CAPITOLO 4 - prima parte

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Le sue idee

I Vangeli di Matteo e Luca riportano, con particolare risalto, tutto un corpus di affermazioni ed insegnamenti di Gesù i quali definiscono i fondamenti del suo pensiero.

Le parabole con cui egli amava profferire i suoi insegnamenti, come il complesso delle cosiddette «beatitudini» ed alcuni sinistri, minacciosi «avvertimenti», rappresentano in realtà la sintesi fondamentale dello spirito che doveva animare la figura di Gesù. Ebbene in che prospettiva tutto ciò è stato colto finora?

Intorno a queste perentorie, a volte poetiche in altre tragiche esposizioni di Gesù, sono state gettate le fondamenta degli edifici etico morali del cattolicesimo e del protestantesimo e, in generale, di tutte le teoetotomie biblico evangeliche attualmente conosciute. Questi sistemi ideologici definiscono architetture etiche contraddistinte, senza eccezioni, dalla definizione di un quadro millenaristico salvifico divino in cui il rispetto, l'osservanza di questi insegnamenti rappresentano il veicolo di redenzione dell'uomo da una peccaminosa realtà mondana, condizione imprescindibile per accedere al Regno dei Cieli messianico, alla salvezza sovrannaturale.

In questi brani sono dunque definiti gli assunti della «Nuova Legge», della «Nuova Alleanza» tra l'uomo e Dio. Colmo dell'ironia, tragica ironia, questi brani sono diventati il bastione fondamentale delle più raffinate e sinistre teoetotomie moderne. È innegabile che ci si trovi di fronte a qualcosa di paradossale, da considerare come una tragica mostruosità: sembra quasi che si debba ammettere una vera e propria sconfitta, un completo «fallimento». Come intendere, comprendere questo fatto innegabile quando tragico?

In realtà quest'epilogo non fa che porre in risalto la gravità, la serietà e l'urgenza del problema: l'avvento di una cultura teoetotomistica è un fatto che sconvolge ed altera, con una profondità che forse non si può neanche soppesare a fondo, lo sviluppo e la formazione di un individuo, di una società, di una cultura. Quest'impalcatura di valori, di schemi metafisici, di riferimenti socio culturali e non meno psico affettivi è da intendere come un fenomeno culturale estremamente grave da gestire e correggere. Esso costituisce una struttura socio culturale capace di profondi condizionamenti a cui l'individuo spesso non è in grado di porre rimedio, restando inconsapevolmente invischiato in un coacervo di assuefazioni e distorsioni percettive, cognitive ed affettive del tutto insondabili. E quel che possiamo cogliere rivolgendoci alla storia in generale, ed allo studio della psicologia sociale, della psicoanalisi, dell'antropologia comparata non fa che porci ulteriori riferimenti e conferme di queste eventualità.

Un interessante contributo alla comprensione di queste dinamiche deriva – oltre che dalla psicoanalisi ed alla psicologia in generale – dalle neuroscienze moderne e, non meno, dalle moderne teorie sulla natura della mente umana fondate sul paradigma evoluzionistico. In particolare sembra interessante, anche per le ampie capacità di intersecare in modo coerente discipline come l'antropologia e l'etologia, campo di studi sull'evoluzione della mente, della coscienza umana espresso in modo decisamente concreto e fondato da Merlin Donald.

Secondo questo studioso nella specie Homo sapiens sapiens l'evoluzione della mente si dispiega tramite l'accumulo e stratificazione di tutta una serie di capacità psico/intellettive e percettive che mediano progressivamente la collocazione della coscienza umana, dei suoi strumenti e meccanismi cognitivi, all'«l'esterno» dell'individuo, ed in particolare nelle categorie culturali e socio affettive dell'ambiente sociale e culturale imano.1

In aggiunta, la ricostruzione dei processi evolutivi della coscienza umana avutisi nelle ultime centinaia di migliaia di anni, in merito ai quali c'è da dire che l'autore propone ricostruzioni ancora ad uno stato speculativo – anche se già corroborato da vari riscontri, comunque da approfondire –, passa necessariamente per una fase psico cognitiva in cui, proprio dall'interazione tra esigenze psico cognitive in fieri e categorie socio culturali, sembra essere emersa la base di esigenze a cui l'uomo deve lo sviluppo del linguaggio verbale. In questa fase evolutiva il linguaggio verbale, e tutto il relativo corredo neuro psichico e cognitivo, sono addirittura da intendere come modalità emerse principalmente per ovviare alle necessità esatte dalla sfera mitico culturale del tessuto sociale, ovvero di quell'insieme di precetti, rituali, attività di aggregazione sociale e di espressione mitologico sacrale che si inizia a ritrovare nelle diverse culture umane.

Quest'amalgama di esigenze e di realtà socio culturali, capaci di modellare pesantemente se non di «costituire» letteralmente la base struttural/cognitiva esterna dell'individuo – secondo Donald il nostro cervello conta su di un «Sistema immagazzinamento simbolico esterno» (SISE) il quale contribuisce alla definizione ed uso di un vero e proprio «campo mnemonico esterno» (CME) – andrebbe dunque a costituire una porzione rilevante delle prerogative percettivo/cognitive umane, di cui l'individuo è spesso ed estesamente del tutto inconsapevole, in grado di condizionare pesantemente le stessa capacità logico cognitive e percettive dell'uomo.2

Ovvero il nostro «Io» non è intendibile come una atomica «monade-individuo» in grado di esprimere «in potenza ed in natura», in totale indipendenza dalla realtà esterna, dal «mondo là fuori», la nostra più profonda radice personale, individuale, la nostra personalità. Una concezione «dualistico/monadistico individualistica» questa che assume su di sé, più o meno inconsciamente, ataviche istanze animistiche.

Questo approccio sembra particolarmente adatto ad intersecarsi con il lavoro dello psicologo Julian Jaynes,3 il quale propone a sua volta una «lettura» di molte dinamiche psicoanalitiche e psico-cognitive in cui l'influsso dell'ambito socio culturale esterno su di un individuo inteso in un profilo assolutamente «non monadico», con buona pace ad ogni dualismo animista, è evidenziato con analogo risalto. Interessanti sono, in merito, i collegamenti proposti da Jaynes tra ambito socio culturale e auto-consapevolezza dell'«individuo»/«soggetto cosciente» condotti prendendo spunto sia dall'analisi di espressioni artistiche rivolte ad ambiti mitologico sacrali che dai testi omerici – ed in generale dai riferimenti letterari alle tradizioni naturalistiche della coeva cultura greca. Debitamente messi in relazione alle odierne discipline psicoanalitiche e sociologiche, tali riferimenti sembrano sottolineare proprio il risalto di queste dinamiche socio culturali nella determinazione delle contingenti capacità cognitivo percettive e delle disposizioni psico affettive e sociali dell'individuo medio di una data cultura, dunque dei suoi valori e delle sue istanze più peculiari ed immediate.

In altri termini, i lavori di questi autori – espressione di tutto un interessante quanto diffuso ed attuale movimento di pensiero – dimostrano come tutto l'edificio socio culturale di una data società, inclusi soprattutto i modelli teologico metafisici inerenti alla concezione ideale della realtà, in cui si definiscono valori etici e filosofici, scenari cosmogonico cosmologici e le modalità d'interpretazione delle più fondamentali mete e questioni esistenziali, compongano una trama di «orientamenti psico-culturale e di condizionamenti cognitivi» capace d'invischiare pesantemente le espressioni più tipiche dell'individuo medio. Una trama di direttive etiche, di modelli mitologico metafisici etc., capaci di inculcare i parametri socialmente riconoscibili ed addirittura di definire peculiari modalità cognitive e socio affettive, di cui l'individuo difficilmente riesce a prendere consapevolezza nel corso della propria esistenza e liberarsene. Ebbene, tutto questo insieme di istanze, di dinamiche socio culturali è perfettamente contenuto – e così sacralizzato – in un sistema mitologico culturale: esattamente ciò che attiene agli ambiti che troviamo messi in risalto nei Vangeli alla luce della nostra interpretazione – sorprendentemente, non c'è che dire, in considerazione del periodo storico e l'ambito culturale in cui furono scritti. I modelli teologico filosofici di una data struttura sociale: religioni e teoetotomie.

Tutto ciò dunque non fa che supportare il risalto delle dinamiche in atto nelle eventuali transizioni tra un modello e l'altro. Ovvero, quel che rappresenta una sorta di vero e proprio «spartiacque» culturale tra culture religiose e teoetotomistiche si esprime in un insieme di inerzie e resistenze che solo dietro il concomitante influsso di varie, pesanti, dinamiche socio culturali e pressioni socio economiche può esser superato. Ora, nel caso in essere, questa resistenza viene ad esprimersi, all'inverso, in resistenze e viscosità, in irrigidimenti che, a quanto sembra siano stati in grado di generare una vera e propria fagocitosi e trasmutazione dei valori – evocando Nietzsche – a carico dell'autentica «lieta novella» evangelica. Dunque la stessa resistenza mostrata – dati antropologici alla mano – nel passare dai sistemi religiosi a quelli teoetotomistici ha rappresentato, di converso, la resistenza posta in essere da questi ultimi sistemi davanti all'affermazione del modello religioso evangelico – per quanto, purtroppo, tale modello possa essere oggettivamente più valido ed autorevolmente proclamato.

Bisogna dunque prendere atto di come possa esser stato proprio questo l'atteggiamento di opposizione e rifiuto attuato da un ambiente teoetotomistico diffuso ai tempi e nelle culture in cui Gesù si trovò a predicare. Ecco chiarito quale fu l'«avversario» contro cui si scagliò nel corso della sua esistenza terrena; ecco chiariti i fondamenti ideologici di coloro che, come i Farisei ed i Sadducei, esercitarono l'iniziale, decisiva resistenza della teoetotomia ebraica ai suoi insegnamenti, costituendo un formidabile ostacolo sia ad una esatta e piena comprensione del messaggio evangelico, della «lieta novella». Ecco chiarita, in prospettiva, quale sarà la resistenza che successivamente verrà eretta contro una diffusione ecumenica della stessa, ecco spiegata la valenza «classista», la genericità altrimenti incomprensibile di certe accuse di Gesù rivolte a coloro che apostrofò come «vipere», «sepolcri imbiancati»... ed a cui oggi come oggi possiamo aggiungere tutta una sterminata fila di figure e di istituzioni storicamente successive, ancora in auge purtroppo.

Ecco finalmente come emerge clamorosamente alla luce il senso tragico ed inquietante, poiché ancora terribilmente attuale, di frasi come:

«Guai a voi, scribi e Farisei ipocriti, che chiudete il Regno dei cieli davanti agli uomini; non entrate voi, e non lasciate entrare quelli che vorrebbero entrare.

Guai a voi scribi e Farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito, e quando c'è lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi». Mt 23, 13-15; Lc 11, 52)

I possenti retaggi culturali a ciò ascrivibili, furono in realtà tali da fagocitare, distorcendo pesantemente il senso del suo messaggio, e forzando la figura e l'opera del Cristo nel contesto metafisico di quelle stesse ideologie teoetotomistiche che Gesù volle contrastare. Il Dio di Gesù Cristo, la missione del Figlio Unigenito, il suo estremo sacrificio, furono allora distorti, trasformati, costretti negli angusti ed inadeguati ambiti di un'immutata visione dualistico teoetotomistica della realtà e del trascendente, cosicché, stravolti e sminuiti nei loro più peculiari significati, diedero tragicamente origine alle più odiose e repressive teoetotomie mai immaginate, ai più violenti ed ostici sistemi autoritaristici mai apparsi sulla faccia della Terra.

Ma non per sempre: «Il cielo e la terra passeranno, le mie parole non passeranno», profetò Gesù (Mt 24, 35).

Dunque non c'è da disperarsi più di tanto, anche in considerazione che è possibile, come si vedrà, porre in essere un'alternativa tanto critica quanto assolutamente pertinente di queste dinamiche, capace di denunziarne la vera natura; tutt'al più questo fatto deve permettere di valutare con realismo e preoccupazione la vera portata delle dinamiche in gioco.

È essenziale a questo punto, per comprendere il senso delle interpretazioni sinora addotte dalle dottrine teoetotomistiche sviluppatesi sulla tradizione biblica, mettere a fuoco con chiarezza l'atteggiamento esegetico, il quadro culturale in cui tali interpretazioni vennero consolidate.

Un approccio religioso all'interpretazione dei Vangeli, ed in misura particolare a questi brani, ci permette d'inquadrare i loro contenuti in un'ottica singolare.

Analizziamo un attimo l'interpretazione che è sinora scaturita dall'approccio teoetotomistico al messaggio evangelico. Quest'interpretazione si sviluppa, rifacendoci al canone neotestamentario della tradizione letteraria, essenzialmente a partire dagli Atti degli Apostoli e dalle lettere paoline. Dunque sembra essere totalmente aliena ai quattro evangeli.

Vari autori hanno posto in evidenza la sostanziale differenza evincibile tra i contenuti filosofici dei Vangeli e le tinte drammatiche che scaturiscono dagli eventi e le affermazioni proprie di questi successivi documenti, in particolar modo per quel che concerne la figura di Paolo di Tarso.

Una differenza spirituale, sottile ma decisiva, che, ad esempio, condusse L. Wittgenstein ad affermare: «L'acqua che scorre noi Vangeli calma e limpida sembra “schiumare” nelle lettere di Paolo... è come se qui vedessi una passione umana, qualcosa come orgoglio e ira, che non combacia con l'umiltà dei Vangeli... nei Vangeli – così mi sembra – è tutto “più schietto”, più umile, più semplice. Là ci sono capanne; in Paolo, una chiesa. Là tutti gli uomini sono uguali e Dio stesso è un uomo; in Paolo c'è già qualcosa come una gerarchia; gradi e cariche. – Così sembra dirmi il mio FIUTO».4

Questi indizi possono esser intesi alla stregua di una traccia significativa della profonda cesura filosofica esistente purtroppo tra l'interpretazione teoetotomistica del messaggio evangelico condotta sinora, quale feroce rigurgito di quell'ideologia che Gesù cercò di distruggere, e l'interpretazione religiosa dello stesso.

Ebbene: qui, condividendo il «fiuto di Wittgenstein» si attuerà una lettura nettamente diversa, che porrà netti distinguo specialmente nei confronti della figura e l'opera di Paolo di Tarso, da cui deriverà il contributo ideologico (prettamente teoetotomistico) fondamentale per lo sviluppo del cattolicesimo. Per inciso, come descritto in altra sede, la sua conversione e successivamente il suo operato rientra perfettamente nella definizione psicoanalitica, ampiamente riconosciuta, di una vera e propria sindrome psicopatologica: la «formazione reattiva». Il che è tutto un dire: un aspetto decisamente inquietante.5

Concentriamo dunque la nostra attenzione dunque sugli aspetti filosofici, formali di tali alternative esegetiche, di tali interpretazioni. Nell'interpretazione teoetotomistica dei testi evangelici, tutte le affermazioni, le narrazioni, gli eventi e la stessa figura del Cristo sono colti fondamentalmente nell'esigenza di definire per l'uomo una serie assoluta di precetti, di obiettivi tali da condurlo, al termine della sua esistenza terrena, alla definitiva salvezza sovrannaturale, alla santità ed al cospetto del suo Creatore.

L'esistenza mondana dell'individuo assume così, con una profondità inaudita, il senso di un itinerario di purificazione cosparso di privazioni, sacrifici, contrizione e servizio, di dedizione assoluta alla «Legge», alla divinità, nell'intento di promuovere una sempre più ecumenica santificazione terrena per il genere umano, nell'attesa di affermare il «Regno dei Cieli» quasi come trasposizione mondana della santa dimora celeste, ricompensa ultima per ciascuno. In termini più immediati, ciò starebbe a significare che in tale ipotesi il contenuto di alcune affermazioni di Gesù, come ad esempio il distacco dai beni materiali, dalle ricchezze, dagli agi dell'esistenza terrena, delle lusinghe della carne, dei piaceri del sesso, e tanti altri aspetti più o meno ovvi – l'obbedienza, la castità, l'umiltà etc. – sarebbero del tutto propedeutici, veri e propri strumenti, itinerari di redenzione da mettere in diretta relazione con il conseguimento di una vera e propria santificazione spirituale dell'individuo.

Il perseverare dell'individuo nel conseguimento ed espressione di queste virtù, anche e soprattutto a prezzo di profonde privazioni, diverrebbe dunque lo strumento di salvezza individuale e di redenzione cosmica, vera e propria prassi mondana dell'attuazione della volontà divina, dell'amore divino.

Quest'interpretazione, in definitiva, andrebbe a comporre i capisaldi di un'etica della salvezza spirituale dell'individuo rivolta non tanto a questo mondo, quanto alla futura dimensione spirituale, trascendente dell'aldilà.

Ciò conduce ad affermare una «relazione», come si diceva estremamente profonda, tra l'attuazione di alcune precise scelte etiche, dunque tra l'espressione di una profonda «obbedienza etica» ed il realizzarsi sovrannaturale di una purificazione della frazione spirituale dell'individuo.

Ma perché mai questa «relazione»? Ovviamente questa è una delle varie domande «blasfeme» che possono essere formulate. Ma visto che non ci si interessa di esser considerati tali, questa domanda viene ribadita.

Dunque: perché mai questa «relazione»?

È immediatamente comprensibile come, malgrado ogni sforzo, non si possano facilmente porre in evidenza i nessi causali mediante i quali le varie situazioni etiche ed esistenziali possano condurre a ciò.

In che modo, ad esempio, poter spiegare come una determinata condizione socio esistenziale, mettiamo la povertà o la castità sessuale, possa condurre ad un incremento «qualitativo» del carattere «santità» della frazione spirituale di un individuo?

Usando, forse irriverentemente per taluni, ma con estrema serietà, una semplicissima notazione matematica potremmo scrivere:

«povertà o castità sessuale» «santità»,

dove il simbolo indica una «proporzionalità diretta tra i due fattori ».

Ma come è possibile che esista una «proporzionalità diretta» tra povertà o la castità sessuale, e «santità»? Perché la «perfezione», la «purificazione» dello spirito di un individuo «cresce» proporzionalmente al realizzarsi di suddette condizioni esistenziali?

Cerchiamo di definire in modo più generale e concreto la questione.

Come è possibile che «una determinata condizione energetica, quale la possibilità di disporre per lungo tempo di un corrispettivo socialmente riconosciuto di energia potenziale» – una ricchezza sociale è perfettamente formalizzabile in questo modo – possa condizionare un carattere trascendentale, extranaturale, così distinta ed impalpabile, quale la «santità»?

Perché una determinata attività sessuale, innanzi tutto perfettamente naturale e, si rammenta, largamente definita a livello psicologico da una notevolissima frazione inconscia, nonché largamente predeterminata geneticamente a livello fisiologico – quindi riconducibile, per quanto detto sinora, alla manifestazione di dinamiche naturali imputabili all'attuazione di una eventuale volontà creativa dello stesso Dio –, riuscirebbe ad intaccare la salvezza individuale dell'individuo nell'aldilà?

È assolutamente impossibile trovare dimostrazioni di tali relazioni causali, di tali nessi logici e un credo fondato su tale situazione può solo basarsi su di un nucleo fideistico del tutto inconsistente ed incomprensibil a livello razionale. E non esiste speculazione teologica – men che meno passi biblici – capace di determinare esaurientemente queste relazioni.

Vien da ricorrere – per l'ultima volta e sicuramente per anticipare un certo tipo di reazione – alla oramai inflazionata cantilena del non poter l'uomo «conoscere, afferrare le volontà ed i disegni del Creatore», ma è evidente che in nessun ambito come questo specialmente chi predica tale degna e saggia massima in realtà non attui minimamente quanto per secoli và predicando a destra ed a manca. Il che fa venire dei forti sospetti – chiaramente è un eufemismo – alla manifesta umiltà di certi pii soggetti.

I Vangeli non ci restituiscono nessuna informazione sulla possibile natura di tali correlazioni. Non contengono un'oncia di tutto questo, alcun appiglio. L'unica cosa che si può effettivamente dedurre è come, interpretati in modo siffatto, le interpretazioni di tali brani non permettono in alcun modo una comprensione oggettiva, razionale del suo contenuto, e, proprio per questa ignoranza, possono solo originare solo una sterile ed inconcludente obbedienza, nulla più: quel che è poi storicamente stato.

Un'interpretazione religiosa degli stessi passi evangelici può invece condurre ad un livello oggettivamente più elevato di comprensione dei contenuti del pensiero di Gesù, dispiegando una realtà interpretativa molto più esauriente e comprensibile, più verosimile di ogni altra ipotesi interpretativa sinora condotta, in grado di salvaguardare nel frattempo un contenuto teologico soteriologico quanto meno equivalente a quello di solito attribuito a questi testi.

Un approccio religioso all'interpretazione dei Vangeli non traspone innanzi tutto il senso delle affermazioni, dei significati del pensiero di Gesù in una sfera extranaturale posta in relazione all'esperienza mondana. Questi significati possono essere intesi in modo elegante ed esauriente in un ambito essenzialmente mondano, pur non comportando alcun decadimento dello spessore trascendente della figura di Gesù e della valenza divina riconosciuta dallo stesso all'uomo e conservando un intatto fine salvifico, ecumenico e redentivo alla sua missione.

Abbandonando ogni retaggio filosofico teoetotomistico a favore di un ideale religioso, si può facilmente enucleare in tutta la missione di Cristo, nel suo estremo sacrificio, un messaggio d'amore per l'uomo niente affatto finalizzato a ristabilire una salvezza ultraterrena che – qualora effettivamente esista – niente e nessuno avrebbe mai messo in pericolo. Quanto ad una perentoria e perfetta manifestazione mondana della sua intaccabile santità, dell'intrinseca divinità della sua essenza spirituale più profonda.

Una manifestazione irrimediabilmente alienata dall'uomo nei contesti teoetotomistici diffusi sulla Terra; una perdita, o, secondo quanto si è fatto in questa sede, una «caduta», che aveva scagliato l'uomo nelle fauci orrende delle divinità teoetotomistiche, che aveva stritolato il suo spirito sull'altare di una sedicente lotta cosmica tra la Luce e le Tenebre, tra il Bene ed il Male.

L'interpretazione religiosa dei Vangeli conduce dunque ad un profilo di Gesù radicalmente diverso da quello delle interpretazioni ortodosse: un Gesù teso fino al martirio all'annuncio di principi filosofici in grado d'inserirsi con un'intensità sconcertante nel prosieguo della precedente lettura religiosa dei brani del Genesi. In essa, come abbiamo dimostrato, le poetiche narrazioni della «caduta» originale da cui l'umanità venne tragicamente coinvolta vanno ad avere un parallelo storico filosofico nella transizione culturale con cui l'uomo passò da sistemi di tipo religioso a quelli teoetotomistici: una transizione a cui si accompagnò una profonda e penosa involuzione caratteriale ed esistenziale dello stesso.

In tale accezione interpretativa è ovvio che l'intera missione redentiva di Gesù dovrebbe essere rivolta ad un recupero «mondano» dell'«Uomo», in grado di ovviare a tali sinistre degenerazioni. Gesù cercò infatti di mostrare all'uomo l'immagine perfetta di «Uomo», di «immagine e somiglianza di Dio» che era sfuggita dalle mani dello stesso, quella stessa dimensione ontologica e filosofica che era «cresciuta» in Gesù, che lo stesso aveva purificato spiritualmente nel deserto, e che sentiva nel contempo di sublimare nell'eccezionalità della sua divinità.

Gesù mostrò infatti la profonda armonia che sgorgava dall'unione di quelle due incommensurabili realtà ontologiche, la trascendenza e l'immanenza, in una sintesi in cui tutto l'essere coacervava nella spiritualità di una sua religiosa collocazione, in un creato inteso finalmente non come realtà «degradata» quanto come disegno d'amore «tutt'ora incorrotto» della divinità creatrice: causa prima, somma, perfetta di ogni cosa, di una natura originata sin dall'inizio proprio così come ora la si percepisce.

Uno sforzo, una tensione spirituale ed intellettuale che non si arrestò neanche dinnanzi all'accettazione cosciente, lucida, del suo martirio. Ebbene, questo coinvolgimento pieno, estremo, inflessibile e doloroso di Gesù ha un risvolto straordinario: fa infatti riflettere sull'importanza dell'essenza terrena, dell'esistenza mondana dell'«Uomo», sul risalto che Gesù attribuiva alla mondana manifestazione dell'intrinseca divinità e sacralità dell'essere «Uomo». In questa accezione religiosa si resta colpiti dalla profondissima considerazione che Gesù espresse per l'esistenza terrena dell'individuo e la piena manifestazione mondana dell'essenza divina dell'«Uomo», la dignità ed il rilievo che egli riconobbe a quest'espressione.

Gesù propone una figura umana capace di assumere un risalto che trascende radicalmente la valenza «biologica», pur senza minimamente sminuirla o svalorizzarla, anzi impreziosendola proprio nell'affermazione perfetta della sua trascendenza.

La necessità di queste espressioni confluisce «senza soluzione di continuità» nel senso cosmico della creazione, nel proposito creativo divino, rivolto proprio all'emersione di simili figure ontologiche e prospetta una concezione dell'esistenza «santificata» non nello sforzo di conquistare una improbabile salvezza futura, nel sacrificio di porre in atto disegni imperscrutabili, insondabili; bensì dalla addirittura «fisiologica, inevitabile affermazione di un'intrinseca quanto incorruttibile trascendenza interiore».

Gesù non viene a proporre il viatico per una salvezza futura, bensì un'affermazione attuale di una nostra «congenita ed incorrotta sacralità», capace di coronare l'originario progetto creativo.

Alla luce di questi capisaldi religiosi ben diverso è il senso, il significato delle sue parole, delle sue parabole, delle sue escatologiche visioni. Le sue esortazioni, gli sprazzi evocativi di questa condizione non rappresentano più «comandamenti», «istruzioni», come avviene attualmente, destinati ad una fideistica e sterile osservanza, bensì indizi, frammenti, «bagliori» di uno stato esistenziale, di una condizione interiore affatto «conseguente» al coronamento di un itinerario evolutivo, di uno sviluppo intellettuale, spirituale e cognitivo... perfetto, verso l'«Uomo». Così facendo Gesù pone un termine, una meta di perfezione da cui deriva, a cui non procede, il senso, il contenuto delle sue affermazioni. Egli non propone elementi che «conducono a quella» meta, o condizione ontologica, ma che forniscono indizi di cosa può scaturire una volta raggiunta «quella» condizione; riporta segni ed esperienze, ideali e conclusioni che possono essere percepite, comprese pienamente e sintetizzate «solo una volta raggiunta quella» condizione ontologica, prettamente mondana. È una logica del tutto diversa da quella attuale.

Non dobbiamo applicare dunque un sillogismo del tipo: «“se” si agirà in un queste modalità “allora” si potrà raggiungere una data condizione ontologica”».

Ma un sillogismo inverso, del tipo: «“se” si giunge a tale condizione ontologica “allora” allora si agirà in quelle modalità».

Quindi: «nella misura in cui» l'itinerario spirituale dell'uomo approderà a tali lidi, «nella misura in cui» l'uomo realizzerà, sulla Terra, tale condizione esistenziale, tale percezione interiore, «allora» potrà aspirare alla comprensione, chiara e totale, del suo spirito, dello Spirito Santo che egli voleva trasmettere ad ogni uomo.

Non il timore, l'apprensione sulla propria sorte quale molla di redenzione, ma una consapevolezza, questa volta epistemologicamente coerente con la razionalità dei vari ambiti di conoscenza dell'uomo, su tutti quello scientifico – ecco un altro motivo della posizione agnostica sempre rigorosamente sostenuta –, in un «Dio Altro» così amoroso da dare a tutti i suoi figli, incondizionatamente, aprioristicamente, inevitabilmente, il suo amore, la sua perfezione, la sua stessa sostanza divina e di salvarli tramite il Figlio Unigenito, il suo dolore ed il suo sacrificio. «Questa fede» in Dio non chiede all'uomo dolore per salvezza futura, ma condizionata, ma dona, oltre a questo, la possibilità di perfezione sin dall'esistenza terrena.

Ci si ponga allora dinnanzi a queste affermazioni, alla narrazione delle parabole, in questa nuova predisposizione, non cercando d'incastonare questi passi in un inconsistente coacervo di «disposizioni» da seguire con umiltà, contrizione e mortificazione, da osservare per sentirci ed essere «buoni per essere salvi», bensì tentando di comprendere appieno la situazione esistenziale, filosofica, spirituale da cui possano procedere tranquillamente, soavemente, naturalmente, tali bagliori, frammenti di vita e santità.

Per giungere alla meta che indicata dobbiamo interiorizzare, comprendere ed accettare, convertendo la nostra visione del mondo, di noi stessi, la visione che ci ha donato, far germogliare in noi il seme filosofico e teologico che egli ci ha affidato, facendolo fruttare «... dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta...» (Mt 13, 23).

Gesù predicò, propose, manifestò una meta che scaturiva dalla presa di coscienza profonda, completa, della collocazione ontologica di un essere creato il cui nucleo più profondo è costituito – per quanto incredibile possa apparire – da una natura divina, sovrannaturale, perfetta, modellata ad «immagine e somiglianza di Dio», libera, pura. Questa percezione profonda pone quest'ente, comunque costituito di «carne», quindi intriso nella finitude della natura, nella realtà fisica dell'universo, in una posizione filosofica significativa nell'intero creato – posizione sicuramente non esclusiva, ma condivisa forse con altre forme viventi auto coscienti che le dinamiche evolutive, pur indeterministiche che siano, possono statisticamente far apparire nell'universo.

Una collocazione filosofica dunque condivisibile, si tiene a sottolinearlo in relazione a tutta l'analisi sinora condotta sulle possibili prospettive teleologiche dei processi evolutivi, da qualsiasi realtà bio-evolutiva intelligente originatasi nell'universo fisico «nella misura in cui questa riesca intellettualmente a recepire opportune ipotesi filosofiche». Una condizione in cui tale ente, pur sentendosi «costretto» in un ambito biologico, storico ed individuale, sociale, contingente, ineluttabilmente immanente suo malgrado, riesce a far emergere significativamente le pieghe della sua intrinseca trascendenza, focalizzando su quest'ultimo nucleo ontologico autenticamente «universale» l'intera sua esistenza, le sue scelte, i suoi gesti.

Una condizione, dunque, a cui può giungere un qualsiasi essere auto cosciente, giunto ad un opportuno sviluppo psico intellettivo – risultato bio-evolutivo significativamente attendibile nel contesto delle dinamiche evolutive naturali, come si è visto, se si valuta il fenomeno a livello universale – collocandosi in un sistema di coordinate religiose contraddistinto da:

1) divenir parte, con la propria esistenza, di una dimensione ontologica che trascenda l'immanenza della realtà fisica;

2) poter contare su di un'affinità congenita ed incorruttibile tra il proprio essere ontologico e l'ente creatore, posto filosoficamente all'ipotetica origine increata dell'intero ente creato;

3) esser parte di una dimensione ontologica immanente – la realtà fisica della natura – diretta ed incorrotta manifestazione del proposito creativo della divinità. Un «gesto» che esprime «perfettamente» perfezione, onnipotenza, libertà, ed amore confluiti per volontà creativa nella natura, nell'essere di ogni creatura; nel nostro caso nell'uomo.

Ecco, per inciso, come un ideale religioso può essere definito in sostanziale coerenza con quanto le odierne concezioni scientifiche ci pongono, in sostanziale contro tendenza con quei modelli di «intelligent design» attualmente rispolverati per poter calare una metafisica teoetotomistica anacronistica ed inadeguata nei moderni paradigmi scientifici. Questi inediti capisaldi filosofici, teologici e cosmologici permettono infatti di sorreggere rapporti ontologici ed esistenziali tra uomo e Dio, tra uomo e uomo, tra l'uomo e la natura, di definire una percezione religiosa della propria natura decisamente distinguibile da quella teorizzabile tramite ogni altro quadro filosofico cosmologico, sia esso prettamente materialistico – ateo –, che dualistico teoetotomistico.

Quest'inedita, peculiare interpretazione religiosa, permette inoltre di proporre risposte ineguagliabili agli slanci, agli aneliti spirituali, alle tensioni fondamentali dell'essere umano con un'intensità ed efficacia esplicativa finora sconosciute, erigendo altresì una cesura incolmabile sotto il profilo formale e filosofico a possibili degenerazioni, a contaminazioni dualistico teoetotomistiche. Questo poiché l'ideale religioso definisce inequivocabilmente l'incorruttibilità della natura trascendente dell'uomo, afferma la totale mancanza di qualsiasi correlazione tra tale qualità e le scelte etiche dell'individuo, nonché l'assoluta assenza di qualsiasi relazione meritocratica, di qualsiasi rapporto tra l'operato mondano dello stesso ed il suo approccio ad una possibile dimensione sovrannaturale.

Si noti per inciso un aspetto, già evidenziato, legato alla «apertura indeterministica» delle dinamiche naturali, specialmente, ma non solo, bio-evolutive. Questa «intrinseca» valenza dell'intero creato sembra essere inteso quale sorta di «manifesto programmatico» di un gesto creativo teso irrimediabilmente alla «intrinseca libertà» delle dinamiche naturali, degli «enti naturali»: è immediato come, per estensione, questa potente istanza possa costituire il «percetto filosofico», l'«intrinseca testimonianza» di un eventuale fine creativo che... non potrà mai essere precluso a quegli «enti naturali auto-coscienti» che, con la loro eventuale emersione, potranno disporsi ad «osservare» l'universo tutto. Si conviene che questa «lettura» sia una mera considerazione filosofica: ma il fatto è che, ora che possiamo disporre di un paradigma indeterministico evoluzionistico, tale accezione è finalmente alla portata della nostra consapevolezza, ed ancor più è perfettamente alternativo al paradigma teoetotomistico! Ecco come un paradigma scientifico possa mutuarsi in originali e potenti accezioni filosofico teologiche.

Dunque da tale paradigma può derivare un'accezione teologica, potente, universale, di «ente cosciente eticamente libero», ergo di «uomo eticamente libero». Una consonanza profonda con il paradigma religioso! Ed il paradigma religioso, con le suddette modalità, può esibire consonanza con questi passi evangelici. La sequenza diventa sempre più intrigante e potente...

Una volta definito questo punto, assume un deciso risalto un altro aspetto, rivolto, finalmente, ai rapporti interni all'ente creato, tra l'uomo e gli altri uomini, le altre creature, la natura.

In poche parole, nel pensiero di Gesù è essenziale la collocazione, la prassi «mondana» di un essere umano capace di cogliersi, nel suo essere nel mondo, quale «Uomo eticamente indipendente in un conteso religioso». Ovviamente questa condizione si esprime anche nell'ambito dei rapporti interpersonali, sociali ed economici che definiscono la sua esistenza. Quali sono dunque gli aspetti «pragmatici» che «ricadono» da tale condizione esistenziale, da tali posizioni filosofico teologiche? È in questa cornice che si devono porre le affermazioni, i principi definiti dal pensiero di Gesù; è qui che si realizza il contesto in cui comprendere lo «spirito» da lui mostratoci.

Dunque è nella realtà mondana, e solo in questa che dobbiamo «comprendere» le conseguenze di siffatta percezione della realtà. La problematica connessa ad una visione monistico religiosa defluisce dunque dai suoi capisaldi filosofici, teologici e cosmologici, irrorando le più distinte sfaccettature della nostra peculiare esistenza ontologica, le nostre più specifiche esigenze naturali, biologiche e sociali, rivolgendosi alla nostra esistenza mondana di soggetti auto coscienti dell'ente creato.

Una valenza che Gesù, condivise, comprese ineluttabilmente nell'itinerario che lo condusse all'affermazione della sua irripetibile esistenza, alla manifestazione della sua interiore natura di Dio Uomo.

Cosa può allora derivare da tali assunti? In primis, si può citare una rivalutazione netta dell'individuo, della positività intrinseca del suo essere ontologico, del senso di un'esistenza consona alla matrice interiore, divina del suo essere. È sulla possibilità di ciascun individuo di gestire il proprio destino, di affermare la propria sacralità, che si fonda l'espressione religiosa dell'esistenza. La singolarità ontologica di ciascun individuo, la dignità della sua esistenza viene ad essere al centro del discorso di Gesù, che d'ora in poi sarà espresso, nella sua peculiarità, con l'aggettivo «cristiano» - termine che, come si può già intuire, non corrisponde minimamente a quanto inteso sinora, ad esempio come sinonimo di «cattolico».

L'oggetto del pensiero «cristiano» è dunque l'«Uomo eticamente indipendente in un conteso religioso, immagine e somiglianza di Dio», entità che risulta dall'espressione di ideali filosofici e pulsioni «naturali», corporee, unite alla manifestazione di un sovrannaturale rapporto «Uomo»-«Dio», «Uomo»-«Uomo», nella realtà del creato.

Quest'«Uomo » non è l' H. s. s. aeconomicus, o l' H. s. s. teoetotomisticus che emergono dagli ideali materialistici e dualistico teoetotomistici delle dottrine e delle ideologie attualmente conosciute. È piuttosto l' H. s. s. religiosus a raffigurare la mediazione perfetta, libera, cosciente della duplice natura, divina e mondana, in cui questa «specie filosofica» può percepire la base della propria individualità, della propria singolarità.

Ebbene, il messaggio «cristiano» propone frammenti significativi del contesto socio economico, interpersonale più consono alla perfetta espressione di questa figura: un'espressione ecumenica tale da porre in auge, qui sul nostro pianeta, seppur in modo contingente, quel che Gesù chiamava «Regno dei Cieli».

L'avvento di questa meta mondana – non necessariamente da intendere come utopistica – non rappresenta affatto il sorgere di una nuova, indefinibile ed impalpabile realtà permeata da prodigiosi eventi sovrannaturali, come banalmente si indica, bensì l'attuazione di una società «nuova», reale e mondana dove si avrà «solo» l'affermazione di principi esistenziali assolutamente naturali, concreti ma tali da condurre positivamente alla manifestazione ecumenica della figura dell' H. s. s. religiosus. Nulla più.

Dalle parole di Gesù, dai suoi insegnamenti, emergono solo i capisaldi filosofici, i caratteri fondamentali, comunque più che sufficienti, di questa positiva condizione mondana. Dagli sprazzi evocativi delle sue parabole, affermazioni, visioni si delinea la figura di un «Uomo» spinto ad un atteggiamento di «moderatezza», e non di paranoica alienazione, nei confronti della ricchezza materiale in sé per sé; di un individuo portato ad atteggiamenti cooperativistici, alla disponibilità nei confronti dell'altro che, comunque, non giungono a mortificare in alcun modo la dignità della propria esistenza.

Un «Uomo» che imposta la propria esistenza su una base essenzialmente razionale, puro di sentimenti, coerente e responsabile nelle sue decisioni, affabile, aperto, forse malinconico ma fiducioso nella realtà che lo circonda, non oppresso da soverchie preoccupazioni mondane, pronto a contenere i bisogni materiali, le esigenze individuali e collettive – non però a sminuirle o reprimerle sterilmente – a favore della manifestazione della propria dignitosa, intrinseca e perfetta trascendenza.

È alla luce di quest'ultima esigenza e null'altro che, secondo Gesù, è da comprendere la «trascuratezza mondana» da lui prospettata. Il «distacco» dalle cose terrene ha senso, giustificazione solo esclusivamente in funzione di quest'esigenza, solo al fine di permettere una perfetta e sfavillante emersione di questo tratto trascendente nell'esistenza quotidiana.

Solo grazie a questa relazione è possibile comprendere il senso ed i limiti di questo «distacco». Esso infatti, inteso in questo contesto, perde quella valenza assolutistica, quel rifiuto fideistico del mondo, sterile quanto paranoico, che caratterizza l'etica cattolica e protestante, come l'assillo fariseico di sfuggire alle contaminazioni alimentari e legali legate ai precetti etico igienici e fideistici della Tôrâh.

Tale distacco rappresenta soltanto la «necessaria» concessione in grado di permettere all'individuo di mettere in rilievo la propria traboccante trascendenza. La coscienza di quest'intrinseca, ineluttabile ed incorruttibile trascendenza pone allora il distinguo tra la prassi esistenziale, l'auto comprensione ontologica dell'individuo religioso e, seppur in minor misura, dell'ateo, ma in particolare del teoetotomista.

Là dove l'ideale ateistico, laico pone filosoficamente le basi per un'esistenza, un'auto-percezione ridotte all'immanenza, là dove l'ideale teoetotomistico porta l'individuo a barattare la sua esistenza mondana con la sua futura salvezza ultraterrena, i principi filosofici religiosi pongono le basi per una prassi, per un'auto-percezione ontologica dell'individuo da cui derivano ineluttabilmente le suddette distinte caratterizzazioni. Superando l'angosciante immanenza, il materialismo di una visione e di una prassi atee, le distorsioni, le degenerazioni ed i ricatti dell'ideale teoetotomistico, la visione religiosa pone l'uomo in un nuovo contesto, dinnanzi ad un nuovo paesaggio, ad una nuova, inimitabile percezione di se stesso.

Un paesaggio in cui l'individuo si riconosce non nelle vesti di uno sventurato essere scagliato dalla sorte, suo malgrado, nella piena vorticosa di una lotta condotta con ogni mezzo, ad ogni costo, magari fornendo l'ideale filosofico per un'etica come quella individualistico-liberistico capitalistica odierna, dove ciascuno si coglie tra un brulicare di «avversari», di concorrenti per un posto al sole, senza pietà, sbranando per non essere sbranato; o nella metafora che raffigura il credente nell'alpinista abbarbicato lungo un'irta parete, sospeso tra scarlatti lampi e cupi, orridi abissi, appollaiato, tremante di paura, con le unghie sanguinanti, all'esile corda della sua fede.

In sostituzione di queste angoscianti visioni può dunque avanzare lo scenario calmo ed armonioso, disteso, di un paesaggio ove l'«Uomo» procede con passo sicuro, tranquillo, dove il suo sguardo, il suo spirito possono tracimare oltre l'orizzonte, ove l'altro non si approssima per sbranare, ma per riconoscersi nei suoi occhi, nelle sue carezze, nelle sue lagrime, nei suoi stessi vortici.

Un paesaggio illuminato da una religiosa positività di fondo che permea ed ingentilisce ogni cosa, che smussa le asperità, senza peraltro anestetizzare l'esistenza e la malinconica consapevolezza dell'essere, della sua profonda e multiforme valenza emotiva. Si provi pure a calarsi nell'interpretazione, nella comprensione delle «sue idee» da questa particolare angolazione interpretativa: le beatitudini dunque.

 

Le Beatitudini

 

Tra tutte una mi ha dato sempre da pensare: «Beati i poveri di spirito» (Mt 5, 3).

La prima beatitudine. Quest'affermazione così apodittica lasciata sicuramente interdetti. Chi sono costoro?

Cosa vuol dire «povero di spirito»? Né più, né meno, sono poveri coloro che abbisognano di un qualcosa in relazione allo loro esigenze: ad esempio, non possiedono quantità sufficienti di beni materiali come vestiti, denaro o cibo, acqua. Si parla dunque di una vera e propria «carenza di spirito». Di che tipo? E di quale spirito?

È ovvio come in questo frangente sia necessario specificare in merito al tipo di «carenza» e alla natura dello spirito in difetto. Una «carenza» innanzi tutto può anche essere qualitativa, come nel caso di lacune culturali, di informazione etc. Si potrebbe pertanto arguire che «poveri di spirito» sarebbero dunque coloro che venivano a trovarsi in una situazione di carenza spirituale più o meno grave – od addirittura completa – e che, a causa proprio di questa mancanza, dovessero sperimentare uno stato di sofferenza, di disagio profondo al pari dei mendicanti ed indigenti che, purtroppo, ancora possiamo osservare intorno a noi? Sì, ma di quale «lacuna» spirituale si tratterebbe?

Nell'uso corrente, si parla di «ricchezza di spirito» per indicare una persona dotata di cospicue risorse e capacità morali, culturali ed intellettuali. Ben lungi dal dedurre che l'affermazione di Gesù possa indicare la presunta beatitudine di soggetti... di esigue capacità intellettive e di spiccata ignoranza, boutade spesso vagamente presente in certe considerazioni spesso associate a determinate espressioni di fede, non resta che puntare, nel contesto di questo singolare taglio esplicativo, su di un aspetto sicuramente particolare di questa «ricchezza spirituale».

Una proposta sicuramente valida dovrebbe sottolineare innanzi tutto per la frase in oggetto un profondissimo senso teistico. Ne consegue che la ricchezza o povertà spirituale a cui ci si dovrebbe riferire è collocabile nel quadro redentivo e messianico della missione di Gesù, dei contenuti della sua predicazione, della sua venuta.

Risulta ovviamente quanto mai contraddittorio immaginare che qui Gesù faccia riferimento a quello «spirito» redentivo di cui egli fu latore nel corso della sua missione. In questo brano egli deve sicuramente far riferimento ad uno ben preciso «spirito», radicalmente distinto da quello che voleva donare, manifestare all'uomo per la sua redenzione.

Qualunque essa sia, Gesù afferma che la mancanza, l'esiguità di questa qualità interiore dell'individuo possa essere una condizione positiva per l'accesso dello stesso al «Regno dei Cieli». Un'efficace interpretazione dei «poveri di spirito» può allora derivare dalla determinazione della categoria a questa complementare, quella dei «ricchi di spirito». È possibile che identificando i motivi, i caratteri per cui questi ultimi si troverebbero in una condizione interiore tale da ostacolare, rallentare, se non impedire, tale «accesso» al «Regno dei Cieli» si possa disporre della chiave di volta per definire, come suo complemento, la categoria dei «poveri in spirito». Ebbene: chi sarebbero questi «opulentissimi spiriti», così lontani dal Regno messianico?

Una netta risposta può derivare dal raffronto di vari brani evangelici. In molti passi, come visto nel caso del Battista ed i Farisei, è possibile cogliere una netta avversione e rifiuto di Gesù nei confronti di tutta una serie di categorie sociali dell'epoca, sicuramente accomunabili da un fondamentale carattere; l'appartenenza osservante, rigorosa ed esteriormente «ineccepibile», ad una teoetotomia. Si sta ovviamente parlando degli adepti, dei seguaci della teoetotomia ebraica: Scribi, Sadducei e Farisei.

Verso queste categorie, la loro etica, il loro «lievito», la loro «giustizia», il loro perbenismo e la loro ipocrisia trasuda l'opposizione netta di tutto il corpus filosofico dei Vangeli . È contro quelle figure che Gesù scagliò le sue più veementi maledizioni, è contro la loro società che espresse il suo più profondo rifiuto, il suo disprezzo, è rispetto al loro «lievito» che Gesù mette in guardia (Mt 16, 7-12).

Alla luce di ciò è dunque facile interpretare in modo nuovo quest'affermazione di Gesù.

Un'interpretazione che scandalizzerà sicuramente molte «opulentissime coscienze» attuali. Una spiegazione possibile dell'accezione «poveri in spirito» utilizzata da Gesù deriva dal mettere dapprima in evidenza la posizione privilegiata, nella ricerca del suo Regno dei cieli, di tutti quegli individui che vivevano «al di fuori» dello spirito, della teoetotomia ebraica, del sistema socio culturale e teologico ebraico.

Si ponga come «spirito» la condizione interiore e sociale dell'individuo positivamente inserito in un contesto teistico e sociale, in un tessuto socio culturale in grado di far percepire allo stesso, magari a prezzo della sua autonomia etica, una positiva appartenenza ad un disegno salvifico, la «benevolenza» ed «approvazione» della divinità alla sua condotta morale. Se si considerano le mistiche e sollevanti sensazioni a ciò connesse – comunque minate dalla penosa alienazione della propria autodeterminazione –, è possibile dedurre che «poveri di spirito», rimanendo nel contesto storico sociale di quei tempi, erano tutti coloro che avevano rifiutato il dio teoetotomistico ebraico e che, in uno stato di prostrazione interiore, di decadimento psichico e spirituale, molto probabilmente, cercavano inconsciamente ed ossessivamente di colmare, nel corso della loro esistenza, quell'orrendo strappo, quell'alienazione inevitabile della frazione della propria percezione ontologica in grado di dare loro accesso alla realtà infinita del trascendente, così esiziale per ogni essere umano. È questo un comportamento facilmente osservabile anche nelle nostra attuali culture. L'identificazione è sicuramente intrigante… e come si vedrà ci sono varie considerazioni che la rendono quanto mai realistica.

«Poveri in spirito» erano dunque – e sarebbero ancor ora – gli increduli, i «peccatori» incalliti, i senza Dio, scacciati dal tessuto sociale delle culture teoetotomistiche: dunque atei, agnostici etc. Emarginati che, malgrado tutto, rifiutarono il ricatto della loro sorte futura da barattare con la propria indipendenza etica terrena – mostrando così una personalità ed una dignità assolutamente notevoli – e che per questo vivevano, specialmente allora, al di fuori della legalità «socio teologica» strettamente intrecciata alla relativa teoetotomia, al di sotto delle classi più osservanti, delle elités economico politiche e sacerdotali del sistema teocratico. Dunque «poveri in spirito» erano gli Amha-aretz, le classi subalterne, proletarie, il sottoproletariato palestinese, che dissentivano, più o meno in modo manifesto, con l'oppressione morale e sociale di quei sistemi.

«Beati costoro» ammoniva Gesù. Ecco chi erano i «poveri in spirito»: coloro che avevano rifiutato le divinità teoetotomistiche. A questi si contrapponevano, come accade tuttora, i «ricchi di spirito», coloro che avevano colmato la loro pressante, universale esigenza spirituale accettando, con tutte le implicazioni del caso, le dottrine teoetotomistiche di quei tempi: Farisei, Sadducei etc. Guarda caso che erano proprio questi coloro contro cui si scagliò Gesù.

Dato che al rifiuto spirituale di questi individui, dei «poveri in spirito», corrispondeva inevitabilmente, specie in quei tempi, una radicale e penosa emarginazione dal tessuto sociale, ecco i poveri, le prostitute, i peccatori, gli affamati, gli assetati, i disadattati, i «poveri in spirito» a cui Gesù si rivolgeva. E guarda caso che veniva proprio da questi ambiti sociali il grosso del suo seguito, del suo «gregge».

Con queste identificazioni sembra dunque di poter porre in modo sufficientemente realistico i termini per una precisa determinazione di queste «classi». E si noti, giust'appunto, che in merito a questo argomento le canoniche interpretazioni teoetotomistiche rendono spiegazioni assolutamente fumose ed imprecise, per non dire inesistenti.

È possibile a questo punto comprendere le ragioni di Gesù? Cioè, perché i «poveri di spirito» sarebbero favoriti nell'accesso al «Regno dei Cieli»? Perché mai i «ricchi di spirito» si troverebbero in una condizione di svantaggio nei loro confronti?

Si può formulare un'ipotesi attendibile, che verte essenzialmente sugli aspetti psicologici di questa duplice condizione, in base alla collocazione di questi diversi soggetti nel contesto socio culturale. La categoria dei «ricchi di spirito» comprenderebbe, per quanto detto sinora, soggetti prevalentemente diffusi in classi sociali intermedie o comunque economicamente e culturalmente più adeguatamente inserite nella struttura etico sociale di una cultura teoetotomistica.

Quali possono essere gli aspetti psicologico caratteriali più specifici di questi soggetti? Alla luce degli aspetti più essenziali messi in evidenza nel corso di questo lavoro, sembrano quanto mai interessanti e pertinenti le conclusioni che emergono dall'opera di Erich Fromm. Osservazioni che in modo postumo si è avuto il piacere di riscontrare nei suoi scritti e che hanno poi rappresentato un solido aiuto all'affinamento della presente teoria, oltre che una preziosa conferma di alcune previsioni della stessa.

Fromm propone un concetto estremamente interessante, seppur sdrucciolevole nella sua applicazione, in quanto può condurre a fastidiose quanto fuorvianti generalizzazioni: quello di «carattere sociale».

È questo un concetto molto vicino, nei contenuti, a quello, già presentato, di «personalità modale», con l'eccezione che in Fromm tale concetto assume un particolare risalto psicologico, più che antropologico, nel descrivere la particolare disposizione socio individuale riscontrabile negli strati sociali di una determinata società, di una particolare cultura. È ovvio che c'è da intendere questa struttura psicologica non in modo ingenuo, magari immaginando la mente umana come una «tabula rasa» in cui la cultura possa imprimere ogni tipo di condizionamento. Sarebbe un madornale errore. Le neuroscienze, la psicologia sociale, l'etologia e l'antropologia moderne (ed in generale la teoria evoluzionistica della conoscenza) sconfessano decisamente tale concezione. Piuttosto il concetto di «carattere sociale» può essere definito come una sorta di «sovrastruttura» in cui possono agire i particolari aspetti culturali, comunque in connessione con fonti di condizionamento etologico di origine biologica, di solito universalmente presente nel consorzio umano, a cui si debbono ricondurre estese frazioni del comportamento umano.

Così ce lo descrive lo stesso Fromm: «Che cosa si intende per carattere sociale? Con questo concetto intendo il nucleo della struttura di carattere condivisa dalla maggior parte delle persone di una medesima cultura in contrasto con il carattere individuale con il quale persone appartenenti ad una stessa cultura si differenziano l'una dall'altra.

Il concetto di carattere sociale non è un concetto statico nel senso che esso sia semplicemente la somma complessiva dei tratti di carattere che si trovano nella maggioranza delle persone di una data cultura.

Esso si può comprendere solo se ci riferisce alla funzione del carattere sociale... I membri della società, come pure le varie classi o gruppi sociali in essa esistenti, devono procedere in modo tale da esser capaci di funzionare nel senso richiesto dal sistema sociale. Funzione propria del carattere sociale è quello di condizionare le energie dei membri della società in modo tale che il loro comportamento non dipenda da decisioni coscienti sull'opportunità di seguire o non seguire il sistema sociale, ma dipenda dalla volontà di agire come “devono” agire, trovando nel contempo soddisfazione nell'agire in accordo con le esigenze della cultura.»6

In altre parole: «...la struttura socio economica di una società plasma il carattere sociale dei suoi membri in modo tale che essi desiderano fare ciò che “devono fare”...»7

Ancora opportunamente lo stesso Fromm così commenta: «Il concetto di carattere sociale è un concetto – chiave per la comprensione del processo sociale. Il carattere, nel senso dinamico della psicologia analitica, è la forma specifica in cui l'energia umana viene modellata dall'adattamento dinamico delle esigenze umane al particolare modo di esistenza di una determinata società. A sua volta il carattere determina i pensieri, i sentimenti e le azioni degli individui. È un po' difficile riconoscerlo rispetto ai nostri pensieri, poiché tendiamo tutti ad accettare l'opinione convenzionale secondo cui il pensare è un atto esclusivamente intellettuale, indipendente dalla struttura psicologica della personalità. Però non è così, e lo è tanto meno quanto più i nostri pensieri si occupano di problemi etici, filosofici, politici, psicologici e sociali piuttosto che della manipolazione empirica di oggetti concreti.

Tali pensieri, a prescindere dagli elementi puramente logici inerenti l'atto del pensare, sono largamente determinati dalla struttura della personalità dell'individuo che pensa. Ciò è vero sia per l'insieme di una dottrina che di un sistema teoretico, sia per il singolo concetto, come l'amore, la giustizia, l'uguaglianza, il sacrificio.

Ognuno di questi concetti e ciascuna dottrina ha una matrice emotiva, e questa matrice è radicata nella struttura del carattere dell'individuo.»8

Il concetto di «carattere sociale» ci permette dunque di disporre di un corrispettivo forse più concreto e comprensibile dei termini «ricchi di spirito» o «poveri di spirito» evangelici, ed un probabile contributo alla risposta dei nostri quesiti. Potremmo identificare dunque i «ricchi di spirito» in quegli individui la cui struttura della personalità sia significativamente contraddistinta di tratti del «carattere sociale» propri della società patriarcale, sessuo repressiva e teoetotomistica ebraica. Soggetti cioè – Farisei, Scribi, Sadducei etc. – che proprio per l'attivo, positivo e concreto inserimento nel tessuto sociale ebraico, per la possibilità di identificarsi fattivamente negli stereotipi, nelle direttive, nelle mete e le gratificazioni morali, economiche e sociali poste da quel sistema sociale, presenterebbero le più accese resistenze all'accettazione di una «lieta novella» che, se compresa e riconosciuta, avrebbe sconvolto il loro edificio socio culturale, il loro sistema teistico e cosmologico, tutta la loro teoria di valori etici e filosofici.

È proprio questo tenace aggancio alle coordinate etiche proprie di tali sistemi socio economici e culturali, il differente sviluppo di tale penoso orpello caratteriale, fatti questi gravidi di implicazioni psicologiche nella definizione della personalità del soggetto, a porsi quale discriminante tra le classi dei «ricchi di spirito» e dei «poveri di spirito» e motivazione dei favori che i «poveri» avevano agli occhi di Gesù, del perché del loro essere «beati».

Da un lato si hanno i «ricchi in spirito»: individui positivamente rivolti all'affermazione di principi quali l'ordine, l'obbedienza irreprensibile – anche se solo esteriore – ai canoni etici del sistema sociale, all'attuazione di quel distacco emotivo dalle passioni e dai sentimenti sostenuta dall'ideologia sessuo repressiva di tali sistemi culturali, contrari alla valenza «genitale», spontanea e libera, immediata quanto irriducibile dell'«Uomo».

Dall'altro abbiamo i «poveri in spirito»: individui sospinti verso una prassi esistenziale giust'appunto «genitale», irriducibile e fiera, manifestata attraverso una radicale opposizione alla precedente, castrante ed opprimente percezione dell'essere umano. Due basi, due stati interiori dell'individuo nettamente distinti ed antitetici, che implicano una ben diversa disposizione dello stesso verso la comprensione, l'interiorizzazione della «lieta novella».

Queste dinamiche psicologiche, proprio per il loro poter essere ricondotte al concetto di carattere sociale, possono ulteriormente essere interpretate come manifestazioni di diversi sviluppi dell'istanza del Super-Io, quale ad esempio quella tipica del sistema teoetotomistico patriarcale della società ebraica dell'epoca. Un'istanza assai pronunciata nel caso dei «ricchi di spirito» a sostegno di una struttura della personalità pesantemente segnata da un'innegabile manifestazione dei tratti propri del «carattere sociale» di quella società: un'istanza che, al contrario, assente nei «poveri di spirito».

È singolare come Gesù si rivolgesse prevalentemente verso soggetti che, vuoi per educazione che per collocazione sociale, sembravano essere meno irretiti culturalmente e psicologicamente nei fondamenti filosofici e culturali della teoetotomia ebraica, verso gli oppressi e le vittime delle storture derivanti da tale realtà socio economica; eccolo dunque avvicinarsi a poveri e mendicanti, pastori e pescatori, ecco il perché s'intratteneva a desinare con povera gente, pubblicani e prostitute, con i più incalliti «peccatori».

Tutto questo comunque non implica da parte di Gesù un rifiuto, un disprezzo individuale verso i singoli componenti della categoria dei «ricchi in spirito», verso i singoli componenti delle categorie dei Farisei e Sadducei. Egli anzi cercava di stimolare costoro ad un dialogo non meno efficace, come testimoniano i Vangeli stessi.

Piuttosto egli cercava di rivolgere prevalentemente il suo messaggio ad individui che, come detto, sembravano esibire uno stato psicologico tale da porre meno resistenze, meno ostacoli all'interiorizzazione dello stesso, una maggiore prontezza all'accettazione ed all'apprezzamento dei suoi rivoluzionari e gratificanti contenuti. È quanto mai chiaro come il significato di affermazioni quali: «Il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato. Pertanto il figlio dell'uomo è padrone anche del sabato» (Mc 2, 27-28), sia innegabilmente più comprensibile ed accettabile da individui contraddistinti da una personalità meno segnata, come vedremo, da un'ipertrofica istanza del Super-Io ed anelante ad una sempre più ampia e manifesta attuazione della propria autonomia etica.

Per contro, tutto ciò risulta estremamente più problematico da riconoscere a quei soggetti caratterialmente rivolti ad una pedissequa e spersonalizzante osservanza di una legge ed un'autorità esterne – ecco le manifestazioni classiche di un Super-Io ipertrofico – verso cui, cristallizzando tendenze sado masochistiche, come insegna la teoria psicoanalitica, vanno ad affidare il proprio destino, le proprie esistenze, con cui ovviano al loro interiore «bisogno» simbiotico, alle loro interiori «lacune» della personalità.

Ecco un altro decisivo segno della profonda coerenza tra gli obiettivi, le mete del messaggio evangelico e le conclusioni più riconosciute e conclamate del pensiero psicoanalitico da cui procedono irrinunciabili ed innegabili contributi nella comprensione di noi stessi, del profondo della nostra natura psichica, nonché delle più significative valenze del sistema sociale in cui ci muoviamo.

Nei Vangeli inoltre ritrovano contenuti da permettere, a causa delle loro sfaccettature psicologico filosofiche, di travalicare addirittura alcuni dei risultati della stessa teoria psicoanalitica. In essi si va a delineare infatti un'accezione ontologica, una conoscenza dell'uomo tale da tracciare a tutto tondo, con caratteristiche uniche, una sua valenza ontologico metafisica in grado di forzare l'«antropologia» procedente dalla teoria psicoanalitica verso conclusioni decisamente più estreme ed intrise d'assoluto di quelle sinora riconosciute.

Il messaggio evangelico infatti riporta alla luce una matrice sovrannaturale sinora nascosta dell'uomo ed un rapporto uomo-Dio del tutto eccezionale, in grado di comporre – sempre sotto un agnostico approccio filosofico – una situazione esistenziale dell'individuo che intacca radicalmente la condizione psichica del soggetto, condizionando le dinamiche psichiche verso l'emersione di un'inedita condizione psico-filosofica dell'individuo.

Ecco il senso del «... se uno non nasce di nuovo, non può vedere il Regno di Dio...» che scandalizzò Nicodemo (Gv 3, 3). Gesù non proponeva una meta, una «conversione» tale da attuare imperscrutabili trasformazioni extranaturali, misteriose redenzioni sovrannaturali, trascendenti «riconciliazioni» tra Dio e l'uomo e sedicenti «salvezze» di un'anima... in realtà non più contemplabile, e dunque non da contemplare - si ricordino i punti programmatici dell'AVVERTENZA sulla «teologia evoluzionistica».

Il suo obbiettivo «non era salvare» il futuro extranaturale dell'uomo, bensì «salvare la sua realtà mondana» a cui, per inciso, dobbiamo un'importantissima frazione «ontologica» della nostra natura, della nostra essenza «non monadica» di enti naturali «aperti», specialmente a livello psico-cognitivo e sociale come si è visto nei precedenti capitoli; il suo fine era quello di guidare l'uomo a manifestare, a partire da «questa» esistenza, la sua «divinità», la sua sfolgorante trascendenza, al di là dei retaggi sociali e malgrado la sua finitude. Una «traccia» da esprimere, alla stregua di un vero e proprio carattere personale anche in quegli ambiti «esterni» che costituiscono, in tutto e per tutto, il nostro «fenotipo esteso»: nella società, nelle relazioni socio affettive, nelle scelte economiche ed eto-ecologiche con la natura tutta. Si coglie qui, in pieno, l'inedita chiave di lettura che l'attuale paradigma scientifico ci permette di porre in essere con efficacia nell'interpretazione di questi passi!
Come si vede... il gioco vale sempre più la candela.

Egli non indicava i «poveri di spirito» quali modelli ultimi del «Regno dei Cieli», bensì indicava in quelle figure la situazione interiore più consona, «beata», per «avventurarsi verso» gli obiettivi da lui indicati. Non un termine finale ma una condizione iniziale quanto mai favorevole.

Egli cercava d'insinuare nell'uomo il germe – rammentare il ripetuto concetto di «lievito»! – di una comprensione ontologica della realtà, dell'uomo, di Dio, in grado di rimuovere l'infausto influsso dei valori filosofico culturali delle teoetotomie, di dissolvere radicalmente tali orpelli dalla psiche dell'uomo al fine di permettere allo stesso, a tutti noi, di dar compimento, manifestazione alla nostra trascendenza, alla nostra individualità, libertà e responsabilità.

Egli affermò quegli assunti filosofici, quei principi in grado, in un contesto religioso, di permettere l'emersione dell'«Uomo», dell'individuo cosciente, libero e finalmente assoluto, immenso, divino. «Io ho detto: siete déi» (Gv 10, 34) (Si facciano le debite riflessioni su Nietzsche, le sue pur nichilistiche ma a questo punto riduttive visioni del «Super uomo», concetto accolto ma nettamente surclassato da quanto si può a questo punto delineare).

Irridendo e negando l'immagine di Dio propria delle teoetotomie, ponendosi continuamente «oltre» la legge ebraica, affermando i suoi principi religiosi, le sua visione di un Dio amoroso, deciso a concedere «a priori» la massima, perfetta autonomia etica alle sue divine creature e ponendo continuamente la dignità dell'individuo, la sua libertà alla base del disegno creativo di Dio, Gesù non fece che delineare in termini netti, assoluti una nuova realtà interiore dell'uomo. Un itinerario che nella sua valenza psicologica conduce ad una personalità contraddistinta non dalla tragica, problematica e castrante coesistenza tra l'istanza del Super-Io con l'Es e l'Io – riprendendo i termini propri della teoria dinamica di Freud –, bensì dall'armonica fusione tra un Es ed un Io «affrancato dalle angherie del Super-Io». Un risultato che, come dimostrato nelle altre sezioni del sito, è retaggio proprio dei modelli religiosi.

Ecco la peculiarità, l'originalità del messaggio evangelico – che comunque non si riduce «soltanto» a questo contenuto –, la sua assoluta novità ed attualità, il suo essere «oltre», seppur in coerenza, a certe concezioni delle moderne teorie psicoanalitiche. In esso infatti si pongono le condizioni fondamentali, essenzialmente filosofiche, necessarie per condurre l'individuo ad una ricerca, ad una progressiva comprensione di se stesso, dell'altro, della realtà in cui si trova immerso, da cui scaturisca una personalità nuova: lo si osi dire… «ad immagine e somiglianza divina», ovvero procedente dall'attuazione pratica di una ben precisa ipotesi metafisica. Come si vede, qualcosa di estremamente reale, ma riflesso di trascendenza. Un itinerario che conduce ad una personalità in cui l'istanza del Super-Io giunge a dissolversi, a regredire, lasciando l'individuo libero, perfetto.

«Se rimarrete nella mia parola siete veramente miei discepoli, e conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32).

Spogliando l'immagine di Dio di quella componente morale, censoria ed autoritaristica presente senza eccezioni nel modello teoetotomistico, affermando valori filosofici, metafisici religiosi tali da porre ogni individuo su di un piano ontologico di assoluta, identica dignità ed inestimabile rilievo, porgendo all'uomo un'auto-percezione in grado di fargli trascendere i contingenti limiti sociali che intaccano la sua esistenza individuale, la sua storia, lo «spirito» teorizzato e manifestato da Gesù riesce a comporre una situazione filosofica e psicologica tale da stagliare all'orizzonte addirittura… «una progressiva e perfetta dissoluzione del suo Super-Io».

Ci si rende conto facilmente di come quest'affermazione possa forse apparire – sulle prime – un'eresia psicoanalitica. In realtà molti studi condotti presso vari gruppi etnici e socio culturali, come ad esempio evidenziato dall'odierna etnopsicoanalisi9 hanno mostrato come lo sviluppo della triade di istanze psichiche definito da Freud sia da intendere in modo meno rigido ed assolutistico.

È opportuno innanzi tutto ricordare come il coacervo di fattori filosofico culturali che per la teoria psicoanalitica della formazione del Super-Io e, in generale, per le fondamentali dinamiche a carico della psiche, rappresentano una componente di base dello sviluppo di quest'istanza psichica – tralasciando per ora la radice della dinamica della sessualità da cui il Super-Io si origina come superamento della costellazione edipica –, siano stati sinora radicalmente alienati, rifiutati e contrastati dalla dottrina cattolica.

Al contrario, in questa sede non solo si fanno propri tali elementi interpretativi e descrittivi, ma li si utilizzano, fatte le debite precisazioni e definiti i precisi ambiti di validità ed universalità, in una valutazione di tali istanze in relazione ai differenti modelli teologici. È in questa verifica, ed in particolare davanti alla inedita realtà di un ben diverso ambito di definizione teologica, quella dei modelli religiosi, che quest'accettazione permette di proporre addirittura un'inedita prospettiva. Infatti, l'archetipo dell'autorità morale esterna, rappresentato dalla figura teoetotomistica di Dio, il concetto d'obbedienza e sudditanza alla stessa, il nefando concetto di «peccato», fondamentale nell'instaurare nevrosi e sensi di colpa nell'individuo – ed importante nella strutturazione di quel Super-Io così centrale in tutto il pensiero psicoanalitico – risultano assolutamente «assenti» sia nella «lieta novella» evangelica sia in totale sintonia con quanto si osserva nei modelli religiosi. Nei sistemi teoetotomistico patriarcali, autoritaristici e sessuo repressivi per contro tali ideali figure e concetti sono quotidianamente mediati e riversati nella sfera dei rapporti sociali e parentali dove risultano addirittura cristallizzati e divinizzati, assolutizzati.

Il messaggio evangelico sfalda irrimediabilmente tali concrezioni filosofiche, arbitrariamente ed inconsistentemente accumulatesi nel corso della storia precedente dell'uomo, delle precedenti «civiltà» attorno alla figura di Dio, all'auto-percezione ontologica dell'uomo, al rapporto uomo Dio che da ciò deriva, riconducendo l'individuo in un contesto filosofico-teistico perso nella notte dei tempi.

Un ambito estremamente impreziosito dalla novità, lucentezza e risalto che derivano dal tragico e sfolgorante epilogo della missione di Cristo, dall'innesto della sua figura, della sua opera, sul ceppo filosofico del V. T.. Ecco, a questo punto, l'opportunità di ricordare alcuni calzanti brani dei Vangeli:

«Invano, però, mi prestano culto, mentre insegnano dottrine che sono precetti (imparaticcio di usi umani (Is 29, 13)) di uomini» (Mc 7, 7);

«... ogni scriba divenuto discepolo del Regno dei cieli è simile ad un padrone di casa che tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52);

«Aprirò in parabole la mia bocca; svelerò cose nascoste fin dall'origine del mondo» (Mt 13, 35);

«Non crediate chi io sia venuto ad abrogare la Legge e i Profeti; non sono venuto ad abrogare, ma a compiere» (Mt 5, 17);

«Per una discriminazione sono venuto in questo mondo: perché coloro che non vedono ci vedano e coloro che vedono diventino ciechi» (Gv 9, 39).

Ciò conduce l'uomo ad una condizione ontologica nuova, inedita nella sua completezza, all'emersione di una figura di «Uomo» a cui affidare la realizzazione di quel «Regno dei Cieli» di cui si era fatto profeta e fondatore. Una figura di «Uomo» psicologicamente caratterizzata da una condizione psichica aliena dai penosi influssi dell'istanza del Super-Io; un ente in grado di svincolarsi dai più caratteristici retaggi del particolare contesto sociale e parentale in cui si fosse formato. Una figura di «Uomo» in grado anzi di dare finalmente origine ad una società, ad una realtà economico sociale e culturale tali da affermare un «carattere sociale» non contraddistinto, come nelle nostre attuali società, dalla paranoica, irrazionale chiusura, da una fondamentale e manifesta irrazionalità di fondo, bensì dall'affermazione chiara, non utopistica, di termini, concetti, realtà che, con tanta frequenza ed altrettanta falsità ed incompetenza, sentiamo provenire da chiese, pulpiti e palazzi, da autorità e mass media: pace, amore, libertà.

Affermazione che non «conduce a», bensì «deriva da» tale figura di «Uomo», dal superamento dell'influenza psicologica data dall'istanza del Super-Io, dalla piena comprensione ed interiorizzazione dei principi filosofici promulgati da Gesù.

Dalla percezione che tale «Uomo» ha del proprio essere ontologico, dell'altro, della realtà naturale in cui si trova, della sua valenza sovrannaturale, del suo rapporto con Dio, «deriveranno» allora tutte le manifestazioni che impreziosiranno la sua esistenza, le sue attività sociali ed i suoi principi, i suoi ideali, le sue mete: in ultima analisi, la realtà sociale, le relazioni interpersonali ed affettive dell'individuo che costituiscono importanti componenti del nostro stesso essere «Uomo».

Ebbene, una così «inedita» situazione psichica, filosofica, culturale non potrà che condurre a manifestazioni sociali, economiche ed affettive, a rapporti interpersonali del tutto singolari nei loro contenuti. Una volta radicate queste istanze in un'interiorizzazione intellettualistica completa e profonda, perfetta, ciò potrà far scaturire, lentamente quanto inarrestabilmente, un processo di rimozione e riassorbimento del Super-Io. E' chiaro che tale rimozione potrà esser portata alle sue più estreme conseguenze dal concorso irrinunciabile di altre dinamiche e realtà esistenziali, peraltro gestibili in misura significativa dal soggetto, quali le espressioni sessuali ed affettive dello stesso, come più avanti vedremo.

Cerchiamo ulteriori indizi a sostegno di queste deduzioni analizzando gli altri brani del discorso della montagna ed altri interessanti brani evangelici. Prendiamo a tal pro lo spezzone che va da Mt 5, 1 a Mt 7, 27. Si lascia al lettore la ricerca dei brani indicati e gli eventuali agganci sinottici.

Gesù indica come beati i miti, i misericordiosi, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i puri di cuore ed esorta ad una giustizia che deve «... sorpassare quella degli scribi e farisei...» (Mt 5, 20), ad un linguaggio che sia «... sì, sì, no, no...» (Mt 5, 37), a non angustiarsi per il domani ed accumulare ricchezze sulla terra, ad essere «... perfetti come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli...» (Mt 5, 48).

Come si può notare il punto d'arrivo è quanto meno ambizioso in quest'ultimo brano. Quest'affermazione potrebbe apparire a qualcuno iperbolica, utopistica, se non impossibile. Ma questa impossibilità è solo apparenza. Eppure qui si parla proprio di uno stato di assoluta «perfezione», niente di meno!

Di quale perfezione si parlerebbe? È molto importante sciogliere questo quesito. Non dobbiamo in alcun modo dimenticarci le peculiarità del contesto naturale in cui ci troviamo, il quadro cosmologico in cui possiamo riconoscere, con oggettività, il nostro essere fisico, il nostro essere enti creati reali.

È qui che dobbiamo cercare d'enucleare i termini di quella perfezione. Ora, in riferimento a quanto sostenuto nel corso della presente trattazione, è opportuno rifarsi alle conclusioni che fanno capo al seguente prospetto – già presentato nel CAPITOLO 3 del RIASSUNTO DELL'OPERA.

 

ATEISMO

---------------- TEISMO ----------------

Religioni

Teoetotomie

ATEO

RELIGIOSO

TEOETOTOMISTA

Eticamente indipendente

Eticamente indipendente nei confronti della divinità

Eticamente dipendente nei confronti della divinità

Affronta liberamente la vita in base alla propria ragione esperienza, sapienza, biologia limitandosi alla propria immanenza.

Affronta liberamente la vita in base alla propria ragione esperienza, sapienza, biologia   integrando tutto ciò con la consapevolezza della sua presunta trascendenza senza alcun condizionamento etico di tipo trascendente. 

Affronta liberamente la vita subordinando la propria ragione esperienza, sapienza, biologia alla autorità ed alle norme etiche dettate, imposte dalla divinità al fine di salvaguardare il suo destino ultraterreno.

Vede nell'evento della morte il termine estremo del suo essere, della propria individualità e di conseguenza imposta la propria esistenza mirando a massimizzare l'unico e angusto spazio immanente della sua vita.

Vede nell'evento della morte il passaggio verso una probabile, incondizionata vita d'oltretomba, verso la beatificante conoscenza della divinità, dell'assoluto che ha intuito nella sua esistenza una porta dalla quale potrà accedere senza condizioni ad una dimensione fantastica d'abbondanza e conoscenza.

Vede nell'evento della morte il passaggio verso una probabile vita d'oltretomba, ma anche il termine degli eventi terreni, mondani che determineranno, forse irrimediabilmente, il destino d'oltretomba e per i quali dovrà subire dopo la propria morte un giudizio divino estremo ed inappellabile.

 

Prendiamo la colonna centrale e cerchiamo di riproporre tali aspetti filosofici e metafisici in coerenza alla visione scientifica del mondo fisico che nel corso del 19° secolo, sulla spinta delle teorie evoluzionistiche, ci ha dischiuso una concezione cosmologica peculiare ed affascinante. È possibile a partire da questa teoria di elementi, di fatti e di ipotesi individuare i contorni di quella «perfezione»? Sembrerebbe molto «ragionevole, umile e saggio» proporre un no, ricorrere ad una spiegazione che faccia perno su uno stile figurato di tali affermazioni, sul simbolismo di tale espressione, sulla sua valenza estrapolante. Eppure la risposta auspicata è un netto «».

Quale significato può assumere ai nostri occhi tale il concetto di perfezione?

Solitamente utilizziamo tale termine per indicare uno stato qualitativo immune da difetti, sia che ci si riferisca ad oggetti ed eventi che ad azioni o pensieri, costruzioni logiche. Spesso lo stesso è utilizzato anche per indicare stati o situazioni magari rari e notevolmente positivi, in cui si voglia identificare la massima compiutezza od un'assolutezza qualitativa e formale.

Occorre fare una considerazione preventiva. L'impiego compiuto di tale termine presuppone dunque che sia possibile definire a monte del discorso il grado massimo, assoluto, della qualità o carattere ontologico in esame, soprattutto in ambito semantico, al fine di dedurre, tramite il confronto tra tale definizione teorica e l'evento reale, il grado di coincidenza con lo stesso – ecco la «perfezione».

Di conseguenza si può descrivere come perfetto il risultato di un'operazione algebrica e l'applicazione di una determinata serie di norme procedurali, come ad esempio l'applicazione di una legge giuridica o un iter amministrativo, etc. È comunque ovvio che, mentre è possibile ottenere dei risultati «perfetti» in determinati ambiti come ad esempio in un calcolo algebrico, è quanto meno arduo cercare di ottenere tale obiettivo in contesti ben più complessi quali quelli inerenti ad un comportamento etico sociale, sessuale e via dicendo. Esiste però un errore logico semantico nelle discussioni su questo tema che in realtà riesce a far trasparire il vero problema: osserviamo ad esempio un gatto. Biologicamente parlando noi possiamo tranquillamente intendere quel gatto come «gatto perfetto», utilizzando un'accezione zoologica, naturale e dettagliata di «gatto» – che indica un mammifero appartenente alla specie Felis cattus, pur con tutti i suoi parassiti, singolari e individuali caratteri, tare somatiche e quant'altro. Un «gatto perfetto» infatti corrisponde ad un «gatto autentico», esistente, non ad un concetto ideale, dunque ad «un gatto»: un Felis cattus.

È invece diffusa l'opinione relativa ad una fondamentale incapacità dell'essere umano di anche solo approssimare – non parliamo del raggiungere – l'utopistica meta teorica di «perfezione» nella sua esistenza comune. Il detto «solo Dio è perfetto» rispecchia compiutamente tale opinione – favorita ovviamente da tutta una filosofia volta a speculare su tali caratteri teologici. Eppure Gesù propone esplicitamente una «perfezione». C'è forse una contraddizione?

Non necessariamente: esistono i termini per definire, chiaramente, la «perfezione» a cui Gesù si poteva riferire. C'è da dire innanzi tutto come nella trattazione di questo argomento è implicitamente assunto che tale sfuggente qualità sia messa in relazione, in particolare, alla sfera etica. Ora, l'agire di un essere umano rappresenta la sintesi di un concorso di fattori, alcuni dei quali mediabili e mediati dalla sua ragione, dalla sua volontà, altri propri di quella frazione istintuale, inconscia, ineluttabilmente presente nello stesso, altri ancora per qualche modo intaccati da fenomeni propri della sfera socio culturale della società in cui ciascuno è posto.

L'individuo, come abbiamo visto, è sottoposto a dinamiche psico sociologiche tali da condizionare pesantemente l'emersione della sua personalità, del suo sistema caratteriale, per alcuni versi addirittura il suo modo di pensare.

Ora, perché mai proprio questi aspetti impedirebbero di cogliere un individuo come «perfetto essere umano», così come il gatto di cui sopra? Nulla sembra poter inficiare un eventuale riconoscimento di «perfezione» per un tipico essere umano. Eppure questo non avviene. Perché mai?

Il problema di questa «congenita imperfezione» in cui si coglie normalmente l'essere umano, è in realtà dovuto nell'«Ideale di uomo» che si ha in mente quando ci si rivolge a queste valutazione. Ma questo «Ideale di uomo», spesso messo a bella posta davanti alla realtà del nostro naturale essere uomini, deriva da una particolare filosofia – questa sì afflitta da «imperfezione»! – che si è originata in contesti teoetotomistici fissisti, assolutamente sconfessati dalla scienza moderna… quanto residuo anacronisticamente ancora utilizzato in ambiti teologici. Dunque il problema risale ai termini fondamentali delle metafisiche utilizzate nella stessa definizione di tali concetti.

Il concetto di «perfezione» evocato specialmente in queste considerazioni deriva infatti da accezioni filosofiche particolari, proprie di un particolare paradigma: quello teoetotomistico fissista. Ed è proprio tale connessione a questo schema di fondo che genera certi travisamenti e difficoltà – che, come si vedrà, non sono confinate in valutazioni eminentemente filosofiche.

Proviamo a centrare il problema ponendoci nei panni di un individuo che voglia anelare a tale «perfezione»: il solo cercare i termini di una «perfezione» in ambiti così complessi e sfumati rappresenta da un lato una sfida enorme implicando il coronamento di una ricerca che presupponga quali termini ideali d'arrivo l'esistenza di caratteri «assoluti» di essere umano. Ma questo fatto implica il poter definire speculativamente aspetti «universali ed assoluti» dell'essere umano; canoni etico estetici dunque a-temporali, validi al di là di contesti sociali, culturali ed evolutivi determinanti nella caratterizzazione di quella realtà ontologica così mutevole e contingente che è l'uomo stesso. Il fatto è che una definizione speculativa di tal fatta è sicuramente improponibile, utopistica nel quadro storico evolutivo in cui è comparso l'uomo.

Per contemplare questi concetti di «perfezione» occorre infatti che sia definito in modo assoluto il concetto di specie umana – il che è forse possibile in un ambito fissista ma che è del tutto improponibile teoricamente in un contesto evolutivo. Ed è questo il grave problema da affrontare.

Definire un profilo «perfetto» di essere umano implica necessariamente il definire i caratteri che si devono «perfettamente» possedere per essere un individuo «reale» della specie Homo sapiens sapiens.

Ma questo intento attiene alla stessa accezione tassonomica di «specie». Ed è qui che è celato l'inghippo.

Ogni classificazione tassonomica rappresenta infatti un'«istantanea» di un processo evolutivo continuamente in divenire, in cui le evidenti ed innegabili divisioni che si colgono «simultaneamente», a livello sincronico, risultano irrimediabilmente dissolversi. È dunque del tutto impossibile definire tali universali. È evidente che il mantenere davanti a questa realtà le consuete categorizzazioni logico interpretative a cui ci si riferisce quando si indica un concetto come quello di «perfezione» origina evidenti paradossi, che sembrano derivare da quello riportato da Daniel C. Dennett, sull'esistenza, o meglio inesistenza, dei mammiferi (il paradosso si applica a qualsiasi forma di vita e ad ogni insieme di caratteri descrittivi relativi ad un essere vivente):

1) Ogni mammifero ha avuto un mammifero per madre.

2) Se i mammiferi fossero esistiti veramente, ce ne sarebbe stato un numero finito.

3) Ma se fosse esistito anche un solo mammifero, allora per (1) ci sarebbe stato un numero infinto di mammiferi, il che contraddice (2): così non può essere esistito nemmeno un mammifero. È una contraddizione in termini.10

I fenomeni evolutivi presentano infatti un'assenza totale di «soluzioni di continuità»: un aspetto profondo, che distingue nettamente il paradigma evoluzionistico da ogni altro, in particolare quello fissistico, implicita base di molte correnti filosofiche, ed ovviamente di concetti come quello di «perfezione» in questione.

L'indeterminatezza insita negli eventi del mondo fisico che hanno segnato l'apparizione della specie umana sulla faccia della Terra, l'emersione delle caratteristiche stesse che ci permettono d'identificare e riconoscere l'umanità di un essere vivente, l'impossibilità di vedere nella contingenza degli eventi naturali un fine teleologico rivolto a particolari forme e contenuti ultimi definitivi, da porre nel nostro futuro anche prossimo, rende impossibile postulare, in tale contingenza, un simile obiettivo.

Si proporrebbe cioè anche in questa ipotesi lo stesso problema di poter individuare a livello generale una finalità creativa perfettamente deterministica ed assoluta nell'universo fisico conosciuto: il che appare assolutamente improponibile in un paradigma indeterministico evolutivo come quello della scienza attuale.

Sembrerebbe dunque inutile ed infondato il solo accingersi a tali analisi. In realtà anche qui è possibile risolvere tale stallo ricorrendo ad una serie di inedite considerazioni. In effetti, prendendo in considerazione gli aspetti sufficientemente realistici su cui si è cercato di dare risposta, a suo tempo, a quegli interrogativi, è possibile trovare, anche in questo caso, un'elegante risposta.

Il problema dell'imperfezione dell'uomo è connesso dunque ai caratteri dell'«Ideale di Uomo» proposto. La teologia classica – teoetotomistica – assume come «Ideale di Uomo» un profilo per l'appunto «ideale», che in realtà ora appare, alla luce di un'accezione religiosa, come non mai «irreale», o meglio «inesistente», derivato com'è solo dalle vere e proprie distorsioni filosofico teologiche.

La più semplice soluzione possibile è quella di proporre una revisione del tema sfuggendo dall'inconsistenza di quel quadro filosofico. Si è mostrato in precedenza come l'unica ipotesi capace di permettere un taglio teleologico in una accezione cosmologico evoluzionistica ed indeterministica dello stesso sia quella in cui l'universo fisico è definito quale realtà naturale in cui, possano emergere con una apprezzabile probabilità generiche forme viventi auto coscenti, comunque intrinsecamente imperscrutabili a priori nei loro dettagli. Le dinamiche evolutive, assolutamente immanenti e intrinsecamente indeterministiche, fondate come sono su un meccanismo di cieca prova ed errore, possono assumere tale carattere solo su vasta scala, a livello dunque prettamente statistico. Solo generalizzando in una ampia pluralità di processi bio-evolutivi e cosmologici possibilmente in atto in tutto l'universo è possibile cogliere una generica teleologia evolutiva.

In tale ipotesi l'uomo, la specie umana, non assumono affatto il profilo di apice evoluzionistico dell'intero divenire dell'universo, bensì solo quello di una delle molteplici, contingenti forme di vita intelligente attendibili nello stesso. L'uomo rappresenterebbe dunque non l'esclusivo oggetto ontologico da intendere quale sommo coronamento dell'eventuale disegno teleologico originario, bensì il risultato di uno dei contingenti eventi bio-evolutivi in cui si sarebbe realizzata l'emersione di esseri auto coscenti, dotati di un qualche insondabile psichismo, il cui avvento nel creato, su scala universale rappresenterebbe, nella sua totalità, l'autentico coronamento del solo proposito creativo originario ammesso in tale paradigma. Forse... ricordiamolo sempre questo limite a livello epistemologico: forse...

Orbene, è proprio nella definizione di questa sfumata, lassa «figura universale», nello scarno, essenziale residuo di comuni valenze e dimensioni ontologiche, religiose e metafisiche, che è possibile trovare risposta, l'unica risposta accettabile all'esigenza di definire i tratti di una «perfezione» coerentemente collocabile nell'attuale accezione della realtà creata. Cosa possiamo dunque intendere dai tratti, dai contorni, dalle qualità di questo profilo?

Il nucleo fondamentale di questa figura da cui muovere è rappresentato dalla sua collocazione ontologica. Ebbene, una metafisica religiosa colloca tale figura in un paradigma ove l'universo e le forme di vita in esso presenti sono intese quale realizzazione di un gesto creativo rivolto all'emersione di generici enti... eventualmente coinvolti «anche» in una dimensione che trascenda il mondo fisico.

È inevitabile che tale concezione comporti l'accettazione eminentemente fideistica di tale assunto; non sarà mai possibile verificare appropriatamente questa ipotesi metafisica. È e resterà «sempre» un contenuto di fede, ma un contenuto che, comunque sia, risulta adeguatamente collocato in una visione scientificamente valida dell'universo – e per l'approccio agnostico qui seguito ciò è da tenere sempre in debita considerazione.

Una metafisica religiosa definisce tali enti, che potremmo chiamare «enti teleologici religiosi» o, più semplicemente «teleologici», quali materializzazioni mondane di realtà ontologiche sovrannaturali che, in un senso storico circoscritto al mondo fisico, vengono ad esistere conseguentemente al loro apparire mondano.

La creazione di tali teleologici sarebbe dunque realizzata proprio mediante la loro emersione biologica mondana. Le contingenti modalità di emersione biologica di un teleologico non assumono rilievo alcuno nella definizione dei tratti fondamentali dello stesso, come, in questo senso, alcun rilievo assume la contingente matrice biologica che permetterebbe tale emersione. Il senso ontologico della loro esistenza prescinde da ciò; ma non l'esistenza stessa. L'esistenza di un teleologico nella sfera mondana è imprescindibilmente legata alla valenza biologica della particolare forma in cui esso si sarebbe realizzato, alle leggi biologiche che regolano il suo essere reale, mondano. Leggi e dinamiche nella fattispecie imperscrutabili che dunque non è possibile prendere in considerazione nella definizione del pool di caratteri comuni a tale figura. Ecco dunque che gli aspetti fini dell'esistenza sfuggono a qualsiasi tentativo di definizione assoluta: ecco un ulteriore punto di convergenza con l'assenza di qualsivoglia riferimento etico presente nelle religioni. Ne risulta che seppur nell'esistenza mondana un qualsiasi teleologico risulterebbe espressione «e della sua particolarità biologica e della valenza cognitiva della sua natura ontologico sovrannaturale», è solo quest'ultima frazione ad irrorare la sfera mondana di aspetti formali singolarissimi, quanto perfettamente definibili, capaci di porre termini qualitativi «assoluti» nella determinazione di qualsivoglia ente teleologico.

Questi «assoluti» sono semplici ed essenziali:

•  la finiture mondana;

•  l'essere ente «aperto»11, in continua relazione con «tutta» la realtà naturale.

•  l'incorruttibilità ontologica;

•  la libertà;

•  l'intrinseca trascendenza;

•  la consapevolezza di essere oggetto di un disegno teleologico – indeterministico;

•  ovvero l'essere oggetto dell'amore divino;

•  l'essere «immagine e somiglianza di Dio» dunque di essere soggetto di Amore.

Questi caratteri ontologico filosofici rappresentano compiutamente e perfettamente i tratti sovrannaturali di un ente teleologico, di un qualsiasi essere auto cosciente creato ad «immagine e somiglianza di Dio».

Questi semplici, esaurienti caratteri, permettono allora di postulare un «Ideale di perfezione» a cui riferirsi con i singoli eventi e situazioni reali – si noti bene, in completa coerenza con il contesto proprio dell'attuale visione evoluzionistica ed indeterministica dell'universo fisico. Un qualsiasi teleologico può, nel corso della sua esistenza, giungere a prendere piena e perfetta consapevolezza di tale assunto ed impreziosire la sua esistenza mondana, la singolarità della sua realtà biologica con tale acquisizione intellettualistica. Ma non è tutto.

Tornando al contingente caso della specie umana, della sua particolarità biologica e storica, si può vedere come tale definizione, tale presa di coscienza dell'individuo rappresentino, data la particolare matrice psichica dell'animale uomo, la condizione sine qua non per giungere all'emersione compiuta dell'ente teleologico «Uomo».

I punti suddetti permettono infatti di definire in modo totalmente realistico, assoluto ed inimitabile una ontologia dell'«Uomo» che complessivamente prescinde dalla contingenza e dalla soggettività delle sue condizioni storico sociali, delle sue esperienze affettive, interpersonali, dell'eccezionalità del suo essere biologico. Essi propongono un obiettivo a cui il teleologico «Uomo» può giungere«perfettamente», pur esprimendo compiutamente, liberamente e responsabilmente la sua valenza «fisica», «animale», «corporea» nell'ambito di una sconcertante coerenza esistenziale.

È una meta ontologica infatti che non si propone, col suo stesso apparire alla coscienza, in palese contrasto con le più interiori pulsioni della sua frazione «animale», ma che sostiene piuttosto una crescita spirituale interiore, cognitiva e psichica tale da informare una manifestazione armonica e compiuta della valenza biologica del teleologico «Uomo».

Essendo il vissuto e la caratterizzazione psichica dell'individuo sensibili nel loro divenire al rapporto con gli aspetti filosofici, culturali e le pulsioni istintuali più fondamentali, le sue azioni, pensieri e sentimenti, essi risultano altresì sensibili ad una trasformazione degli assunti filosofici che alteri in modo significativo la sua collocazione ontologica nel quadro della sua ipotesi metafisica.

Mentre le ipotesi teoetotomistiche sessuo repressive riversano sui sistemi ad esse collegati principi filosofici da cui l'individuo emerge come eticamente dipendente, succube di volta in volta di genitori, autorità, Dio, fondamentalmente imperfetto e aperto all'errore, alla colpa nell'attimo in cui rifugge dall'osservanza di tali concrezioni di autorità morale, della «Legge» esterna, gli assunti religiosi definiscono una figura teleologica di «Uomo» nuova, sfavillante, conducendolo ad una inedita caratterizzazione psichica. Una meta perfettamente raggiungibile dall'individuo che svuota innanzi tutto la psiche umana di quell'oceanica, traboccante angoscia esistenziale della propria ontologica fallacia ed imperfezione, di ogni castrante senso di colpa.

Questi assunti cioè rendono possibile a ciascuno di contare sul raggiungimento della perfezione, di questa meta fideistica, seppur non utopistica, nel contesto straordinario ed inebriante di una nuova visione religiosa della realtà, di se stesso, dell'altro. Laddove l'ideale teoetotomistico, autoritaristico e repressivo aggancia un valore positivo del soggetto, del suo essere, al rispetto incondizionato di una Legge, e di figure esterne, l'ideale religioso aggancia un immenso valore positivo allo stesso essere dell'individuo; in più identifica proprio nello svuotamento di libertà etica e nella distorsione della percezione di tale realtà metafisica un penoso ed indesiderabile scadimento dell'espressione delle sfavillanti valenze teleologiche di «Uomo».

In termini psicoanalitici tale situazione filosofica pone inoltre due decisive sfaccettature nell'auto-percezione ontologica dell'individuo:

a) il suo «essere corporale», «naturale», essendo parte di un creato il cui divenire, le cui espressioni rappresentano l'attuazione «incorrotta » dell'iniziale disegno teleologico divino, risulta essere «in sintonia» con i divini attributi dello stesso gesto creativo: ciò vuol dire che la valenza naturale, fisica, corporale dell'ente teleologico «Uomo», così come per qualsiasi teleologico, sono in nuce espressioni «perfette», «buone», «incorrotte», del disegno «divino»;

b) il suo essere «sovrannaturale» rappresenta un termine teleologico incorrotto ed incorruttibile che media allora una perfetta «immagine e somiglianza di Dio».

Il «passato», le origini più fondamentali dell'individuo ed il suo presente, il suo stesso futuro più estremo, sono dunque percepiti in un quadro, sì fideistico, dunque ipotetico, ma questa volta non inverosimile ed incoerente nelle asserzioni che afferiscono al mondo reale, improntato ad un riconoscimento ed una emanazione completi e perfetti degli attributi divini.

Non è più un'ontologica imperfezione, un'inevitabile declino e corruzione l'attributo che informa la sostanza della realtà esistenziale di un essere auto cosciente, e da cui lo stesso può sperare di esser sollevato in grazia della sua completa sottomissione, del suo completo spogliamento etico, del suo annullamento come ente autonomo, quanto la ineluttabile, congenita perfezione, si potrebbe dire, seppur il termine non ci aggrada, la «santità» di un teleologico «Uomo», la coscienza della «congenita libertà», «incorruttibilità» del proprio essere oggetto e soggetto di puro, perfetto Amore: «Uomo».

Ecco delinearsi finalmente, nella sua interezza, la radicale ed inimitabile valenza psicologica dell'ideale religioso. È nella ferma definizione di tali preposizioni filosofiche e nella conseguente ricaduta dei principi che trovano riscontro nei vari ambiti della vita sociale, economica, culturale dell'uomo, che il paradigma religioso pone in essere la sua capacità d'indurre una peculiare e positiva caratterizzazione psichica dell'individuo.

Tali principi di fondo smantellano totalmente i fondamenti filosofici che, mediante i processi di acculturazione vanno a dare origine, tradotti emozionalmente e psicologicamente, alle inconsce rimozioni allo sviluppo dell'istanza del Super-Io, di quelle dinamiche psicologiche che mortificano penosamente l'emersione dell'Io individuale, i suoi rapporti con l'Es.

Questo poiché dal nucleo filosofico religioso procede un'«antropologia» capace di nuovi orientamenti in tutti i campi dell'esistenza; dalle relazioni sociali alle attività economiche, dalla formazione dei rapporti interpersonali all'educazione, dalla sessualità alla cultura in generale, tutti ambiti in cui la valenza teleologica dell'individuo viene decisamente diffusa, affermata e sostenuta.

Ma quale sarà la trama di tale tessuto sociale e culturale, quali i nuclei emozionali attorno cui troveranno manifestazione ed espressione le scelte, le esperienze dell'individuo? Quale sarà, socialmente ed economicamente, il dimensionamento sociale ottimale per tale modello di società, quale la distribuzione delle risorse, dei beni, quali i rapporti sociali, economici ed interpersonali, le strutture, le concrezioni socio economiche e famigliari attorno a cui verrà fondata tale struttura sociale?

Domande queste forse troppo «concrete», ma indubbiamente valide e legittime a cui bisogna dare risposta o, quanto meno, verso cui bisogna proporre verosimili ipotesi.

 

La realtà mondana dell'«Uomo»

 

L'analisi successiva prenderà dunque in considerazione le istanze sociali, gli aspetti più basilari del profilo etico sociale in cui l'«Uomo» può collocarsi ed agire. Nel corso di tale analisi si ricorrerà in modo esteso alle teorie psicoanalitiche di autori come Freud, Fromm, non meno il Reich o Weber, ed ai modelli interpretativi più importanti della psicoanalisi classica. L'intento è di mostrare come i lavori di questi autori, spesso intesi come manifestazioni assolutamente aliene, se non opposte, al teismo tout court, siano, sorprendentemente, in grado di corroborare l'ideale religioso e, parallelamente, costituiscano un insostituibile strumento di analisi proprio delle storture che derivano dal paradigma teoetotomistico.

Si è pienamente consapevoli del fatto che il ricorso a queste teorie e modelli potrà condurre a definizioni eccessivamente ideali e speculative, specialmente in relazione alle valutazioni filosofico teologiche sinora sviluppate per quel che riguarda gli enti teleologici, ma tant'è. Come si ricorda ripetutamente, il presente intento è solo e solamente quello di proporre una «simulazione esegetica» alternativa dei testi biblici ed evangelici procedendo da una posizione eminentemente agnostica. Qualcosa che si fa man mano più realistico ed interessante...

Quel che intriga – strada facendo – è la constatazione di come questi autori, spesso combattuti e ferocemente osteggiati, derisi da molti esponenti delle teoetotomie odierne nel loro essere intesi come teste di ponte di un ateismo militante, siano in realtà, nella loro riconosciuta – e condivisa – laicità, contributi filosofico culturali quanto mai efficaci nel contrasto «paradigma religioso versus paradigma teoetotomistico».

Ma procediamo con ordine. Il nucleo centrifugo da cui iniziare a porre i termini di questa risposta risulta essere l'esigenza di condurre l'individuo, sin dal suo concepimento, ad esprimere compiutamente nel corso della sua esistenza il suo prezioso e perfetto valore teleologico, la sua incorruttibile «somiglianza» a Dio nella parimenti compiuta espressione della sua matrice biologica ed emozionale.

Un nucleo di eventi, realtà ed esperienze in cui il soggetto, sin dal suo concepimento, dal suo venire alla luce dal grembo materno, inizia a sperimentare, a conoscere: questo nucleo è costituito dal polo famigliare e parentale e dal relativo contesto socio culturale ed economico. In tutte le culture il polo parentale rappresenta l'ossatura fondamentale del sistema sociale. La centralità del suo ruolo fa sì che la definizione delle figure che si vengono a cristallizzare nel suo interno sia poi decisivo nella determinazione caratteriale del soggetto che in essa si forma. Tutti i contenuti emotivi, affettivi, educativi che, a partire da questa nicchia esistenziale, l'individuo sperimenta ed interiorizza estendendo man mano le sue esperienze nella realtà sociale ed economica esterna, sedimentano nella sua personalità, nella sua struttura caratteriale, cagliando nella psiche le coordinate etiche caratteristiche del dato sistema sociale, definendo i principi di fondo di tutti i campi della sua esperienza socio-affettiva mondana.

È noto che le prime esperienze dell'individuo nella realtà famigliare siano mediate dall'espressione psico-sensoriale dell'esperienza del «piacere». Le manifestazioni primarie dell'individuo, del suo Io, vengono attuate essenzialmente in funzione di questo principio, in risposta alle pulsioni che provengono dal proprio Es e dagli stimoli sensoriali che mediano alla psiche il mondo reale esterno.

Tra le principali scoperte della psicoanalisi c'è l'osservazione che sin dalla prima infanzia si assiste alla significativa attivazione delle zone del corpo che più avanti saranno direttamente coinvolte nelle manifestazioni della sfera sessuale. Nel corso di questa fase l'individuo sperimenta esperienze di grande risalto nella genesi della sua personalità, della sua sessualità, in cui può essere esposto a delle forti influenze educative da parte del nucleo parentale. In tali influenze si vanno ad esprimere con vigoroso risalto i primi condizionamenti etici tipici di ciascun sistema socio culturale.

Questo fatto assume un particolare interesse, in merito allo sviluppo della sessualità, dato che proprio su questo ambito viene ad esprimersi una significativa differenziazione dell'atteggiamento educativo nelle varie società. È proprio a questo livello infatti che si pone un netto distinguo tra gli atteggiamenti tipici dei sistemi autoritaristici sessuo repressivi, teoetotomistici o laici che siano, ed gli antitetici modelli religiosi.

In questo stadio infatti viene ad attuarsi, nel corso della storia dell'individuo, il primo decisivo confronto con l'etica sessuale della sua società. È proprio in questa fase che l'individuo inizia a vivere in modo evidente e macroscopico l'espressione etica dei principi morali del suo futuro mondo: è in questo frangente che le figure parentali, genitori o tutori che siano, esprimono al bambino, per la prima volta e con particolare risalto, i valori etici a loro volta interiorizzati nel corso della loro passata infanzia. È in questo frangente, infine, che si vanno a proporre al bambino i principali connotati di quelle figure morali che esprimeranno, di lì in avanti, i contenuti filosofici, etici e culturali della società. Orbene, quali particolari contenuti possono procedere, in merito a tali tematiche e contenuti, da un ideale religioso?

La risposta è quanto meno ovvia ma peculiare: l'assoluta mancanza nell'ideale religioso di ogni ontologica accezione di corruzione delle manifestazioni naturali del creato e dell'uomo, pone un netto distinguo rispetto alle etiche teoetotomistiche. Là dove l'atteggiamento educativo è rivolto ad inculcare nell'individuo l'esigenza di reprimere la manifestazione delle pulsioni «indesiderabili» ed «intollerabili», causate da una matrice imperfetta e corrotta la cui attuazione condurrebbe ad atteggiamenti, costumi e comportamenti non conciliabili con l'esistenza sociale e con un «sano » sviluppo dell'individuo, la filosofia religiosa sviluppa ad un comportamento educativo rivolto ad una presa di coscienza progressiva, non repressiva, del significato e ruolo delle pulsioni del bambino. Una presa di coscienza tesa ad armonizzare tali manifestazioni con le esigenze della realtà esterna che l'istanza psichica dell'Io del soggetto, con il suo progressivo sviluppo, man mano sperimenta, comprende e gestisce autonomamente.

L'impostazione etica che procede da queste distinte posizioni filosofiche è decisamente antitetica a quella teoetotomistica. Mentre l'ideale teoetotomistico afferma la potenziale peccaminosità ed imperfezione dell'essenza umana, la presenza di un'azione «malefica» che condurrebbe l'individuo ad atteggiamenti «malvagi», «egoistici», ed a cui dovrebbe opporre strenua resistenza tramite una virile, vigile, continua repressione – psichicamente quanto mai dispendiosa e castrante –, l'ideale religioso pone, senza mezzi termini, una visione teologico cosmologica, antropologica e teleologica completamente opposta. Ma una risposta che conduce ad affrontare direttamente tali aspetti.

Dall'ideale religioso infatti deriva una percezione dell'individuo fondata su di una «perfezione teleologica», su di una sua «positiva» essenza naturale il che deriva principi etico filosofici dai quali si è sollevati dall'incombenza di dispersive contrapposizioni interiori, dai conseguenti sensi di colpa, dalle nevrosi ed ossessioni che spesso condizionano penosamente la personalità degli individui di società teoetotomistiche. L'etica religiosa non ha l'esigenza di condurre l'individuo a controllare, reprimendole, le pulsioni dell'Es che erompono alla sua coscienza, definendo un quadro etico in cui sia sostanzialmente impossibile comprendere, verificare razionalmente, e quindi autonomamente gestire, le proprie pulsioni. Bensì afferma la capacità dell'individuo di prendere progressivamente coscienza, di gestire e collocare le pulsioni tramite l'esperienza, la verifica, la crescita verso una serena auto-determinazione, in una rappresentazione cosciente di sé e di ciò che lo circonda sempre più estesa ed «esperta» e, soprattutto, sempre più libera, razionale ed autonoma, autenticamente propria.

L'etica religiosa è rivolta, in altre parole, ad un'estesa e profonda emersione dell'Io, ad un'attiva e gratificante affermazione di quest'istanza della psiche che non implica assolutamente nessuna mortificazione del proprio Es, delle pulsioni che dallo stesso erompono alla coscienza, puntando ad una maturazione libera, non contraddistinta da penose rimozioni dell'Io. Un'etica capace di amalgamare profondamente ed armonicamente l'Io con la frazione profonda dell'Es; un evento psichico da sperimentare nelle sue distinte manifestazioni, non da reprimere, ridurre, rifuggire.

Uno dei primi aspetti che balzano agli occhi è dato dalla capacità dell'etica religiosa di evitare l'insorgere di quei tratti caratteriali che la psicoanalisi ha ricondotto ad esperienze educative traumatiche: ci si riferisce all'emersione dei tratti caratteriali riconducibili alle varie fasi pregenitali definite da Freud nella prima infanzia dell'individuo: la fase «orale», «anale» etc.

Ancor più in generale, prendendo in considerazione dei tratti che procedono da esperienze prossime e coincidenti con l'emersione della sessualità del soggetto, si fa riferimento al diverso riconoscimento di tale sessualità da parte dell'ambiente religioso «esterno». L'attuazione pratica dei principi religiosi, rivolta ad una valutazione «positiva» delle manifestazioni della matrice biologica dell'individuo, non si concretizza in una progressiva, puntuale «costrizione» dello spettro di pulsioni istintuali in un reticolo etico, sulla cui azione «filtrante» si fa affidamento per espurgare disposizioni «negative» del soggetto, della sua personalità, mediante la loro mera repressione. La prassi religiosa sostituisce la tacita ed irrazionale osservanza etica con una razionale e verificabile presa di coscienza, collegata con eventuali momenti di crescita, ad eventuali esperienze dell'Io delle varie pulsioni dell'Es. Tutte esperienze e prese di coscienza, processi di maturazione interiore della personalità, che possono finalmente realizzarsi, questo è decisivo, in una accezione cosmologica religiosa aliena da qualsiasi componente dualistica e propensa, come si è detto, nel valutare «positivamente», senza alcuna remora metafisica, le espressioni innate dell'individuo, intese affermativamente in prospettiva teleologica anche in relazione al suo divenire.

A questo punto sarebbe opportuno ricorrere, per avere sotto gli occhi termini e forse esempi più concreti si riprenda il confronto, mediato da Fromm, tra culture di diversa espressione aggressiva.

 

 Società campione  

  Tratti socio caratteriali   Zuñi   Manus Dobu
Concezione teologico  cosmologica   Monismo      religioso       

   Dualismo     
Teoetotomistico    

Monismo Anti-religioso
Atteggiamento sessuale   Permissivo  Repressivo Repressivo
Carattere anale    Limitato       Sviluppato   Sviluppato
Aggressività Bassa       Alta     Molto alta
Attaccamento  materiale, prop. privata    Limitati     Sviluppati  Sviluppati 

 

Questo, ovviamente, non per rifarsi pedissequamente ai contenuti etici e culturali specifici di qualcuna di queste – il riferimento ovvio è per la cultura Zuñi – quanto per sottoporre l'evidenza di come la centralità dei contenuti filosofici caratteristici di un dato sistema socio culturale e delle reciproche relazioni con l'altrettanto centrale polo parentale, possa far sì che, con la definizione di un ambiente educativo diverso, con particolare riferimento alle esperienze infantili dell'individuo, si inneschi una diversa realtà maturativa e formativa dello stesso. Una diversa maturazione che, in prospettiva, condurrà ad una definizione altrettanto distinta della realtà socio economica in cui esso andrà ad operare.

Preme anzi sottolineare come l'attuazione perfetta di una visione cosmologica religiosa possa condurre a risultati a cui gli esempi etnologici addotti si possono approssimare solo per difetto, tale è l'ampiezza e lo spessore umanistico ed esplicativo che tale ipotesi può assumere in un contesto evoluto e raffinato quale quello dell'odierna cultura scientifica ed umanistica occidentale.

La possibilità di proporre e realizzare uno sviluppo formativo, una maturazione dell'individuo tali da condurre a caratterizzazioni al limite totalmente affrancate dagli effetti imputabili a regressioni «pregenitali», rappresenta un passo formidabile nel raggiungimento dell'ideale teleologico religioso che prepara già, di per sé, una base decisiva per l'attuazione dell'emersione di una sessualità ed una personalità essenzialmente diverse da quelle tipiche di quell' H. s. s. teoetotomisticus – rappresentante «modale» delle odierne civiltà.

L'assenza di ogni componente coercitiva sessuo repressiva di un ambiente educativo religioso non può che condurre, in ossequio ai meccanismi evidenziati negli studi e nelle esperienze della psicoanalisi, a minimizzare ed al limite eliminare l'insorgenza degli episodi della maturazione psichica che così pesantemente influenzano le espressioni caratteriali dell'individuo. Ci si riferisce principalmente all'attivazione abnorme del complesso edipico ed al successivo ipertrofico sviluppo, strettamente connesso con la fase di latenza sessuale e con l'identificazione parentale posta in essere dall'adolescente, dell'istanza del Super-Io.

Questi riferimenti non sono rivolti principalmente alla caratterizzazione individuale del soggetto, quanto alla determinazione dei tratti fondamentali del carattere sociale condiviso dalla maggior parte degli individui di una data cultura. Sono infatti queste esperienze, in particolare concerto tra loro, ad esprimere poi, alla luce dell'attuazione filosofica in cui il soggetto coglie il suo essere, atteggiamenti come l'attaccamento materiale, individualismo, culto dell'ordine e della forza etc., così importanti – purtroppo anche in accezioni negative date da una loro ipertrofia o manifestazione psicopatologica – nella determinazione delle attività e delle particolari mete socio economiche di un dato sistema sociale.

Le mete collettive, gli stereotipi attorno e verso i quali pulsano gli sforzi degli individui, presi sia nella loro soggettività che nella loro collettività, e che racchiudono le coordinate del processo sociale di una cultura, del relativo carattere sociale, hanno la radice principale proprio nello svolgersi di tali esperienze, nell'attuarsi delle particolari valenze psichiche interessate da tutto ciò. E la percezione del profondo momento che è ad esse imputabile nella definizione dei contenuti del processo socio economico autorizza ad inferire in merito alla possibilità che solo da una distinta teoria di esperienze possa originarsi una caratterizzazione radicalmente «diversa» di quelle che possiamo osservare nelle nostre attuali società, laiche e teoetotomistiche sessuo repressive.

Continua...

 

Note:

 

1 Merlin Donald, L'evoluzione della mente. Per una teoria darwiniana della coscienza, Garzanti Ed., Milano, 2004.

2 Ibidem, pag. 316 e ss.

3 Julian Jaynes, La mente bicamerale e l'origine della Coscienza, Adelphi, Torino, 1984.

4 L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi 96, Milano, 1980, pag. 63-64.

5 Fabio Petrelli, Roberto Verolini e Larissa Venturi, Neuroscienze ed evoluzionismo per una concezione olistica delle psicopatologie e dei disturbi della personalità, Camerino, Università di Camerino, 2000, pag. 264.

6 Erich Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, Di Comunità Ed., 1980, pag. 82-83.

7 Erich Fromm, Avere o essere?, Mondadori, 1977, pag. 176.

8 Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Di Comunità Ed., 1982, pag. 130.

9 Tobie Nathan, Principi di etnopsicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino, 1993; George. Devereux, Saggi di etnopsichiatria generale, Armando Armando, Roma, 1978; Fabio Petrelli, Roberto Verolini e Larissa Venturi, Op. Cit., [2000], pag. 244 e ss.

10 Daniel C. Dennett, L'evoluzione della libertà, Raffaello Cortina Ed., Milano, 2004, p. 169.

11 Questa «apertura» è da intendere non solo a livello termodinamico – come è ovvio che sia per un qualsiasi sistema vivente, che è intrinsecamente formalizzato dal punto di vista biologico fisico come sistema termodinamico «aperto» nel suo incessante scambio di materia ed energia con l'ambiente circostante, ma anche e soprattutto, per i presenti intenti, sotto il profilo cognitivo e psicologico.

 

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