essere – implicitamente, dato che non c'è scritto – un Giudeo, popolazione in contrasto socio culturale, etnico, di culto con i Samaritani.3
Questi fini chiaramente umanitari sembrerebbero corroborati anche da altri passi evangelici: Mt 25, 34-40; Mc 8, 34; Lc 15, 25-27; Gv 15, 12-13. Cosa poter porre in alternativa a queste indicazioni che non sia un tentativo di «volersi giustificare», alla stessa stregua del Dottore della Legge?
Nulla, se non quello che Gesù afferma in tale parabola: l'esatto contrario.4
Sia chiaro: non è che Gesù affermasse indifferenza o noncuranza, egoismo o quant'altro. Anzi. Ma in merito alla definizione di «prossimo» Gesù, come vedremo, in questa parabola ha affermato l'esatto contrario di quel che è stato inteso finora.
Dunque, la conclusione ortodossa è che il prossimo sarebbe qualsiasi uomo; nella fattispecie che il «nostro prossimo» sarebbe, sulla base di questa parabola, «ogni uomo bisognoso in cui potremmo imbatterci nella nostra vita», come il malcapitato che il Samaritano incontrò quel giorno sul suo cammino.
Quest'identificazione, teoricamente così immediata, pone in realtà due complicazioni. La prima è eminentemente di carattere pratico. Quanti sventurati possiamo riconoscere sul nostro cammino! I mass media ci versano quotidianamente nel piatto l'indigenza di intere popolazioni, il dolore, la fame e le sofferenze di innocenti esseri umani, ghermiti da carestie e siccità, costretti dalla violenza economica e militare a soccombere miseramente oltre le impalpabili quanto concrete dighe socio economiche e militari che le società industriali e post industriali più potenti hanno edificato ai loro confini, a garanzia di quell'abbondanza, quell'opulenza che caratterizza il loro status economico. Quante sofferenze poi in istituti, ospedali, dove una parte dell'umanità giace tra il lezzo, la sofferenza, l'indigenza, l'isolamento, saprebbero attirare il nostro interesse, il nostro sguardo, sempre distolto da ciò? Come ignorare, in tali frangenti, questo «comandamento» evangelico su cui poggia il fondamento stesso della «... legge ed i profeti...»? (Mt 22)5
La situazione in pratica pone l'individuo dinnanzi a due alternative, in funzione alla sua sensibilità, alla sua fede ed alla sua disponibilità: due estremi di un continuum ad un polo del quale c'è un egoistico anteporre se stessi agli altri, all'altro anteporre le altrui esigenze, in un'opera di servizio e dedizione per il prossimo, alle proprie esigenze, a se stessi. È naturale come, cogliendo in ciascun uomo il prossimo da amare come se stessi risulterebbe inevitabile rivolgere ogni propria stilla di vita all'amore per l'altro – notare i possibili legami con le simbiosi masochistiche precedentemente esposti.
E l'amore per «se stessi»? Nell'ottica classica quest'affermazione verrebbe immediatamente presa per deplorevole manifestazione «egoistica», non consona allo spirito di sacrificio che permea virtuosamente l'ortodossa etica cristiana. Prima considerazione: Gesù non parla affatto di «sacrificio». Egli «non» vuole «... sacrificio ma misericordia.» (Mt 9, 13)
Non che ci sproni all'egoismo, questo no: ma non tralascia la dignità, i diritti di ciascuno. Ora possiamo concludere che Gesù ha come obiettivo non un uomo represso, che ha alienato ogni suo diritto, ogni sua dignità, ma un «Uomo», una «Donna», che vivano, nella loro dignità, «amando», esprimendo misericordia. Egli ci invita anzi a fare agli altri «... tutto quello che volete che gli uomini facciano a voi... questa è la legge ed i profeti» (Mt 7, 12). Negli intenti di Gesù in definitiva traspare un rispetto delle esigenze dell'individuo, di ogni «Uomo e Donna», che nell'ortodossa interpretazione viene ad essere meno: si perde in quest'ultima quell'armonia, quella spontaneità che per contro pervade tutta la filosofia religiosa dell'autentico cristianesimo, della «lieta novella» evangelica.
La seconda complicazione è la seguente: se l'interpretazione data dall'esegesi classica fosse giusta, si dovrebbe concludere – anche qui – che Gesù abbia narrato:
1) una parabola… assolutamente inutile; oppure...
2) Una parabola clamorosamente sbagliata.
Cominciamo per ordine. Una parabola… assolutamente inutile?
Sembra di sì. Non si vedrebbe infatti il senso di una così particolare e contorta narrazione. La stringata affermazione: «Ogni uomo è il tuo prossimo. Punto.» avrebbe dato infatti al Dottore della Legge, e di riflesso a tutti noi, la risposta più chiara, inequivocabile, esplicita e perfetta possibile. Questa semplice risposta avrebbe infatti:
esaurito tale richiesta;
allargato, senza equivoci e mezzi termini, senza appigli per qualsivoglia giustificazione, il concetto di «prossimo» al di là di ogni credo, nazionalità, razza, aspetto, collocazione sociale, superando le restrizioni dell'accezione giudaica di prossimo;
ed... io non potrei a scrivere alcunché.
Ma evidentemente non è così. Questo benedetto Messia non ha mai in bocca quel che occorrerebbe ai sostenitori del paradigma teoetotomistico! È proprio insolente...
Passiamo alla seconda opzione: una parabola clamorosamente sbagliata? Decisamente no. Sembra più probabile che ad essere sbagliata sia stata l'esegesi ortodossa... Ovvero: nella parabola si afferma tutt'altra cosa.
Dunque le cose sono da intendere in un altro modo. Innanzi tutto: «se» Gesù confeziona a nostro uso e consumo questa complessa rappresentazione, questa scenografia, «allora» il motivo è che evidentemente la risposta non è così «immediata» come si vorrebbe far credere. Il prossimo cioè non sarebbe «ogni Uomo». Chi sarebbe questo benedetto prossimo allora? Semplice: è bello scritto. Nel brano si afferma precisamente chi è: «può essere ogni Uomo».
Allora: la dottrina cattolica afferma che il prossimo sarebbe colui che fu assalito dai banditi, figura da assimilare dunque a chi, sofferente, avrebbe bisogno di aiuto.6 Ma quest'uguaglianza è «palesemente infondata»: per convincersene basta leggere «con i propri occhi». Basta prendere il Vangelo di Luca, aprire al versetti 10, 36-37, qualora si dubiti di quanto riportato qui, per convincersi da soli se si sta dicendo qualcosa di infondato. Semmai, controllare che la propria copia abbia l'imprimatur, poiché quella da cui sono stati trascritti questi brani ne era dotata! Dunque, provare per credere...
Incredibile, ma vero! La domanda di Gesù è infatti estremamente circostanziata in merito e ben diversamente orientata. Egli infatti chiede: «Chi dei tre (Sacerdote, Levita e Samaritano n.d.a.) è stato il prossimo di colui che è incappato nei ladroni?» (Lc 10, 36). Gesù propone esplicitamente al Dottore della Legge tre figure in cui individuare il «prossimo da amare come se stessi» e questi fa una scelta che è implicitamente avallata da Gesù: il Samaritano, – «Colui che gli ha usato misericordia» (Lc 10, 37). A questo punto la soluzione è evidente, ovvia, scontata, inevitabile: «il prossimo da amare come se stessi è chi ci ha usato misericordia».
Non penso sia necessario mostrare la struttura logico semantica dei brani con gli operatori logici... sarebbe eccessivo ed umiliante!
È decisamente incredibile come si possa aver equivocato su ciò! Gesù dà un'immagine inequivocabile, chiara, a tutto tondo del prossimo. Indica infatti l'oggetto, «il prossimo» e il soggetto dell'«amore verso il prossimo». L'uomo sofferente ai bordi della strada, malmenato dai ladroni, è il «soggetto» dell'amore per il prossimo e il Samaritano l'«oggetto» dell'amore per il prossimo, nonché espressione della misericordia auspicata da Gesù. L'invito ad amare il prossimo è infatti rivolto a chi nella vita si viene per qualche modo a trovare in una situazione simile a quella del disgraziato assalito dai ladroni.
E questa affermazione è perfettamente ovvia. L'uomo assalito dai briganti addirittura è scartato a priori dalle figure, dagli attori proposti da Gesù al Dottore della Legge per riconoscervi il prossimo, e Gesù, avallando tacitamente la risposta dello stesso, implicitamente afferma che il Samaritano è la giusta figura di prossimo presentata nella parabola.
Ipotizziamo di aver potuto assistere nella realtà, nella persona del Dottore della Legge, assieme a Gesù, il fatto narrato dalla parabola, magari da un'altura vicina. Ecco il viandante (V), poi arrivano i ladroni (Ladr.), la colluttazione e il malcapitato rimane ferito a terra. Poi passano tre altri viandanti: il sacerdote (Sa), il levita (Le) ed il Samaritano (Sm). Dei tre uomini transitati l'ultimo soccorre il malcapitato. Chiaro, limpido, semplice. Gesù non chiede: «Chi dei tre viandanti ha riconosciuto nell'uomo steso a terra esanime il “prossimo” da amare, da soccorrere?» come vorrebbe intendere l'esegesi ortodossa, perché chiede: «Chi dei tre è stato il prossimo di colui che era a terra esanime, bisognoso di soccorsi?».
È di una semplicità disarmante. Addirittura quest'ultimo è categoricamente escluso dal novero di figure tra cui indicare chi è stato «… il prossimo di colui che era a terra esanime, bisognoso di soccorsi». Delle quattro persone (V, Sa, Le, Sm) solo tre sono ammessi al confronto, (Sa, Le, Sm), in questo riconoscimento... con faretto abbacinante puntato sulle tre figure, poste l'una a fianco in una di quelle stanze con le righe graduate orizzontali ed il vetro mono trasparente, come da sterotipo cinematografico...
A questo punto ogni possibile dubbio è fugato. Il prossimo «è il Samaritano»: (Sm). Colui che ha usato misericordia. Se dunque si vuol dottrinalmente estrapolare il senso di tale parabola si deve concludere che «il prossimo è ogni Uomo che ci ha usato misericordia», che ci ha «rimesso in carreggiata».
La classica, fuorviante affermazione «ogni Uomo è nostro prossimo» – nella fattispecie se sofferente – deve essere dunque cambiata in «ogni Uomo, senza distinzione alcuna, può divenire nostro prossimo nella misura in cui ci usa misericordia».
Gesù solleva il Dottore della Legge dall'esigenza di cercare attivamente – per avere la vita eterna, si mediti su questo contenuto così «egoista» – il prossimo da amare ma gli dice implicitamente: «Non stare a preoccupati di trovare il tuo prossimo da amare; il prossimo non si “cerca” ma lo si “trova”, si presenterà lui, spontaneamente, imprevedibilmente, a te. Cerca solo di usare misericordia, nulla più.»7
E la frase finale «va e fa lo stesso» porta ad un'ulteriore sviluppo al tema dell'«Amore», direttamente in sintonia con i contenuti del precedente capitolo. Quest'ultimo invito vorrebbe dire, secondo l'interpretazione classica:
«Ama il prossimo tuo come il Samaritano fece con il ferito che incontrò sulla sua strada, con la stessa abnegazione: non ti stare a domandare chi è il tuo prossimo ma ama, donando te stesso, le tue rinunzie, la tua vita, a chi ha bisogno di te, senza guardare il suo status sociale, la sua nazionalità, il suo viso, posticipando il tuo egoismo, le tue esigenze alle sue necessità, ripudiando la tua chiusura nei confronti delle altrui esigenze».
E ciò vuol dire necessariamente posticipare se stessi alle esigenze esterne in una scala di concessioni e privazioni che non conosce limiti, fino ad alienare se stessi; conclusioni che sono alla base dell'etica teoetotomistica cattolica della nobile rinuncia a se stessi – ma che ha un suo subdolo parallelo socio economico nell'accettazione dello status quo della società, delle sue regole ed esigenze malgrado il calpestio della dignità dell'individuo, della libertà dello stesso: un parallelo inquietante.
Precisare invece i contenuti, i contorni delle figure evocate da Gesù conduce ad diverse conclusioni. Ci sono sfaccettature importanti nella parabola, che hanno un loro senso profondo.
Si osservi l'atteggiamento del Samaritano: cura il ferito, lo conduce all'albergo caricandolo sulla sua cavalcatura, si accolla addirittura il surplus della sua degenza. Lo assiste sì personalmente, ma al mattino seguente compie un gesto molto significativo: torna ai suoi affari, alle sue attività, alle sue esigenze, momentaneamente accantonate, per soccorrere quel disgraziato. Eppure il ferito aveva ancora bisogno di cure, tanto che il samaritano dovette lasciare dei denari all'oste con la preoccupazione che forse non sarebbero neanche bastati alle sue cure.
Il Samaritano non molla tutto e tutti: un'indicazione fondamentale per la risoluzione dei nostri interrogativi. Gesù propone in questo brano un esempio estremamente armonico, equilibrato: propone di usare misericordia all'altro ma non di rinnegarsi, in un reciproco rispetto: la giornata persa dal Samaritano ha certamente un rilievo relativo per lo stesso, per le sue eventuali incombenze della giornata, ma per l'altro quel gesto, quei minuti, sono fondamentali, decisivi: rappresentano la possibilità di restare o meno in vita.
Un gesto che sprizza umanità da ogni poro ma che, non negando una sorta di «distacco», in realtà conduce a percepire stima, dignità reciproca, rispetto nell'atteggiamento del Samaritano: egli non sacrifica completamente lo scopo del suo viaggio, ma dona all'altro proporzionatamente ai suoi mezzi, alle sue esigenze.
Ecco l'essenza: ciascuno di noi è degno di rispetto, di amore, «come ciascun altro»; si afferma nettamente in questa parabola, un senso di profonda uguaglianza: perché allora mortificarci, disprezzare queste nostre esigenze? Perché togliere amore e dignità ad un'esistenza, qualunque essa sia?
Ciò non è necessariamente in contrasto con la dignità dell'altro, con una concreta manifestazione di misericordia. Rispettiamo sì costui, costoro, ma anche noi stessi. Anzi, dalle nostre esigenze, dalle risposte che sapremo dare a nostri quesiti, potremo attingere ciò che necessita per capire ed «amare» l'altro, noi stessi: dando alle nostre esigenze lo stesso peso delle altrui esigenze; ecco il nostro «essere fratelli». Ecco, per inciso, ciò che può veramente opporsi alle ingiustizie che troviamo affermate nel mondo, alla povertà ed un'indifferenza «quotidianamente versata nel piatto» che surclassa anche gli sterili proclami di gerarchie delle varie confessioni di fede, in ultima analisi sempre decisamente compiacenti con quei poteri e quei sistemi: l'affermazione di un'etica veramente fraterna, pervasiva, sistematica, «zelante» anche e soprattutto nel non chiudere alcun occhio con tiranni e sfruttatori, e non l'azione di qualche manipolo di anche convinti missionari e volontari, un pugno di sacrificandi che nulla possono, pur con tutta la loro dedizione ed abnegazione, davanti all'infinita valanga di competitori e sfruttatori che riducono alla fame intere popolazioni per meri fini economici ed imperialistici delle società più progredite.
Gesù ci chiede dunque di «amare» chi ci ha usato misericordia in modo gratuito, spontaneo, immediato. Allo stesso modo. Ed «amare» vuol dire affermare l'altro, trasmettere libertà, dignità, esprimere in sé questi slanci tesi alla vita, spontanei ed immediati, come la misericordia espressa dal Samaritano.
Forse lo stesso Samaritano e l'uomo da lui soccorso non si sarebbero più incontrati, forse quest'ultimo non avrebbe potuto superare, mettiamo per qualche ricaduta, le percosse subite, o neppure aver più la possibilità di guardare in faccia e ricordare il viso del suo salvatore: ma proprio a quel gesto così anonimo e spontaneo, gratuito, deve forse la sua eventuale vita.
Ancor più, «amare il prossimo» non vuol dire esprimere allo stesso ovvia riconoscenza, quanto «ripetere», «amplificare» il senso e la portata di quel gesto, di quell'intento, di quell'espressione spontanea di misericordia, di «amore» per la vita con la stessa spontaneità con cui si è ricevuta, in una continua catena di misericordia, in una continua, spontanea ed inarrestabile espressione dell' «amare» attivo, dinamico, prorompente, libero, pieno, che l' «Uomo» sa sperimentare e sa donare.
Ma questo… l'uomo non lo sa.
Note:
1 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Psicoanalisi del Vangelo, Rizzoli, 1978.
2 La sacra Bibbia. Vecchio testamento - Vol. 1, Sel. Dal Reader's Digest. Unione tipografica Ed. Torinese Garzanti, Torino, 1948. note di pag. 36.
3 Luca, Ed. Paoline, 1977, pag. 241.
4 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Op. Cit., [1978], pag. 140.
5 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Op. Cit., [1978].
6 Hans Kung, Op. Cit., [1976], pag. 282.
7 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Op. Cit., [1978], pag. 151-157.
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