CAPITOLO 4 - seconda parte
CAPITOLO 4 - prima parte _____________________________ Back
Un discorso questo che, lo si ripete, pur procedendo da ben altri assunti e preposizioni e pur essendo rivolto ad un fine assolutamente particolare, riprende l'opera di studiosi quali il Reich, il Weber etc.
Da questa caratterizzazione, per «ricaduta» ovvia ed inevitabile, potrà procedere quell'atteggiamento, quella percezione della realtà e di se stessi alla base delle affermazioni di Gesù, attualmente così pesanti ai nostri occhi increduli, quanto soavi ed inevitabili a partire da quella condizione esistenziale interiore.
«Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo è dolce, e il mio carico leggero.» (Mt 11, 29-30) È dunque a partire da tale nuova collocazione di valori e da tale auto-percezione ontologica, dall'espressione di questa nuova caratterizzazione psichica, di un nuovo «carattere sociale» che è possibile comprendere il senso delle affermazioni di Gesù. Una caratterizzazione sorprendentemente più prossima alle culture «selvagge», proto-religiose e religiose, che alle nostre attuali «progredite» società teoetotomistiche o post teoetotomistiche.
Gli appunti di viaggio di attenti antropologi testimoniano l'esistenza di sistemi socio culturali ove, a fronte di un positivo atteggiamento educativo verso le pulsioni genitali dell'individuo, ovviamente comprese quelle prossime alla sfera sessuale, ed un atteggiamento etico non autoritaristico repressivo sembra far eco una disposizione collettiva ad uno scarso attaccamento materiale, scarno senso della proprietà privata, bassa aggressività interpersonale e limitato edonismo, attrazione blanda verso concrezioni sociali di potere, elevata libertà sessuale e personale, propensione spiccate verso atteggiamenti cooperativistici, caratterizzazione psichica più armonica etc. Queste testimonianze sembrano essere, senza eccessive e romantiche enfatizzazioni esotiche, un notevole supporto alla presente chiave di lettura, alle ipotesi che si vanno sostenendo.
Quale contrappunto di questa descrizione, che potrebbe suonare troppo idealistica, si vuol sottolineare come si sia perfettamente consapevoli di come il «profilo reale» degli individui di queste società mostri veri e propri «lati oscuri», tratti della «personalità sociale» in grado di esprimersi con contingenti comportamenti violenti ed aggressivi, specialmente con individui esterni ai vari livelli concentrici di parentela/gruppo tribale ma ancor più, come sta iniziando a mostrare l'etnopsicoanalisi, tutto uno spettro di disturbi e psicopatologie tipiche di diverse etnie esempi notevoli di disturbi etnici sono rappresentati dall'«amok» e il «latah» dei Malesi, il «windigo» degli Algonchini del Canada, la sindrome «Crepa-Cuore» dei Mohave, il «Cane-Pazzo-che-vuole-morire» degli Indiani delle Pianure, il «transvestitismo» di questi due ultimi gruppi, il «berserek» degli antichi scandinavi, l'«imu» degli Ainu ecc 1
Ciò non toglie però, a livello generale, la possibilità di cogliere forme di comportamento tipiche delle diverse realtà socio-culturali in riferimento alle opposte polarizzazioni (permissive da un lato sessuo-repressive dall'altro) che si stanno ponendo in evidenza da non confondere con l'assenza/presenza di tabù sessuali, spesso eticamente blandi, ed ancor più inadeguati a generare le istanze psico-sociologiche dovute all'affermazione di quel pervadente svilimento filosofico teologico della sfera sessuo affettiva tout court che si riscontra nelle teoetotomie.
L'antropologia culturale odierna insegna poi come si debba accuratamente evitare di proiettare su queste popolazioni le valenze ideali di «essere umano», di «natura umana» e «consorzio umano» affermate nel nostro contesto socio culturale, tipico di una società avanzata sia sotto il profilo socio economico che tecnologico scientifico. Nella misura in cui è comunque possibile mediare da tali imperfetti esempi evidenze sugli scenari socio economici compatibili con modelli religiosi, queste culture, pur nella loro diversità e seppur per grave difetto, mostrano una loro efficacia e validità anche in confronto ai classici modelli occidentali di cui la società ebraica contro cui Gesù si scagliò rappresentava il campione storico di quei tempi.
Quel che testimoniano tali culture è che problemi pressanti come approvvigionamento di cibo, ripartizione di beni e risorse, controllo demografico, sviluppo di strutture sociali, definizione sociale di leggi, svolgimento e ripartizione delle attività economico lavorativa in seno a nuclei parentali e gruppi, la necessità di porre in atto azioni od atteggiamenti collettivistici etc., sono affrontabili e risolvibili efficacemente «anche in contesti contraddistinti da una caratterizzazione sociale personale coincidente con quella auspicata da Gesù». Ed ancora, che «tali soluzioni ecologiche e socio economiche, sono stabili, garantiscono una significativa qualità della vita, ed ancor più non contengono in nuce alcun nocciolo autoritaristico sessuo repressivo, contemporaneamente concedendo un'elevata libertà etica all'individuo parallelamente ad un gratificante livello di vissuto psichico».
Ad esempio, Gesù stimola ad una ricerca ed applicazione di una giustizia migliore di quella dei Farisei, al fine di entrare nel regno dei Cieli. Nella società ebraica di quei tempi la giustizia procedeva dall'attuazione della cosiddetta legge del taglione: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21, 23-25).
Nessuna illusione: ancor oggi, malgrado l'impressionante raffinatezza formale dell'attuale «giustizia», questo rappresenta il principio fondamentale, continuamente collocato sullo sfondo, degli odierni sistemi giuridici.
Lo stato di diritto della società moderna deve il suo essere al rispetto di una legge la cui infrazione comporta una «pena» commisurata proporzionalmente alla gravità della stessa.
Ancor oggi senza riferirsi a contesti anche attuali, particolarmente atti a dar più enfasi alla critica gesti quali un omicidio vengono spesso puniti con la pena capitale. Questa pena gode «anche» dell'«umanistico» avallo dottrinale della Chiesa cattolica2 e, sebbene in molti stati sia stata sostituita con l'ergastolo, tale modalità resta ammessa in particolari circostanze come stato di guerra etc. e continui sono i rigurgiti reazionari tesi ad ottenerne la reintegrazione.
Ma anche l'applicazione dell'istituto giudiziario dell'ergastolo non cambia i termini del discorso: l'applicazione delle varie pene e sanzioni è condotto su un principio di una loro proporzionalità e progressività rispetto alla «gravità» del reato commesso. E la legge del taglione rappresenta un limite ideale negativo di tale principio. È inutile cercare di «migliorare» «umanizzare» tale principio.
Il problema che si deve affrontare è invece un altro: «è questo principio l'espressione ottimale di giustizia"» ?
Consideriamo un reo omicida, o peggio ancora un individuo che si sia macchiato dei reati più orribili ed odiosi, capaci di innescare un ribrezzo quasi viscerale ed atavico, come ad esempio un sadico criminale, un efferato pedofilo od uno spietato serial killer. Catturato e processato, verrà costretto, in base al dispositivo emesso nella sentenza, ad un certo numero di anni di segregazione, che, superando la reale speranza di vita possono giungere anche indirettamente all'ergastolo quand'anche quest'ultima pena non fosse contemplata.
Se osserviamo le conseguenze del gesto omicida da un lato, dall'altro del giudice e della corte che emette la sentenza, incarnando il potere giudiziario ed esecutivo della legge dello stato, possiamo notare che se l'omicida toglie alla sua vittima la libertà, la possibilità di attuare scelte, esprimere sentimenti, in poche parole di «essere vivo nel tessuto sociale», la società giunge anch'essa a porre in essere una condizione che, seppur nessuno si macchi di sangue, è prossima al gesto dell'assassino quanto a crudeltà disumana.
La vittima dell'omicida perde qualsiasi possibilità di vivere nella comunità, di scambiare affetti, idee, sensazioni umanamente e liberamente. Carcerando l'omicida per tutta la sua vita a venire, non si fa tornare in vita l'assassinato, non si ricostituiscono i suoi rapporti affettivi, non si ripristinano le sue opportunità.
La reclusione dell'autore di un eventuale reato non permette di ricostituire una vita spezzata od il valore della refurtiva eventualmente dissipata o di rifondere il danno causato; eppure nel senso comune tali epiloghi rappresentano l'ortodossa «giustizia». Sentiamo normalmente dire, e nel caso dell'assassinio questo assume un senso particolare, che: «... consegnando i colpevoli alle forze dell'ordine si fa giustizia...», «... non si avrà pace finché l'autore dell'omicidio non avrà pagato il suo debito con la giustizia: la gente vuole che sia fatta giustizia...». Eppure la «giustizia» tout court sembra non essere il vero fine dell'istituto carcerario attuale.
L'autentico fine, non dichiarato, dello strumento carcerario è quello, limitato, di allontanare dal tessuto sociale gli individui pericolosi, di costituire, nella prassi, un deterrente psicologico e sociale per sostenere sì l'osservanza di diritti umani intesi come universali quale quello della vita, della salute e del rispetto della proprietà, ma ancor più della «legge» sociale, della società; un deterrente che si accompagna a tutte «pene» consistenti in sottrazioni di diritti e ricchezze, di sanzioni pecuniarie etc., normalmente adottate per reati «minori» contro la proprietà, il patrimonio dello stato etc., ma che nel particolare caso dell'ergastolo, su cui si sofferma la nostra attenzione, assume una gravità particolarissima.
Sia chiaro: non si vuol qui criticare tout court l'applicazione «laica» di tale strumento, pienamente legittimato e condiviso in relazione a tutta una serie di considerazioni delle quali non si tratta in questa sede, quanto sottolineare l'ipocrisia e la contraddizione dell'avallo espresso da chi si arroga di essere portavoce di una giustizia «migliore» in tal senso magari invocando presunte funzioni di pentimento e redenzione e mostrare come si possano avere esempi etnologici di un ben diverso atteggiamento sociale nei confronti di tali problematiche. Atteggiamenti non privi di efficacia e, in particolare, pervasi da un ben diverso spirito di fondo.3
È chiaro il ruolo deterrente delle pene, ma quest'immediato uso delle stesse è quanto meno riduttivo e vuoto di significato in tali casi estremi e, cosa decisamente importante, infondato alla luce dell'attuale visione scientifica della natura umana.
La giurisprudenza moderna pone dei concetti «pratici» di uomo, di persona, di responsabilità personale e quant'altro che rappresentano in realtà un'approssimazione, un mero fantasma, della reale natura umana. Essa si fonda su di un'«antropologia» che si sta rivelando scientificamente infondata, ed a cui inevitabilmente tutto l'edificio della giurisprudenza, e di conseguenza tutto il comune senso civico delle odierne società, dovrà prima o poi far fronte vista le perplessità che le nuove accezioni stanno sollevando sulle consuete pratiche giuridiche.
Il concetto di «persona» ancora assunto sia dalla giurisprudenza moderna che dal concetto di «persona» a cui rimandiamo per assuefazione addirittura il nostro senso comune, i nostri rapporti psico sociali più quotidiani e fondamentali, deriva, in buona sostanza, da accezioni che possono esser fatte risalire a convenzioni e posizioni filosofiche oramai superate. Indicativo ad esempio è il fatto che l'attuale concetto di «persona», pur assumendo una maggiore raffinatezza nelle odierne società, deriva sostanzialmente dall'antico diritto romano.
Come mostrato altrove,4 questo concetto, questa «antropologia», risulta a sua volta espressione «sincretistica» di un sotteso animismo e di una concezione naturalistica prettamente fissista, retaggi inevitabili di orizzonti culturali oramai obsoleti e anacronistici il che fa apparire ancor più sconcertante ed intrigante la «modernità» dei concetti espressi da Gesù. L'idea che si propone è dunque quella di verificare se non fosse addirittura in queste particolari valenze ed accezioni che, forse, possano rintracciarsi elementi tali da far immaginare una ulteriore, più raffinata «giustizia».
Un indizio pesante di ciò sembra derivare dalle odierne neuroscienze. Questo insieme di discipline, che spazia dall'anatomia all'embriologia, dalla neuro-biologia alla psichiatria per giungere allo studio della mente, della coscienza, dei processi percettivi e infine alla filosofia, rappresenta lo «state of art» di tutte le discipline che, a partire dai fondatori della psicologia moderna come W. James, Freud, Jung, etc., iniziarono a porre all'uomo un'«antropologia» assolutamente distinta da quella che aveva imperato sulle società occidentali negli ultimi duemila anni il parallelo con l'avvento delle teoetotomie occidentali non è infondato e casuale.
Ebbene, grazie all'adozione nell'ambito di studio del cervello umano, della mente e della coscienza del paradigma evoluzionistico, che per mano di autori come K. Lorenz e K. R. Popper ha dato origine alla fondamentale «Teoria Evoluzionistica della Coscienza», a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, si è giunti ad un'«antropologia» tanto distinta da quella precedente quanto scientificamente fondata. Autori come G. Edelman, Changeaux ed altri,5 hanno proposto un'accezione di «persona», di «Essere Umano» sconcertante e in palese contrasto proprio con l'accezione di «persona» alla base dei nostri ordinamenti sociali e della presente giurisprudenza. Il confronto che ne sta scaturendo evidenzia in tutte le sue limitazioni la canonica accezione di «persona», assolutizzata e reificata, stante l'assuefazione oramai secolare, pur essendo in realtà un'approssimazione, peraltro infondata, della reale natura umana.6
In sintesi, il concetto di «persona» che emerge da questi studi è in grado di proporre un'accezione del nostro «Io», del nostro essere «persona» che perde l'assolutismo ontologico e la visione «monadica» di individuo, poiché introduce e definisce tutte le tematiche ed istanze originanti dell'individuo, dell'«Io»: l'errore di fondo, già incontrato in precedenza per l'argomento della «perfezione», è dunque «reiterato» anche in questo frangente evidenziando come certe tematiche filosofiche, erroneamente intese come «ideali», lontane dalla vita quotidiana, scendano ad informare i più piccoli rivoli dell'esistenza.
Il concetto di uomo, «individuo» di ente «monadico», chiuso all'interno della sua superficie corporea e della sua psiche, perfettamente definito e riconosciuto nel classico concetto giuridico di «persona» emerge in tutta la sua reale inconsistenza e nel suo essere solo «esplicita» espressione, pur'anche laicizzata, di un concetto in origine palesemente teoetotomistico: quello di «anima».
Un parallelo rivelatore ed inquietante!
L'individuo è in realtà un ente ontologico «aperto», dai contorni assolutamente «sfumati» che si perdono «senza alcuna soluzione di continuità» nel contesto sociale, socio affettivo e naturale «esterno», che assume in sé istanze e valenze fondamentali per la sua caratterizzazione dall'ambiente esterno, termine qui inteso nel senso più ampio.
Abbiamo dunque la possibilità di valutare come e quanto i fattori epigenetici ed esogenetici risultino significativi nella sua caratterizzazione: da quella più eminentemente biologica, come dimostrano addirittura i processi di definizione anatomico tessutale neuro cerebrale sino a quelle psico cognitive. Ogni «confine» posto tra l'individuo e l'ambiente esterno, tra «individuo» ed «individuo» rappresenta dunque una «convenzione», un arrotondamento cognitivo forse «inevitabile» dato il comune livello percettivo, ma che svanisce davanti ad una analisi scientifica acuta, a conoscenze meno scontate ed ingenue della realtà. Ed è forse questo il fondamento della maggior «giustizia» invocata da Gesù, la comprensione di quali siano i fondamenti della «giustizia» che caratterizzano il «Regno dei Cieli».
È dunque ovvia la vera e propria rottura epistemologica e non un mero affinamento che egli propose rispetto alla «giustizia» dei Farisei, alla «nostra» attuale giustizia. Quel che Gesù invocava era una vera e propria «soluzione di continuità», una rivoluzione copernicana nelle accezioni e negli assunti di fondo, nell'«antropologia» stessa sottesa alle modalità giuridiche. Alla luce di questa esigenza teorica frasi come il «perdonare settanta volte sette»(Mt 18, 22) o il «porgere l'altra guancia» (Mt 5, 39) assumono non più un'accezione «bonaria», una «remissività» dovuta ad una «docilità masochistica», ma esigenze eminentemente «interpretative», pragmatiche.
Il problema è infatti quello di agire in contrasto ad espressioni inaccettabili ed odiose considerando a priori che l'individuo è effettivamente una realtà psico-cognitiva e biologica «aperta», ovvero applicando nella prassi un concetto «perfetto» di «persona». Ed un concetto «perfetto» di persona non è il concetto «monadistico individualistico» classico. È un concetto in cui la «persona» è intesa in una realtà naturale indeterministica ed «aperta».
L'inaccettabile epilogo di un individuo che si trova ad esprimere odiosi comportamenti da pedofilo, da sadico efferato e quant'altro, è solo il punto di arrivo di dinamiche «aperte», in cui la psiche dell'individuo «assimila ed esprime» continuamente istanze e influenze captate inevitabilmente dall'ambiente affettivo, sociale, educativo, dai canoni cognitivi e culturali della cultura in cui la «persona» è si è psichicamente strutturata. È utopistico sperare di isolare in modo assoluto un individuo rispetto alla realtà, al «mondo là fuori», sia esso inteso nelle sue valenze fisico biologiche che socio culturali. Tale concezione «monadica» di «persona» è solo una comoda forse ma irreale, infondata accezione filosofica. Nella misura dunque in cui si ha veramente in avversione ogni violenza e prevaricazione dell'altro, del debole l'attenzione deve essere diretta nella esatta e zelante gestione di tutte quelle dinamiche e realtà che possono sfociare in tali efferatezze; e questo conduce in ambiti e in dinamiche radicalmente distinte, addirittura inimmaginabili. Ma è inutile cercare di reprimere ciò che in realtà procede da cause ben lontane, che ignoriamo.
Il tematica della giustizia si sposta allora in ambiti diversi e si esprime in modalità ben distinte dal mero formulare ed applicare strenuamente «sanzioni e pene»: l'attenzione si rivolgerà ad una conoscenza non banale di importanti dinamiche socio affettive, a principi di «giustizia» applicati questa volta non più come «deterrenti», ma come strumenti dall'azione «maieutica» di ben precisi profili «individuali» e realtà esistenziali opportuni. È questo dunque il ruolo profondo dei fondamenti filosofici, dei valori e dei profili più nobili di una data società. Ecco, per converso, il degenere ruolo che un'ideologia, l'animismo teoetotomistico nella fattispecie, può assumere in una società pur laica che si professi.
Si osserva dunque come un'ideologia si possa subdolamente travasare in ambiti quotidiani della realtà sociale. Così come l'ideale di individuo «monadico», mutuato dal concetto di «anima individuale», esprime un'«essenza» interiore che assuma in sé perfettamente ed «individualmente» le totali caratteristiche della «persona», così come «l'anima», proprio in forza di questa «individualità» sarà sottoposta a giudizio del dio teoetotomista, si assisterà ad una sorta di osmosi della futura «giustizia» divina nell'attuazione della «giustizia» sociale, terrena. Un tratto attuato esplicitamente dalle società teocratiche teoetotomistiche del passato ma purtroppo ereditato, malgrado proclami di laicità, dai sistemi giuridico sociali moderni.
Dunque l'accezione proposta da Gesù conduce ad una gestione complessiva, organica e fondata di questi temi, radicalmente diversa rispetto alla «giustizia» dei Farisei e delle nostre odierne società: una «giustizia» fondata dunque su elementi raffinati ed autentici, che non subordina l'individuo alle esigenze ed a precetti sociali, ma che mira ad una società «strumento» dell'«Uomo».
Gesù propone una «prassi sociale» fondata su di una cura zelante dell'ambiente, inteso nel senso più ampio, dunque dal livello fisico ecologico a quello socio affettivo, economico politico, culturale e teologico, in cui l'«individuo/persona» non «monadico» si forma, interagisce ed agisce, e punta l'attenzione sulle modalità di sviluppo, formazione e crescita dello stesso, mettendo in risalto la necessità di una gestione «preventiva» specialmente con le sue posizioni in merito alla famiglia, di cui successivamente si tratterà delle dinamiche di emersione di quelle psicopatologie, traumi ed esperienze che sono sempre e comunque all'origine di orribili violenze e prevaricazioni. Si noti, per inciso, come queste inedite valutazioni denuncino clamorosamente la vera utilità di una radicale demistificazione di certe ideologie, come ad esempio quella di peccato, di tentazione e di colpa etica e giudizio divino professato dalle teoetotomie!
A questo punto si spiega perché i Vangeli «non sono» un insieme di regole «divine» a cui attenersi «per salvare la propria anima», ma modalità espressive di una ben particolare filosofia ed «antropologia»: per la precisione religiosa. Un aspetto questo profondamente coerente, si noti bene, con quanto detto in merito all'indeterminazione intrinseca delle singole dinamiche evolutive, i cui esiti non assumevano alcun risalto nella definizione degli «universali» enti teleologici. Gesù non promulgava regole e norme, ma esprimeva le implicazioni di una diversa accezione ontologica: i Vangeli non sono «itinerari» rivolti ad una «salvezza sovrannaturale», bensì testimonianze che ricadono da una condizione «già raggiunta»: «divina», ergo religiosa.
Tanto per mostrare come, al contrario di quanto comunemente si pensi, certe problematiche siano di fatto affrontabili e positivamente gestibili con modalità radicalmente distinte, si può ricordare il fatto che molte evidenze etnologiche documentano l'esistenza di società in cui anologhe, gravi situazioni vengono «gestite» socialmente dalla comunità con atteggiamenti ben distinti, nei contenuti, in funzione dei tratti fondamentali del carattere sociale di ciascuna società.7
Negli Zuñi, ad esempio, « l'assassino è trattato esattamente come un vedovo, solo che il suo ritiro si compie nella «kiva» (stanza delle cerimonie, n. d. a.), e lo sconforto che rimane in lui è rimosso con tecniche più elaborate, che consistono nella sua iniziazione alla società della guerra (uno dei sei gruppi rituali in cui si suddivide la gerarchia sociale Zuñi, n. d. a.)».8
Tra gli Arapesh di montagna si usa il ricorso ad un sistema di certo criticabile che comunque porta e questo è un tratto socialmente rilevante ad «allontanare» espressioni di violenza collettiva verso gli autori di tali delittuosi eventi. L'assassino infatti viene solo identificato.
«In caso di morte è possibile, mediante pratiche divinatorie, identificare il colpevole... Se un giovane muore, gli Arapesh evitano di individuare il colpevole e di vendicare la morte nell'interno della loro comunità; ricorrono invece al sistema di pagare un uomo della pianura (di una comunità cioè secondo la cultura Arapesh dedita a violenza, omicidi ed animata da sentimenti «inferiori» di odio, n. d. a.) perché uccida un giovane di una comunità lontana... Così con l'aiuto della gente della pianura e di questa formula di vendetta magica, lontana ed impersonale, l'Arapesh espelle dai confini del proprio paese l'assassinio e l'odio e può sedersi fiduciosamente a mangiare dallo stesso piatto di altri cinquanta uomini, ciascuno dei quali verrà da lui chiamato fratello».9
Lungi dal volersi rifare a tali metodi, specialmente sulla falsariga dell'esempio degli Arapesh, queste testimonianze sono prodotte quali evidenze tangibili di come, anche a proposito di temi socialmente rilevanti, dove convergono aspettative fortemente intaccate da sottesi stereotipi e postulati filosofici di ciascuna cultura, è possibile osservare un set significativamente diversificato di atteggiamenti e regole sociali che fa seguito alla variopinta diversificazione culturale di queste etnie. Tali atteggiamenti sottolineano comunque l'inconscio, connaturato rifiuto dell'uomo, qualunque sia l'orizzonte culturale e socio economico in cui si trova, nei confronti di gesti e situazioni così drammatiche e l'urgenza di una gestione socio culturale degli stessi, comunque in linea alla loro indiscussa gravità. Regole distinte che, pur procedendo da aspetti filosofici radicalmente diversi, assumono in ciascun contesto una loro precisa ed efficace ragion d'essere, una loro valida funzione, di volta in volta pervasa o da feroce violenza o di apollinea, «mansueta» sufficienza.
È singolare notare come gli Arapesh, autori come si è visto di un sistema assai ritualizzato, quanto deprecabile nei suoi contenuti, mettano in atto una cesura filosofica originale, seppur velata di quella sufficiente xenofobia così diffusa tra i popoli della terra, che «... distrugge con un colpo solo la gerarchia che permette di distinguere il parente vicino dal parente lontano, l'amico dal conoscente e dal parente acquisito; distrugge la scala della fiducia, propria di tante comunità, e sostituisce ad essa le due sole categorie assolute; quella degli amici e quella dei nemici.
Questa rigida dicotomia porta... al ricorso obbligatorio alla stregoneria ogni qualvolta vi siano delle manifestazioni anche minime di ostilità. Il ricorso alla stregoneria trova la sua spiegazione nello stesso atteggiamento fiducioso e affettuoso di questo popolo, atteggiamento che un colpo solo basta a demolire, perché l'Arapesh non ha mai ricevuto nella sua infanzia un solo colpo che gli insegnasse a reagire all'aggressività altrui.
Ne consegue che quando nell'età adulta, si manifesta un atto di ostilità, questo assume forme anomale, imprevedibili ed incontrollabili. L'Arapesh non concepisce una natura umana originalmente violenta, che debba essere educata alla pace; una natura gelosa ed egoista, che debba essere educata a dividere con il prossimo; possessiva, che debba essere educata ad allentare la presa su ciò che considera sua proprietà. Egli presume invece nella natura umana una gentilezza di comportamento che può mancare soltanto nel bambino e nell'ignorante, e un'aggressività che può manifestarsi soltanto in difesa del prossimo».10
Tali differenti consuetudini e norme sociali rappresentano dunque l'espressione concreta di una visione di fondo, antropologica, cosmologica e metafisica di volta in volta differente da interpretare, nel complesso dei tratti di ciascuna cultura, esclusivamente a partire da questo nucleo fondamentale di concezioni di fondo.
È allora intuibile come le espressioni sociali, i costumi di una società sessuo repressiva, patriarcale, teoetotomistica quale la nostra civiltà occidentale e, ai tempi di Gesù, la società palestinese, la legge degli Scribi e dei Farisei, non possano che trasudare la violenza di questo nucleo filosofico, giustificandola quale inevitabile reazione difensiva di una «sana» società alle aberranti manifestazioni di una «presunta natura corrotta, aggressiva e peccaminosa» dell'individuo.
Tutti questi atteggiamenti etici esprimono e riassumono dunque istanze filosofiche tra loro diverse, antitetiche, che comunque non dobbiamo acriticamente accettare quanto oggettivamente analizzare, ma soprattutto comprendere e valutare senza pregiudizi e preconcetti.
È dunque possibile, e non utopistico, proporre una giustizia migliore di quella di Scribi e Farisei, basata su una nuova visione dell'uomo e della realtà, in grado di comprendere con più acutezza e profondità l'essere umano, le sue scelte, i suoi errori, la sua profonda natura, la dignità del suo essere ontologico, le sue debolezze, i suoi limiti.
Nella nostra società si predica l'insegnamento di Gesù di «non ammazzare» (Mt 5, 21), la sua forte esortazione a «perdonare settanta volte sette» (Mt 18, 22): e rinchiudere un uomo in 12 metri quadri per tutta la vita, limitare drasticamente i suoi rapporti interpersonali e culturali, le sue esperienze ed espressioni, tagliare i suoi affetti e le sue speranze, questo non è una sorta di lindo «uccidere»?
Se l'individuo è, come si predica dottrinalmente in tutte le teoetotomie, fallace per natura, come poter avallare passivamente che debba «espiare» il fatto di essere stato autore di un gesto, pur abominevole come l'omicidio sostanzialmente a causa dell'innata valenza negativa della sua natura se non per un palese gesto d'imitazione teologica? Semmai si avesse l'intento di far prendere coscienza ad un omicida della vera gravità del suo gesto, di come avesse potuto gestire in modo umano, più consono agli autentici contenuti dei contrasti che condussero ad un sì sanguinario epilogo, l'ultima cosa da fare è proprio quella di costringerlo in una cella di prigione per tutto il resto della sua vita.
Se veramente si vuol combattere a fondo contro tali manifestazioni aggressive, l'azione sociale deve muovere anzi dall'identificazione corretta e successivamente all'eliminazione di quei fattori sociali che più da vicino distorcono le espressioni interiori, come si è visto in realtà assolutamente non sanguinarie dell'individuo medio, ovvero alla soppressione di quelle cause, di quei condizionamenti che conducono socialmente ed individualmente a tali eccessi violenti.11
Un'azione questa a largo raggio, difficile, se ne conviene, che però deve iniziare dal tessuto socio economico e culturale della società che condiziona sì drasticamente l'emersione delle singole personalità: occorre dunque combattere la povertà, l'affermazione di un individualismo esasperato, l'emarginazione e lo sfruttamento, una sperequazione sempre più ampia, oramai cronica a livello globale, tra ricchi e poveri, ma ancor prima rinunciare ad una cultura competitiva e repressiva che afferma socialmente ed economicamente un'etica di indifferenza e contrapposizione violenta, anche se ritualizzata e codificata. Solo contrastando l'attuazione di istituti parentali e famigliari tali da condurre all'emersione di tratti caratteriali deteriorati dall'affermazione di un'etica sessuo repressiva e patriarcale potremo sperare di ottenere poi, per ricaduta, una diminuzione stabile degli atteggiamenti violenti, iper aggressivi, criminali, sadici,nonché autolesionistici, che turbano le cronache, la nostra storia.
Prescindere dalla presa di coscienza dei pesanti condizionamenti cui l'individuo è succube nel corso della sua esistenza, del suo sviluppo, della rilevanza ormai scientificamente evidenziata dell'attiva influenza dei fattori socio affettivi esterni nella genesi e nella caratterizzazione di tali personalità, ridursi ad un'azione essenzialmente repressiva e limitativa del soggetto, è un indizio dell'arretratezza dei principi che animano il legislatore, la società stessa, della loro inadeguatezza a gestire una comunità con contenuti consoni alla dignità umana. L'evidenza è irrefutabile: solo in un'ottica repressiva tutto ciò può essere deliberatamente ignorato.
Un mondo forse possibile questo, ma non... il migliore possibile: non un «Regno dei Cieli».
Ogni ottica che non colga nella vera interezza la complessità e lo spessore della figura umana e che magari, seppur professandosi laica, faccia proprio il retaggio filosofico e l'antropologia propria di una concezione teoetotomistica dell'uomo, è incapace di comprendere la radicale profondità e la portata della trasformazione etica e sociale necessaria alla realizzazione di tali mete.
Questa trasformazione è possibile solo collocandosi nella visione cosmologico antropologica dell'ideale filosofico cristiano ricordo la particolare accezione religiosa di questo termine , si può cogliere completamente ed esaustivamente nel suo nocciolo. Da qui, finalmente, iniziando ad informare realtà socio affettive e culturali decisive, quali il nucleo famigliare ed i fondamenti etici su cui è attuata la formazione caratteriale del soggetto, si può giungere ad una ben diversa manifestazione a ben distinte sfaccettature dell'esistenza umana. Dispiegando e realizzando una caratterizzazione sociale, etica, culturale ed economica, in seno alla comunità ben distinte, questo fulcro potrà giungere infine a definire un tessuto socio economico in cui quelle mete potranno essere raggiunte.
La radicalità, la profondità e la superiorità del pensiero cristiano è insita in questo.
Gesù non si sofferma a precisare i dettagli di una società «definitiva», «divina», «somma», i particolari economici del tessuto sociale che dovrebbe garantire l'attuazione del «Regno dei cieli», lasciandoci una «legge» giusta ed assoluta su cui fondare la nostra esistenza sociale, i nostri rapporti interpersonali: nulla di tutto questo.
Piuttosto egli indica il nocciolo filosofico da cui muovere per realizzare nei particolari termini e rapporti ontologici, economici, culturali, tutti da lì da venire e lontano da esser dettagliati, i contingenti modelli del «Regno dei Cieli». E questo nocciolo verte sull'«Uomo», sulla definizione delle sue mete, dei suoi diritti, delle sue interiori espressioni, sulla sua valenza ontologica, mondana e nello stesso tempo sovrannaturale.
Gesù espone l'«Uomo», le profondità della sua duplice natura, il suo senso teleologico, il senso del suo essere dinnanzi a Dio e dinanzi all'altro, proponendo nettamente, a tutto tondo, il senso del suo termine ontologico e, non meno, il contesto delle realtà sociali, culturali ed affettive necessarie per il suo raggiungimento.
Se dunque si valutassero nel complesso le affermazioni riguardo la figura di «Uomo» che Gesù cercò di delineare ai suoi interlocutori, all'uomo di oggi, si potrebbero cogliere i tratti individuali tipici di società ben diverse da quelle sinora auspicate da teoetotomie come il protestantesimo ed il cattolicesimo.
Il distacco dalle ricchezze, da beni terreni auspicato in Mt 6, 19 e 6, 25, e nell'episodio del ricco di Mc 10, 17-27, di Lc 6, 24-25 e Lc 12, 15-31 non è da intendere come affermazione di uno «scandaloso» rigetto del mero godimento mondano, effimero e dispersivo in nome di un oscuro principio ascetico. Bensì un «sufficiente» rigetto di quell'atteggiamento accumulatore che spilla le risorse dell'individuo nella paziente e maniacale attenzione al risparmio facendo riferimento al linguaggio economico che così diffusamente riscontriamo in molta ideologia liberistico economica da mass media , alla capitalizzazione, al geloso impiego e salvaguardia di tali beni, ad un'oculatezza gestionale ipertroficamente edonista, al culto della proprietà, al riconoscersi principalmente in essa, all'affermazione incessante, estesa e fine della «superiorità», del «significato» della ricchezza nell'ambito socio culturale.
Il «rigetto» è rivolto alla valenza socio psicologica delle ricchezze nella misura in cui queste «estraggono» valore dello spessore ontologico dell'individuo «Uomo» al di fuori dello stesso, della sua intrinseca valenza di ente teleologico, nella misura in cui attirano energie e l'attenzione proponendosi quale apparente panacea di un'angoscia esistenziale, di una presunta irrilevanza interiore.
Un rigetto la cui profonda matrice filosofica è evidente, e completamente delineata, nell'episodio delle tentazioni nel deserto, (vedere CAPITOLO_3) e che si è visto trasparire nella struttura caratteriale sociale di culture confluenti nel polo religioso. Un rifiuto segnato non da un profondo scandalo verso le ricchezze, il benessere da queste derivante tout court, quanto da una sufficienza, da una superiorità dell'attenzione dell'individuo nei loro confronti che si colloca, in un elegante amalgama, nel contesto di un più generale atteggiamento genitale ed essenziale nei confronti della vita. Un proponimento positivo verso esperienze, relazioni e valori che si delineano su un piano di ben altro livello in rapporto alle pure delizie di tali godimenti materiali. Un rigetto i cui contorni e significato sono espressi dalla necessità di un attenzione parziale a tali aspetti, non eminentemente ascetica fors'anche più che minimale e limitata, rivolta a garantire all'individuo, nel complesso, una dignitosa qualità della vita. Questo per permettere allo stesso, poi, di poter esprimere in modo consono quella valenza ontologica che trascende le stesse e dà spessore al suo essere «Uomo».
In termini più precisi e concreti, si delinea nell'intero corpus del pensiero cristiano (religioso) un'etica socio economica, politica che, contrariamente ai presupposti ed alle risultanze delle culture teoetotomistiche bellamente sviluppatesi a partire dallo stesso nucleo sapienziale ci si riferisce all'etica cattolica e protestante in particolare , conduce direttamente, non importa in quali contingenti modalità, all'attuazione di realtà socio economiche accomunate tra di loro dall'affermazione di un principio olistico di «armonia complessiva» delle molteplici sfaccettature delle esigenze e delle manifestazioni dell' H. s. s. religiosus. Principio che si oppone, per inciso, alla puntuale «massimizzazione» di un unico fattore, quello economico, da cui dovrebbe «poi» derivare tutta la serie di conseguenze positive benessere, democrazia, libertà individuale, rispetto dei diritti umani, abbondanza, etc. attese nel consorzio sociale dall' H. s. s. aeconomicus.
Tale principio religioso contiene in nuce uno spessore filosofico, ecologico ed umanistico tali da condurre ad una prassi economica globalmente orientata a porre in essere una realtà sociale molto più armonica e meno esasperata, economicamente parlando, di quelle diffuse sulla faccia della Terra. Tralasciando ovviamente ogni regime centralizzato, ogni assurdità statalistico comunista, oramai decisamente sconfessata dalla storia, ci si riferisce in particolar modo in riferimento al sistema occidentale ad economia liberistico capitalistica.
Il paradigma fondamentale dell'economia ci presenta il soggetto economico nell'atto di analizzare e scegliere l'allocazione di risorse limitate tra impieghi alternativi, onde raggiungere il massimo soddisfacimento nella realizzazione dei suoi fini. Tutti i canonici testi di economia di mercato definiscono in tal modo l'azione elementare, l'atteggiamento fondamentale dell'individuo chiamato a risolvere un problema economico.
Ogni pensiero economico conosciuto, dalle posizioni più conservatrici alle più radicali, dal pensiero keynesiano a quello marxista, verte su questo paradigma, ed è su questo nucleo teorico che l'analisi economica trova le più esatte ed condivise espressioni. I problemi e le discrepanze che hanno segnato ed animato la discussione economica vengono in evidenza comunque prendendo le mosse sin dal più prossimo intorno di questo nucleo.
Questo è dovuto al fatto che tale paradigma rappresenta l'aspetto medio, limitato e circoscritto del fatto economico. Le teorie relative all'allocazione di risorse limitate per la massimizzazione dei fini preposti dall'individuo è infatti un mero strumento concettuale, singolarmente valido quanto assolutamente incapace, tout court, di comprendere la valenza «intera» del fatto economico, il ruolo ed il significato complessivo di tutti i fattori coinvolti e da questo intaccati. Basare su di queste teorie allocative, nell'ipotesi che le stesse possano avere un'applicazione «universale», dai livelli micro economici a quelli macro economici, costituisce solo una riduttiva ed indebita estrapolazione, che molte delle odierne evidenze sulle caratteristiche dei sistemi complessi iniziano sempre di più ad evidenziare.
Della parzialità di questo paradigma e dei problemi indotti da questa parzialità, molto sinteticamente quanto argutamente, parla H. E. Daly quando afferma come: «... non viene considerata l'intera gamma dei fini e dei mezzi; gli economisti non parlano del Fine Ultimo, neppure dei mezzi primari.
L'attenzione degli economisti è completamente concentrata sul campo medio di tale spettro allocando mezzi intermedi dati (lavoro, prodotti) per il raggiungimento di determinati fini intermedi (cibo, benessere, istruzione, etc.). Questa focalizzazione limitata, come sarà mostrato, è stata la fonte della maggior parte della confusione sorta a proposito della crescita economica».12
L'analisi e la comprensione completa del fatto economico o meglio «socio economico ecologico» deve procedere invece da una visione globale, che inserisca il soggetto dello stesso nella realtà fisica naturale da un lato, e nella particolare struttura sociale e culturale dall'altro, al fine di definire sia la natura delle sue risorse e dei suoi mezzi che dei suoi bisogni, dei suoi fini reali.
Nel corso di quest'analisi vengono allora alla luce i più spinosi e rilevanti problemi, e questo è quel che ha indotto disaccordi profondi sull'interpretazione del fatto economico; è qui che spesso e volentieri il discorso diviene eminentemente ideologico. Né poteva essere da meno, considerando il momento dei fattori ideologici, psicologici, filosofici ivi coinvolti, il forte spessore emotivo ed il significato delle scelte in questione.
Ebbene, il taglio radicale dell'approccio religioso volge l'attenzione su questi contesti, senza comunque perder d'occhio alcuni imprescindibili contenuti del suddetto paradigma in merito ai quali si propone un distinto modus applicativo. Essendo infatti l'economia una disciplina che studia l'allocazione razionale di mezzi e risorse limitate, è chiaro che proprio tale limitatezza pone la necessità di definire a monte dell'atto economico in sé il versus in cui lo stesso trovi collocazione e giustificazione; ciò sta a voler dire come sia necessario comporre il quadro globale in cui l'individuo debba essere inteso in tale frangente, sia stabilendo, usando lo stesso termine del Daly, un autentico «Fine Ultimo», sia esaminando la base fisica, naturale in cui tutto l'evento prende origine e giunge ad eventuale, positivo compimento.
In relazione a questo secondo punto bisogna scendere all'analisi della realtà naturale in cui è calato il soggetto del gesto economico, in cui lo stesso gesto si compie. È per questo che si deve ricorrere allo studio dell'altra disciplina che condivide con l'economia la stessa radice etimologica greca «oikos»: casa, abitazione; l'ecologia.
È chiaro che «solo dopo» aver approfondito il «logos», la conoscenza della nostra «abitazione» naturale, delle sue caratteristiche, delle sue dinamiche, sarà possibile definire le «norme» per la sua eventuale manipolazione, per la sua «amministrazione», per la gestione di quegli intenti così imponenti che, specialmente nell'era moderna, l'uomo ha cominciato a ambire ed attuare.
L'ecologia, una delle più giovani discipline dell'attuale panorama scientifico, ci descrive la realtà biofisica del pianeta in cui viviamo come un'entità geo-bio-evolutiva estremamente complessa e delicata, multiforme, in cui raffinati sistemi biotici intrecciano reciprocamente tra loro, e col mondo abiotico, dinamiche cicliche di fondamentale importanza. Tali dinamiche sono ovviamente orientate in accordo al secondo principio della termodinamica, il quale afferma che ogni processo naturale, fisico, si svolge in modo tale da condurre ad un aumento globale dell'entropia del sistema energeticamente coinvolto dallo stesso.13
È quindi inevitabile calare il discorso economico, relativo come si diceva all'allocazione di risorse e mezzi limitati, nell'alveo del carattere «entropico» di tali dinamiche, riconducendo il fatto economico, le scelte economiche poste in essere dal soggetto sia esso l'individuo o la comunità di cui s'intenda condurre l'analisi nel contesto di una valutazione distinta da quella del pensiero economico canonico, che evidenzi il ben più decisivo significato termodinamico ed ecologico delle stesse. Una valutazione, per inciso, che mai come ora assume rilevanza ed urgenza dato il peso ecologico che l'attività antropica ha sull'intera biosfera terrestre.
Le risultanze più significative della critica all'ortodosso pensiero economico sostenute da autori sensibili a questa importante valenza, critiche rivolte, in particolare, non ai fondamenti dell'economia di mercato, quanto dell'etica capitalistica, conducono ad un discorso coerente con l'etica socio economica religiosa di cui si diceva; un'etica imperniata su di un principio di fondo niente affatto teso alla «massimizzazione» del gesto economico, alla pura «crescita» spesso usata erroneamente come sinonimo di «sviluppo» quanto rivolta alla definizione di una «ottimizzazione» del gesto economico che rifletta un'interrelazione ecologica meno esasperata, più armonica rispetto a quella dell'attuale cultura capitalistica.14
È straordinario poter osservare come la profonda e giustificata critica sviluppata da tali autori, suffragata da argute e pertinenti verifiche «sul campo», condotte con una sempre più ampia serie di strumenti teorici, contenga in nuce postulati essenzialmente identici a quelli «cristiani».15
Quest'etica, pur incentrando indifferentemente l'interesse su sistemi ad economia di mercato, rifugge la soverchia valutazione dei fenomeni socio economici, le caratterizzazioni socio caratteriali del soggetto economico addotte dalle classiche filosofie economiche odierne, smaccatamente materialistico mondane quanto retaggi di una limitativa considerazione del valore intrinseco dell'individuo mediati da anteriori concezioni teoetotomistiche.
La «provvidenza» invocata in Mt 6, 24-34, il «ripudio» auspicato in Mt 19, 23-26, la saggia sufficienza che costituisce l'ossatura della parabola del ricco insensato di Lc 12, 13-21, hanno alle spalle un'etica religiosa e valori religiosi ben diversi, che nell'ambito economico non si esprimono in una smodata attenzione alla parsimonia od un ascetico, stoico distacco dalla mondanità, quanto in un'armonica, composta e consapevole applicazione del fatto economico.
In tale etica l'espressione economica del soggetto, e di riflesso della società di cui è parte, è informata da una valutazione del fatto economico in cui lo sfruttamento delle risorse e l'utilizzo dei vari fattori, mezzi di produzione, uso del territorio etc., non avviene nel contesto di uno sforzo, un «Fine Ultimo» consistente in quella realtà socio economica artificiosa che si staglia continuamente «oltre» i limiti, i vincoli della natura. Essa non contiene cioè in nuce quel «desiderio» di svincolare l'uomo, il suo destino da una realtà finita quanto angosciosamente «imperfetta», «corrotta», inadeguata all'uomo. Non esprime, altresì, quella smodata brama ed attaccamento tipici di una caratterizzazione «anale», quegli eccessi «feticistici» invero così diffusi in sistemi socio economici e culturali diversi da quelli propri delle polarizzazioni metafisiche religiose.
Orbene tale condizione rappresenta la conditio sine qua non per l'attuazione di sistemi socio economici che proprio in riferimento alle loro espressioni del fatto economico, collettivo ed individuale, si pongono quali realistiche alternative ai sistemi attuali, tesi all'enfatizzazione e massimizzazione del fatto economico, allo sfruttamento intensivo di mezzi, risorse, uomini, ad un accumulo ed una crescita smodati ed abnormi. Sistemi sulle cui più tipiche espressioni, sulla cui valutazione economica ed ambientale si inizia sempre più a manifestare dagli addetti ai lavori una viva preoccupazione, specialmente in considerazione delle urgenti problematiche ecologiche sollevate dalla crescita economica e dall'eccessivo sfruttamento delle risorse planetarie, dei problemi demografici, etici ed economici che sorgono su scala mondiale dietro le sempre più ampie disuguaglianze createsi nell'intero consorzio umano.
Il contesto etico metafisico del pensiero cristiano contiene il nucleo filosofico indispensabile per realizzare quegli scenari di cui peraltro l'arguta e profonda analisi di vari autori già permette di disporre di una congrua base teorica ed operativa, di strumenti conoscitivi ed analitici capaci di una sua realistica attuazione sia a livello di micro che di macro economia.
Queste analisi non contengono ovviamente un qualche nucleo o paradigma alternativo rispetto a quello proprio dell'ortodossa teoria economica di libero mercato, basandosi, come già accennato, sullo stesso paradigma. Esse si limitano solo ad una valutazione quantitativa e qualitativa della base di risorse e mezzi e dei fini dell'attività economica, su di una valutazione comunque più ampia, coerente, oggettiva e globale del gesto economico e del significato di questi fenomeni. Queste conoscenze derivano da discipline quali l'ecologia, la conoscenza sempre più formalizzata delle dinamiche delle popolazioni biologiche etc., e propongono nuove evidenze in merito all'impatto ambientale dovuto alle attività antropiche.
Da questi autori provengono teorizzazioni economiche di taglio decisamente radicale, come ad esempio quella di un'«economia in stato stazionario» derivante da una valutazione «entropica» del fatto economico, e serrate quanto giustificate critiche dei regimi liberistico capitalistico, del ruolo spesso deviante delle politiche filo keynesiane e liberistiche condotte dalle odierne società capitalistiche industrializzate occidentali, delle disparità e storture ingenerate a livello mondiale da tali modelli di sviluppo e di crescita economica.
Queste interpretazioni, pur a prescindere da una visione ontologica dell'individuo, e della comunità interessati dal fatto socio economico, conducono, tramite una ridefinizione di concetti chiave del linguaggio economico e dei suoi termini ultimi, ad obbiettivi essenzialmente distinti da quelli delle ortodosse dottrine economiche. Il Daly ad esempio, tramite una rivalutazione delle risorse e mezzi naturalmente rinnovabili e non rinnovabili nel contesto della loro allocazione, giunge alla definizione, non del tutto originale come lo stesso tiene a precisare,16 di modelli socio economici diretti non ad un'incessante crescita economica, quanto ad un concetto di sviluppo disgiunto dal concetto di «crescita», legato ad un fisiologico «turn over» di determinati «stock di capitale». In tale modello teorico egli sostiene una valutazione dei benefici dovuti all'uso, all'allocazione delle risorse e dei mezzi non più spinto ad una valutazione della loro resa marginale sul breve periodo, quanto sull'ottimizzazione degli stessi sul medio lungo periodo.17
Altri autori pongono l'attenzione ancora sulle forti tensioni indotte nel pauroso squilibrio tra nord e sud del mondo, tra le società industrializzate ed i paesi dei cosiddetto terzo mondo, sulle ingiustizie del sistema monetario internazionale, sull'urgenza della salvaguardia delle aree del pianeta più suscettibili di esser danneggiate dagli effetti primari e secondari dovuti alla crescita socio economica e demografica incontrollata, dall'incremento degli scambi e dei tassi di sfruttamento delle risorse naturali, dall'impennata dei tassi di natalità derivanti dallo sconvolgimento dei contenuti culturali, etici e poi economici di intere etnie.18
Tali modelli teorici, postulando valutazioni di costi e benefici più estese, raffinate e complesse di quelle usualmente poste in essere nelle ortodosse analisi economiche, presentano agganci più realistici tra le attività umane, i risultanti delle scelte degli operatori e le realtà ecologiche ospiti, fornendo sia all'individuo che alla società obiettivi economici molto più aderenti alle dinamiche, agli equilibri che determinano le caratteristiche qualitative e quantitative degli stessi sistemi naturali, i rapporti tra le popolazioni biologiche; equilibri che sono alla base di caratteri decisivi quali l'«omeostasi» degli ecosistemi. Da tali analisi derivano dinamiche economiche simili, per alcuni concetti chiave, a quelle che regolano i flussi energetici attraverso le catene alimentari degli ecosistemi.
Tali dinamiche risultano estremamente interessanti ad un esame prettamente energetico e termodinamico poiché permettono di evidenziare un carattere essenziale delle stesse. Questi flussi energetici di nutrienti abiotici e biotici, tramite i quali fluisce l'energia «rinnovabile» intercettata dalla superficie terrestre, presentano, sebbene decisamente limitati, «chiusi» per quel che riguarda i tassi teorici di crescita quantitativa, un'estrema e sorprendente «apertura» nei confronti di uno «sviluppo» qualitativo dei sistemi viventi, degli ecosistemi stessi.
Quest'incessante sviluppo non è affatto condizionato nei suoi meccanismi dalla «massimizzazione», dal raggiungimento dei massimi livelli di crescita praticamente realizzabili da ciascuna specie anzi conduce a realtà biotiche progressivamente più complesse ed evolute in cui, sul lungo periodo, i cambiamenti più evidenti non sono rappresentati da sensibili incrementi quantitativi assoluti dei tassi di crescita e dell'ammontare delle singole forme di vita ma dalla profonda evoluzione qualitativa delle varie comunità biotiche nel loro complesso.19
È singolare sottolineare come nel contesto delle dinamiche ecologiche, dietro tale processo di differenziazione degli ecosistemi, al raggiungimento di ecosistemi man mano più lussureggianti e complessi in relazione alle forme di vita presenti, si realizzi un deciso aumento della «stabilità» dell'ecosistema stesso da cui l'«omeostasi ecologica» in relazione alle fluttuazioni demografiche delle singole forme di vita. Parallelamente a ciò, si ha per ciascuna specie il raggiungimento di livelli demografici con tassi di turn over il ricambio dovuto al rapporto tra i tassi di nascita, o di speranza di vita, e di mortalità attestati su valori assai minori dei massimi potenziali.
Ciò vuol dire che lo sviluppo complessivamente in atto tra forme di vita in competizione non risulta essere fondamentalmente dovuto ad incrementi della crescita ponderale dell'ecosistema, che resta contenuto e stabile. Quest'ultima è infatti funzione, comunque rigidamente limitata, della capacita di intercettazione del flusso energetico principale: la radiazione solare. In realtà lo sviluppo conduce, per quel che riguarda singole forme di vita, a livelli demografici progressivamente più stabili e meno sensibili ad oscillazioni numeriche, e comunque numericamente inferiori ai potenziali massimi teorici.
Ebbene, modelli quali quello di «economia in stato stazionario» proposto dal Daly, rappresentano i paralleli economici più calzanti e raffinati dei meccanismi che regolano i rapporti biotici naturali e conseguentemente uno degli strumenti più efficaci, sempre dal punto di vista economico, per condurre le valutazioni, le «allocazioni» di risorse e mezzi limitati nelle scelte individuali e collettive dell'uomo.
Ora, mentre negli ecosistemi naturali come una foresta, una scogliera corallina, la profonda «inconsapevolezza» dei vari interpreti garantisce una «tacita» ma spesso tragica armonia, tutto ciò viene stravolto quando una curiosa creatura bipede sorge dal sottobosco tenendo tra le mani un flessibile bastone teso da una corda o quando, tra un ribollir di bollicine, un sub si tuffa tra lo splendore di una barriera madreperlacea nella sua avveniristica attrezzatura subacquea.
L'«autocoscienza», la consapevolezza ontologica di tale creatura, la sua capacità di polarizzare con straordinaria efficacia il senso ultimo del quadro cosmologico metafisico in cui si colloca sin nelle pieghe più insignificanti della sua esistenza, la sua capacità d'illuminare il suo operato, le sue scelte, dai riflessi più e meno tragici di queste visioni, è spesso in grado di esasperare gli effetti della sua presenza nell'ambiente e di condurre a tragici eccessi l'uso delle sue conoscenze, del suo superiore potere intellettivo.
E questo è quello che è avvenuto progressivamente, parallelamente all'affinamento delle conoscenze e delle tecnologie, in modo più esteso ed esasperato negli ultimi millenni della nostra storia, in particolar modo negli ultimi duecento anni, ma anche a seguito di una diffusione sempre più ecumenica, purtroppo, di una concezione metafisica degenere, contraddittoria, capace d'informare negativamente proprio l'autocoscienza, l'auto-percezione ontologica dell'uomo.
In campo socio economico dunque, l'allontanamento filosofico dai contenuti propri del polo religioso, trasformando l'auto-percezione dell'«Uomo», la sua collocazione metafisico ontologica, deformò drasticamente i contenuti di quel «Fine Ultimo» invocato dal Daly, operando una formidabile trasformazione filosofica, emotiva e psichica nello stesso agente economico, autore delle scelte e delle allocazioni alla base del gesto economico.
Una differenziazione filosofico ontologica, i cui contenuti sono evidenti nel raffronto tra varie culture conosciute dall'antropologia culturale, la quale, anche in considerazione del risalto avuto nelle vicende del genere umano dai rispettivi contesti cosmologici e le relazioni storico culturali di tali concezioni, consente la formulazione di un quadro esplicativo estremamente interessante e rilevante.
Abbiamo già osservato come, storicamente, le teoetotomie siano succedute a sistemi religiosi a seguito di una profonda rivoluzione filosofico metafisica. Sarebbe ora opportuno evidenziare, se possibile, l'esistenza di un nesso storico e culturale tra questi due modelli, dunque succedutisi l'un l'altro e quell'ideale filosofico a questi fondamentalmente contrapposto: l'ateismo tout court.
Questa verifica ha la sua ragion d'essere nella grande importanza assunta, nel presente lavoro, dal porre l'accento su alcune similitudini, tra alcuni caratteri comuni della prassi atea e teoetotomistica relative ai contenuti di natura culturale, sociale ed economica. Quest'intento sembrerebbe a prima vista assurdo, data la radicale opposizione filosofica esistente tra l'ateismo e teismo, in special modo vista la violenta opposizione e le rivendicazioni più essenziali e nette della critica atea dell'ideale teistico.
Per inciso, c'è da sottolineare come, storicamente parlando, il confronto è stato posto non tra ateismo e teismo, quanto tra ateismo e teoetotomie. Il confronto ateismo/teismo in realtà non è identificabile nel confronto ateismo/teoetotomie. In questo secondo caso, contingente, si ha solo un confronto tra l'ateismo ed una particolare dottrina niente affatto rappresentativa dell'intero polo del teismo, il quale è caratterizzato in realtà da aspetti spesso assolutamente assenti nelle teoetotomie. Anzi, si può osservare come possano esistere forti similitudini tra le valutazioni ontologiche di aspetti esistenziali propri sia dell'ideale ateo che teoetotomistico. Entrambe le filosofie, atea e teoetotomistiche, pongono l'individuo, in rapporto alla sua finitude esistenziale, su un piano di ben più esteso e negativo rilievo emotivo, sottolineando una maggiore urgenza e angoscia nella percezione del futuro rispetto alle posizioni religiose.
La finitude naturale dell'individuo, dignitosamente eppur inevitabilmente accettata dall'ateo, quanto giudicata «non consona» dallo stesso, al contrario colta come «corrotta e subordinata» dal teoetotomista, risulta estremamente vincolante nella valutazione ontologica del proprio essere e divenire.
La filosofia atea propone all'individuo un'auto-percezione ontologica tragicamente ed ineluttabilmente caratterizzata «solo ed esclusivamente» da una valenza mondana, irrimediabilmente finita e limitante, nell'ambito della quale l'individuo dovrà comporre il suo sprazzo auto cosciente, realizzare il proprio destino, intaccare la propria storia per lasciare la propria impronta in un esiguo, fin troppo esiguo, bagliore della sua esistenza. Un luccichio che è inevitabilmente spinto a «massimizzare», a caratterizzare il più possibile con l'autenticità della propria autodeterminazione prima di spegnersi, perdersi irrimediabilmente nell'oblio del passato, nel buio del suo destino più estremo.
Tralasciando la valenza, pur condivisa, rivendicativa ed illuministica della filosofia atea nei confronti delle sinistre deformazioni delle concezioni teoetotomistiche, sembra innegabile che dagli assunti filosofico teorici più puri e fondamentali dell'ateismo possa derivare un'etica socio economica, esistenziale, tragicamente intrisa di un atteggiamento di fondo individualistico ed edonistico: tanto più spinto quanto più vitali ed immediati siano gli interessi dell'individuo o della comunità coinvolti dal fatto economico.
Lasciando da parte la contingente componente rivoluzionaria delle manifestazioni storico sociali dell'ateismo, si rivolga l'attenzione non tanto sul senso filosofico dello strappo ontologico della «negazione di Dio» urlata dall'uomo folle di Nietzsche,20 quanto alla tragica figura dell' H. s. s. ateisticus sopravvissuto a tale evento, finalmente ed esclusivamente «mondano», senza speranze ed illusioni che tracimino oltre il suo crepuscolo. In tal caso l'ateismo si delineerebbe in tutta la sua congenita e riduttiva incapacità di proporre un'auto-percezione ontologica dell'uomo positiva ed armonica, a causa della valenza biologica, psichica e sociale dell'animale uomo, della sua stessa razionalità.
Tutto ciò deriva «direttamente» dall'affermazione esplicita dei termini ontologici in cui nell'ateismo vengono percepite l'esistenza, le scelte, i fini e le azioni dell' H. s. s. ateisticus, di quell'irripetibile monade della natura, finita e circoscritta in una realtà immanente, aliena da qualsiasi orientamento teleologico, nel mentre è colta nell'atto di esprimere la propria finitude, la propria, piccola volontà massimizzando centripetamente al proprio nucleo individuale il senso della propria tragica presenza mondana: un'unica, irripetibile opportunità di «essere».
Da parte sua il teoetotomista percepisce la propria presenza mondana, in particolare nelle dottrine occidentali, impropriamente dette cristiane, come unico, irripetibile sprazzo, univoca dimensione in cui realizzare il proprio destino metafisico prima di concedersi ai giudizio sovrannaturale del suo giudice divino, ed eventualmente alla sua misericordia: un'unica, irripetibile opportunità di «salvezza», di «santificazione». Ma non è tutto.
Per comprendere completamente le implicazioni socio economiche dovute ai sistemi teoetotomistici ci si deve rivolgere ad una realtà meno immediata, taciuta e recondita che potremmo percepire solo cercando «tra le righe» dei conclamati dogmi delle stesse e nei meandri della psiche umana.
Qualcosa di non scritto, mai esplicitamente affermato senza mezzi termini, ma che opera in modo subdolo, inavvertito ed incessante, intaccando la prassi socio economica delle società teoetotomistiche: in esse l' Homo s. s. teoetotomisticus, sottoposto ad una collocazione ontologica sbilanciata a suo detrimento nel suo rapporto con la divinità, subisce proprio da tale consapevolezza una «tensione» in grado di originare tutta una serie di negative caratterizzazioni e dinamiche psichiche a causa della mancata realizzazione degli itinerari ontogenetici capaci di portare all'«Uomo», al suo essere libero.
Un «Uomo» è coinvolto nel suo divenire storico ed intellettuale, nella sua «ontogenesi», a dinamiche di sviluppo della personalità che dovrebbero avere come termine estremo il raggiungimento della cosiddetta fase «adulta» per eccellenza della sua esistenza mondana. Una meta significativa e tangibile, che dovrebbe implicare per l'individuo, parallelamente alla piena affermazione della propria autonomia etica meta che l'ateo può raggiungere in linea di principio un'altrettanto piena ed armonica percezione della realtà, non solo mondana, in cui sarebbe immerso obiettivo che l'ateo inevitabilmente fallisce.
Nelle teoetotomie questo risultato è invece vanificato dalla figura morale della divinità la quale, ponendosi come un'immane monolito tra l'individuo «immaturo» e tale termine estremo, sbarra senza scampo e speranza l'itinerario che conduce a ciò e implica un eterno ruolo subalterno dell'individuo.
La rimozione di tale epilogo, la negazione di simile speranza ontogenetica, definiscono una realtà da cui derivano dinamiche psichiche dell'animale uomo che conducono a manifestazioni psicopatologiche, nevrotiche di sottomissione-dominanza tipiche delle personalità di base delle culture teoetotomistico patriarcali e soprattutto da cui scaturisce nel campo del sacro un sentimento angosciante, che potremmo considerare quale manifestazione dell'atavico «istinto di fuga» dell'uomo nei confronti del «misterium tremendum», ineffabile, insondabile che aleggia attorno alle divinità, alla dimensione sovrannaturale delle teoetotomie. Un sentimento molto intenso e profondo che, come afferma R. Otto «... per sé è semplicemente paura: un sentimento naturale ben noto.
Ma qui vale come indicazione, propria senza dubbio ma pur tuttavia puramente analogica, di una reazione sentimentale di un tipo ben determinato, che se ha affinità con la paura genericamente intesa e da questa per analogia può ricavare luce è in realtà tutt'altra cosa dell'atteggiamento dello spavento...
È un terrore saturo di intimo raccapriccio, quale nessuna cosa creata, non la più minacciosa, nemmeno la più potente riesce ad instillare.
V'è in esso qualcosa di spettrale.»21
Ebbene è proprio questa collocazione ontologica, questo sentimento così profondamente esteso nella psiche umana che, a partire proprio da questo nucleo dell'essere umano, condiziona pesantemente la prassi quotidiana dell'individuo teoetotomista e traspira dai suoi rapporti sociali ed economici in seno alla società. In questo ambito è proprio quel «timor di Dio», quella vivida apprensione della rilevanza di quel passaggio obbligato, così decisivo per il destino ontologico dell'individuo, ad estrinsecarsi inconsciamente nel contesto economico, nella definizione di un «Fine Ultimo» in cui tale «ribrezzo», esasperando tragicamente l'istinto di conservazione dell'individuo e stimolando un atteggiamento edonistico, si assomma conducendo ad un attaccamento materiale spasmodico, prossimo, in definitiva, a quello dovuto all'etica atea.
Pur nella radicale opposizione filosofica dunque esistente tra le distinte concezioni, si può evidenziare una profonda similitudine nelle valutazioni ontologiche della dimensione mondana, della sua «qualità», essendo la stessa nell'ideale ateo l'unica espressione del suo «essere». Ed essendo la stessa, nell'ideale teoetotomistico, l'unica dimensione in cui l'individuo può coscientemente determinare il suo destino metafisico; una dimensione dunque comunemente delimitata per entrambi da un epilogo da cui entrambi cercano continuamente, inconsciamente, ansiosamente... di distogliere lo sguardo.
In entrambi i casi l'esperienza mondana assume un ruolo critico, assoluto, comunque sia necessariamente da «massimizzare». In entrambi i casi viene allora alienata, dissolta quella relativizzazione del rilievo esistenziale della dimensione mondana, della caratterizzazione dell'«essere ontologico» dell'uomo per contro perfettamente sorretta ed assolutizzata dall'ideale religioso.
In quest'ultimo ambito, l'individuo, percependo il proprio profondo essere in una totalità, un'ampiezza che trascendono la finitude lacerante della mondanità, può porre, proprio nelle scelte più fondamentali della sua esistenza terrena, una «sufficienza», una «dignità» del tutto peculiare (da non comprendere comunque in alcun modo con lo sterile, scandalizzato rifiuto della mondanità così tipico della prassi teoetotomistica!).
Ecco il senso di Mt 4, 4. Uno slancio ardito e libero dell'intelletto, espressione di uno spirito umano positivo e dignitoso, che conduce oltre gli angusti confini e limiti terreni, verso l'immenso, l'assoluto. Questo elemento infine non può che indurre l'inevitabile relativizzazione della dimensione mondana tramite la quale l'individuo può tentare di porre lo sguardo oltre i vincoli dell'immanente senza il rischio di cadere invischiato nelle ben più penose pastoie delle teoetotomie, senza smarrire la sua indipendenza etica, la sua libertà e dignità. Nell'ideale ateo e teoetotomistico quest'ultimo obiettivo è comunque precluso, rinnegato, rifiutato coscientemente o mancato, smarrito in penose involuzioni filosofiche.
In questi due contesti in definitiva si giunge in diversi modi ad una valutazione e percezione dell'esistenza tale da condurre ad una situazione psicologica, una caratterizzazione di fondo dell'individuo da cui deriverebbe quell'inedito «Fine Ultimo» capace d'intaccare in modo peculiare, per quanto «pragmaticamente simile» per entrambi, le valutazioni più fondamentali a cui ricondurre la propria prassi economica. Prassi eziologicamente distinta, quanto simile per l'analogo tentativo di massimizzare, esasperare tutto ciò che sul breve e medio periodo risulta naturalmente essenziale per l'individuo, che contribuisce, positivamente, ad innalzare la qualità della sua esistenza.
In entrambi i contesti dunque finiamo con l'osservare prassi socio economiche che, riflettendo i contenuti di particolari sistemi di coordinate filosofiche, determinano una «politica socio economica ipertroficamente materialistica, rivolta ad un uso ed uno sfruttamento sempre più fine, intenso ed esteso delle risorse». Quel che stiamo tutti osservando avvenire attorno a noi.
Sarebbe dunque questa la autentica «propensione» alla base dell'atteggiamento di quel soggetto, l' Homo s. s. aeconomicus a cui sono rivolti i massicci compendi di economia, dal quale si originerebbe il sogno di un continuo, inarrestabile sviluppo economico, di un disponibilità sempre maggiore, illimitata, di ricchezze e risorse che ne spillerebbe ogni attenzione ed energia?
La risposta sembrerebbe affermativa anche se c'è da sottolineare che tutto ciò non ne rappresenterebbe il fondamento esaustivo. L'atteggiamento socio economico dell' Homo s. s. aeconomicus risulta infatti comprensibile solo valutandolo il complesso delle sue motivazioni coscienti, razionali ma non meno della sua frazione psichica. Non bisogna omettere il significato della componente inconscia della matrice psichica, della sua natura «animale», aspetto troppe volte superficialmente ignorato o sottovalutato nell'ambito delle discipline economiche, ove spesso si è fatto ricorso a spiegazioni di tale fenomeno ovvie quanto stereotipate ed inconsistenti all'insegna di un fuorviante etnocentrismo.
L'esatta valutazione di tali aspetti è essenziale per un'efficace comprensione del fatto economico. Ciò conduce ad una valutazione storica in cui emergono interessanti relazioni tra l'ateismo e determinati contenuti delle filosofie teoetotomistiche.
Nel corso della storia umana si assiste ad una devastante trasformazione socio culturale, conseguenza di una greve differenziazione filosofica nell'ambito delle credenze teistiche. L'avvento e la diffusione delle società statali sarebbe, in ultima analisi, da ricondurre ad una radicale trasformazione delle concezioni metafisiche con la quale si originarono, nell'ambito filosofico del teismo, concezioni teoetotomistiche. A quest'innovazione seguirono importanti trasformazioni psicologiche, sociali ed economiche da cui emersero e sidiffusero, grazie alla loro maggior «fitness» sociale, le società teoetotomistiche patriarcali sessuo repressive che hanno scritto la storia del genere umano sulla faccia della Terra. Dal bacino del medio oriente prese il via la diffusione culturale, politica, militare ed economica di queste società, da cui derivano le odierne culture.
Come ampiamente acclarato, i primi stati sorsero come teocrazie teoetotomistiche centralizzate, di tipo classista, ove élites clericali concentravano e gestivano all'ombra di templi sempre smisurati ed inumani imperi sempre più ampi, popolazioni sempre più sfruttate. Questi contesti socio culturali gravitano su di un'immagine stereotipata dell'uomo, che coagula una particolarissima condizione caratteriale: una realtà culturale e psicologica da definire come vera e propria «sindrome». Una «sindrome da teoetotomia» per la precisione, contraddistinta da spiccata caratterizzazione anale, latente sado masochismo, ipertrofia del Super-Io, forte regressione sessuale, pesante influsso della dinamica edipica etc.: tutti aspetti riconducibili all'etica ed alla prassi sociale autoritaristico sessuo repressive affermatesi nei sistemi teoetotomistici.
Ora, la profonda realtà psico culturale riscontrabile nel carattere sociale di tali culture rappresenta una componente essenziale nel loro funzionamento socio economico, essendo in grado di convogliare inconsciamente e concretamente l'attività della comunità verso i grevi obiettivi politici necessari per il sostenimento e la perpetuazione del sistema: accumulo di surplus, radicato riconoscimento dell'autorità sociale, subordinazione spontanea del soggetto, sua propensione all'inserimento in strutture gerarchiche rivolte al controllo coercitivo dell'attività sociale, coinvolgimento individuale in ambiziose mete sociali, atteggiamento xenofobo etc. Questi contenuti rappresentano l'ossatura necessaria all'esistenza di tali sistemi socio economici.
Ciò è infatti evidente in tutti i sistemi statali che dal Neolitico in poi si sono succeduti sulla faccia della terra, sia che siano teocrazie che, successivamente, democrazie laiche o regimi dittatoriali dispotici.
Esso costituiva un retaggio delle teoetotomie fluito nell'ateismo moderno, nelle attuali società «laiche» in realtà tali sistemi non risultano affatto laici, dato che in essi sono riscontrabili sempre e comunque tentativi anche evidenti di indurre nelle popolazioni atteggiamenti di culto della personalità, di una radice razziale, geografica, nazionale etc. costituendo, a livello psico sociologico, il necessario cemento aggregante di tali società. A prova di ciò c'è da considerare come stia emergendo sempre più come i grandi movimenti politici così esplicitamente professatisi atei, dal nazismo di Hitler al comunismo di Lenin, Stalin, dai regimi di Ciausescu a quello della Corea del Nord in realtà sembrano esser stati alimentati da istanze vagamente paganeggianti, da correnti di pensiero esoterico magicistico in cui si è espresso tutto l' occulto armamentario psico ideologico delle teoetotomie, delle sette e tradizioni misteriche delle varie regioni, pur se rivisto in modalità peculiari, spesso malcelate.22
Biografie sempre più approfondite ed analisi più smaliziate dei leader storici e collaboratori di tutti questi movimenti mostrano in modo sempre più convincente come alla base ideologica di queste realtà sociali ci siano costantemente riferimenti a metafisiche e valori del tutto coincidenti con fondamenti delle teoetotomie più pure al di là delle leggende che spesso velano queste figure ed eventi, sovente montate ad arte dalle rispettive propagande o instillate da tutta una letteratura misterica. Ecco dunque che ideali e pratiche proto animistiche proprie dell'idea dell'immortalità si trovano espresse, in modalità del tutto materialistiche, in disegni soteriologici in cui trova solitamente posto il culto della personalità dei leader non da meno di vere e proprie santificazioni o visioni millenaristiche in cui agli stessi leader venivano attribuiti gesti miracolosi o incarnazioni di superiori volontà, divenendo così veicoli di un trascendente, mistico destino incentrato sulle vicende del singolo popolo o nazione, o sul particolare movimento socio politico in auge in un vero e propri delirio di sacralizzazione etnocentrica.
Lapidario l'esempio dei misteriosi processi di conservazione con cui nel 1924 si cercò di ottenere un'esteriore immortalità della pelle del cadavere di Lenin, da esporre al popolo in un mausoleo quasi a testimonianza di una sorta di immortalità miracolosa del loro leader.
È ovvio come anche nelle forme socio politiche più radicali l'élite di governo abbia compreso ed apprezzato come la forma di condizionamento delle coscienze fondato su tali sistemi ideologici, su analoghe visioni escatologico soteriologiche possano costituire un instrumentum regni straordinariamente efficace, assolutamente insostituibile anche per sistemi sociali informati da ideali atei, assolutamente antitetici.
Uno strumento di potere potente ed economico che nessuna minaccia giudiziaria, nessuna polizia di stato, nessuna rete di informatori e delatori, nessuna modalità di restrizione e di oppressione può minimamente garantire.23
È altresì ovvio come tutto sembri mostrare che l'unica forma mentis idonea ad ottenere un assoggettamento di popolo coatto ed irrazionale alle volontà dei pochi sia costituita solo ed esclusivamente da quella che è possibile ottenere tramite tali strumenti e visioni ideologiche. Un aspetto che nessuna forma di governo laico che miri ad esprimere forme di potere coercitivo o fondate sul condizionamento sociale centralizzato praticamente gestibile delle masse può permettersi il lusso d'incrinare o di smarrire, al di là dei fini e delle idee propagandate.
Alla luce di questi aspetti, e considerando come la mente umana esprima, a prescindere dalle eventuali sovrastrutture culturali, tutta una serie di «disposizioni genetico evolutive» tese ad attuare determinate forme di espressioni socio affettive ed intellettuali, si può capire come la mera sostituzione di una data sovrastruttura culturale lasci assolutamente inalterata la disposizione psico-culturale modale delle masse, e dei suoi governanti, accomunati dalla particolare «personalità sociale» di una data cultura. Alla luce di questo aspetto si comprende altresì il perché del fallimento di tutte le attività propagandistiche di opposizione delle forme di credenze popolari a cui questi sistemi sociali hanno cercato di addivenire, dell'inutilità degli orrori di cui si sono macchiati in tal senso a prescindere da ogni umanistico ed illuministico intento iniziale.24
L'ateismo moderno, in conclusione, sebbene ponga le sue radici filosofiche in un valido ed apprezzato pensiero speculativo risalente ai filosofi greci, ha assunto un rilievo, un significato illuministico e sociale peculiare, una valenza inaudita di riscatto dell'intelletto e della libertà dell'uomo dagli occulti gioghi della «superstizione», dell'«ignoranza» sicuramente sull'entusiastica onda culturale dovuta all'affermazione del metodo scientifico quale strumento elettivo di conoscenza per l'uomo; ancor più per il fatto di esser stato, a partire dallo scorso secolo, il veicolo, lo strumento principale di quella demistificazione del fideismo, dell'assolutismo e dogmatismo oscurantistico della Chiesa ed in generale di tutte le teoetotomie affini che per secoli aveva tarpato le ali dello spirito dell'uomo.25
Fatto sta comunque che le modalità con cui «poi» questi movimenti rivoluzionari andarono incontro alla storia ad orrori e prevaricazioni inenarrabili, smarrendo e sconfessando così quei nobili valori forse proprio per il fatto di esser stati nella loro pratica sempre e comunque informate da contenuti assolutamente in contraddizione ai loro, pur ideali, umanistici intenti laici originari. Ebbene: il problema filosofico che preme evidenziare è che l'ateismo che si espresse in «questa» serie di fatti storico politici è stato poi confuso come corretto, canonico contrasto «ateismo versus teismo» mentre in realtà è risultato essere solo un particolare, contingente contrasto di un «ateismo sui generis versus teoetotomie». Un contrasto, pienamente comprensibile e condivisibile ora, alla luce di quanto qui esposto, in tutta la sua parzialità e limitatezza.
Si noti che in questa sede non si vuol né formulare alcuna ipotesi in merito alla dicotomia filosofica tra teismo ed ateismo, quanto meno proporre filosoficamente detrazioni al moderno ateismo, bensì sottolineare, con particolare riferimento alla valenza culturale e sociale che lo stesso ha assunto politicamente e storicamente nei confronti delle posizioni filosofiche delle teoetotomie odierne, alcuni aspetti inerenti alle sue manifestazioni culturali e sociali più diffuse.
Orbene, in questo confronto l'ateismo ha assunto un ruolo, fondamentalmente condivisibile come si è detto, di contrapposizione filosofica ed umanistica alle teoetotomie, veicolando l'opposizione, il rigetto intellettuale dello spirito umano ai gioghi ideologici di tali modelli. Ma non è stato in grado di fare altrettanto nei confronti del retaggio psicologico filtrato da tali modelli. L'ateismo moderno infatti si è sviluppato come movimento di pensiero socio-politico a partire da realtà pesantemente condizionate dal punto di vista psico culturale dalle ideologie teoetotomistiche sessuo repressive ad esso precedenti, in particolare quelle dell'universo protestante e cattolico dell'occidente.
Queste realtà hanno allora passato a quest'ultimo una visione cosmologico antropologica permeata da un lato da istanze fissiste assolutamente infondate, dall'altro da un autoritarismo, un'etica repressiva, sessuo repressiva, che l'ateismo pragmatico non è stato in grado di superare nella sua prassi sociale, seppur mostrando nei suoi fondatori, nelle sue più innovatrici e rivoluzionarie formulazioni teorico filosofiche, un solido e positivo interesse verso un'autentica crescita interiore e sociale dell'uomo.
Anzi, esso si è rivelato ambito filosofico quanto mai recettivo e consono ad albergare, mutuare e mediare con insospettabile impeto e sconcertante ferocia la concezione di una natura corrotta ed imperfetta, inadeguata ai sogni ed agli aneliti dell'intelletto umano, nel sostenere e favorire una subordinazione dello spirito umano, dell'individuo, ad esigenze «superiori» della società, del popolo.
Mai quest'osmosi psico sociale tra il vecchio ed il nuovo, tra due opposti fu più deleteria.
L'ateismo moderno ha infatti manifestato una singolare, sospetta sollecitudine ad inglobare in sé i contenuti etici e psicologici di una cultura autoritaristica e sessuo repressiva, fondata sulla bivalenza del dominio-sottomissione dell'uomo sull'uomo, dando luogo a quel crogiuolo ideologico da cui sono sorti regimi totalitari e dispotici che hanno macchiato di nefandezze inenarrabili, di sangue ed orrori la storia dell'umanità; un crogiuolo inusitato che, ancor più, ha rappresentato poi il contesto più consono per incanalare coscientemente la prassi economica dell'individuo in un itinerario materialistico ed edonistico sempre più esasperato ed esasperante, alienante, questa volta nelle vesti di un capitalismo liberistico efferato ed insensibile.26
Se è vero infatti che le basi di quest'ultimo debbono esser ricercate nelle profonde trasformazioni sociali, psicologiche e culturali che, conducendo al superamento dei fissismo teocratico del Medioevo, seguirono l'affermazione delle dottrine luterane e calviniste nell'Europa centrale, come dimostrò a suo tempo il Weber,27 è innegabile che la corsa sempre più sfrenata verso un'etica materialistica e mondana non possa aver trovato manifestazione ed espressione più netta, efficace ed esaustiva che non in una filosofia atea sorretta da un'etica autoritaristico repressiva pur non sminuendo quanto e come, ancor oggi, sempre e comunque, gli ideali teoetotomistici continuino a costituire un fondamento fortissimo dell'economia e della politica capitalistica moderne, come i sempre più potenti movimenti «neo-con» americani stanno dimostrando.28
Quel che «si intendeva tra le righe» dei conclamati ideali teoetotomistici, che risultava «non scritto» ma «all'opera» nell'intaccare la prassi socio economica delle teocrazie teoetotomistiche, dalla società cattolica feudale del Medioevo al Rinascimento protestante del nord Europa, divenne nel quadro laico delle moderne società industriali e post industriali affermazione chiara ed inequivocabile, irriverente a qualsiasi valore non economico, di un individualismo aggressivo, di un utilitarismo senza remore, ritegno e pietà, di un edonismo mercanteggiante, violento ed all'occorrenza subdolo ed efferato nel suo continuo sacrificare all'idolo del profitto, dell'efficienza, della ricchezza smodata.
L'ateismo in definitiva, pur affermando aspetti filosofici assolutamente opposti a quelli propri del polo teistico, pur proclamando intenti rivolti ad una progressiva liberazione dell'intelletto umano dalle storture e dalle pastoie dell'ideologia, della superstizione e dell'ignoranza, cavalcando il destriero della visione scientifica, laica della natura, ha in realtà ingannato i suoi adepti, i suoi assertori, tutte quelle coscienze dei «poveri di spirito» evangelici a cui sorse quale clamoroso paladino di una libertà finalmente autentica, interiore, di una dignità che però nichilisticamente «strusciava via dall'orizzonte dell'uomo», parallelamente alla negazione del trascendente, quel pascolo assoluto ed infinito a cui lo stesso intimamente, tragicamente anelava: il Sacro.
Il problema dell'ateismo è infatti riferito al suo «gettar via il bambino con l'acqua sporca», alla riduttività dell'auto-percezione ontologica che trasmette all'individuo e, non meno, alla sua storica incapacità di comprendere e superare i nefasti retaggi psichici degli ideali teoetotomistici, d'impedire completamente la composizione degli inconsci sensi di colpa nei confronti delle manifestazioni teoetotomistiche di un Super-Io individuale e collettivo filosoficamente criticate ed avversate, quanto psicologicamente e socialmente non dissolte, anzi laidamente sfruttate; un fatto questo che deriva dalla sua eclatante, chiara, congenita impossibilità di rendere filosoficamente ed intrinsecamente «stabile», «armonica», l'auto-percezione ontologica e la valenza psichica dell'individuo ateo. Una limitazione questa che, per altri versi e contenuti, si erge analogamente nelle teoetotomie, e che solo nei sistemi religiosi sembra essere realmente evitabile.
L'incapacità di fondo di allontanarsi psicologicamente e socialmente, malgrado ogni presa di coscienza e di pubblica ricusazione, dalle strutture socio culturali comunemente associate al sacro, di «dimenticare Dio» è espressa, con inarrivabile drammaticità, nelle parole di Tilmann Moser: «Pensavo che tu fossi morto, sepolto, dimenticato quanto meno, o che mi fossi divenuto indifferente.
Una tale delusione sei stato, un tale inganno nella mia vita, che quando a poco a poco, lentamente, tormentosamente trovai in bandolo di tutto, ti voltai le spalle...
A vivere hai continuato invece nella mia struttura psichica: per te volte altissime, troni maestosi, fughe infinite di stanze e di cappelle sono stati edificati. Stavi dentro di me come un veleno, del quale mai il corpo riusciva a liberarsi. Abitavi in me come l'odio che provavo per me stesso. In me ti sei insediato al modo di una malattia difficile da guarire, quando piccolo era il mio corpo e piccola la mia anima. Dell'uno e dell'altra, tutt'al contrario di una destinazione appena un po' più libera, hanno fatto la dimora tua: e che tu prendessi stanza in me, tanto piccolino, mi riempiva d'orgoglio. Ci sono stati anni in cui volevo consacrarti la mia vita, e si svolgevano tra me e te trattative per un patto d'elezione. Già molto presto hai preso a giocare con il mio delirio di grandezza, l'hai nutrito, l'hai fatto crescere su modelli consacrati che mi tenevano dinnanzi agli occhi in nome tuo...
Se riuscirò a dirti come ti sei insediato in me, insediato come una malattia, e come la malattia di te sia cresciuta quasi di là da me stesso, ho speranza di poter guarire tenendomi alla larga da te. Lo so che se mi riuscirò ad espellerti, sarai sino alla mia morte nelle cicatrici che avrai lasciato.
Mi morderanno quelle cicatrici, e anche quando ti avrò amputato via da me, per molto tempo continuerai a tormentarmi con i dolori allucinatori che i mutilati provano là dove era l'arto perduto...»,29 «... ma cosa subentrerà al tuo posto, che cosa colmerà le enormi voragini che avevi disseminato?»30
L'ateismo in definitiva ha goduto oltremodo dei favori della contingenza del suo ruolo storico di paladino della libertà dell'uomo schiavo delle teoetotomie, senza possedere in sé alcuna capacità di rendere una visione fondamentalmente positiva all'uomo. Rappresenta, sicuramente, un'alternativa più che positiva nei confronti delle teoetotomie, un contributo non indifferente al dibattito filosofico sul teismo, ma filosoficamente parlando, e pur ponendosi su di una posizione assolutamente non di parte come quella agnostica, perde nettamente il confronto con l'ideale religioso.
Le valutazioni filosofiche che procedono dalla metafisica religiosa, la peculiare prassi socio economica alla stessa riconducibile, l'ineguagliabile capacità di focalizzare positivamente in termini assoluti la composita natura umana, di «stabilizzare» armonicamente la figura ontologica dell'essere umano in una duplice dimensione immanente e trascendente, relega senza scampo l'ateismo ad un ruolo sicuramente minore, più aderente e consono alla sua limitata valenza filosofica, ai suoi reali contenuti, alle carenze del suo voler rappresentare un'alternativa «positiva» all'intero polo teistico, specialmente in relazione all'ideale religioso.
È possibile allora un'inedita comprensione storica del ruolo filosofico sociale dell'ateismo, del rilievo da questo assunto nel panorama culturale e politico della cultura occidentale a partire dalla metà del secolo scorso. Un'inedita valutazione alla luce della quale l'ateismo, in particolar modo per la forza ed il rilievo della sua rivoluzionaria affermazione nella nostra cultura, viene pur sempre inteso, nel quadro di una contrapposizione dialettica, quale fisiologico, inevitabile rigetto da parte dell'uomo, del suo intelletto, della sua sete di libertà nei confronti delle oscurantistiche ed opprimenti dottrine teoetotomistiche. Una contrapposizione divenuta socialmente e culturalmente rilevante in concomitanza della maturazione del pensiero scientifico, e della susseguente critica scientifica delle dottrine teoetotomistiche, dei loro dogmi, da un lato e, dall'altro, dall'affermazione e diffusione dell'etica e del modo di produzione capitalistici, dello sviluppo della corrente di pensiero socialista, della dialettica marxista da cui verrà la più feroce critica socio economica del capitalismo e del teismo.
Per questi contenuti l'ateismo moderno può esser inteso quindi sotto il profilo più squisitamente filosofico ed umanistico, come il principio a cui si è affidato il compito di spezzare le pastoie ideologiche delle teoetotomie occidentali, ormai insopportabili per la coscienza e la crescita umanistica e culturale dell'uomo; in subordine, come contingente risposta all'esigenza etica e culturale di disporre di una base teorico filosofica consona alle dinamiche esigenze del feroce, impietoso ed aggressivo capitalismo moderno.
Ma a prescindere da questi meriti, in particolare a causa degli orrori che ha saputo albergare nelle proprie fila, l'ateismo ha fondamentalmente fallito come movimento sociale, per palese inadeguatezza davanti alle istanze che concretamente sono alla base del consorzio sociale e dell'autocoscienza umana.
Esso pertanto ha forse ottenuto dalla contingenza storico culturale della sua azione rivoluzionaria in chiave socio economica, del suo porsi come alternativa socio politica ad uno status quo infarcito di contenuti psico sociologici teoetotomistici, un riconoscimento ben maggiore di quello ascrivibile alle potenzialità della sua intrinseca valenza filosofica, cosmologica ed umanistica (notare in particolare come il retaggio psichico delle «sindromi teoetotomistiche» risulti invariabilmente insuperato ed irrisolto sia nella prassi atea sia nel pensiero dei padri dell'ateismo basti pensare a C. Jung e Freud, agli scritti di Nietzsche!).
Quest'affermazione sociale dell'ateismo dunque, potrebbe essere compresa come affermazione «teoetodipendente» dello stesso. L'ateismo moderno sarebbe dunque un fenomeno socio culturale profondamente condizionato nel suo divenire e nella sua accettazione dai contenuti propri del confronto filosofico condotto contro i pre esistenti sistemi teoetotomistici a cui è cercato di subentrare. Questo conduce allora a proporre un diverso divenire delle opzioni filosofiche del teismo e dell'ateismo. Vedi Fig. 1.
Fig. 1
Lo schema permette di porre in rilievo la sequenza storico culturale in cui le diverse opzioni filosofiche hanno avuto risalto nella storia dell'uomo, nei modelli socio culturali ed economici succedutisi nel tempo.
In esso non si tenta di evidenziare la differenziazione filosofica insita tra le varie opzioni quanto la reciproca collocazione storica e culturale, i caratteristici agganci a particolari realtà socio economiche e culturali.
Nel prospetto la linea continua sta a demarcare la differenziazione socio economica tra società classiste e preclassiste e contemporaneamente tra le modalità del teismo religioso e quello teoetotomistico. A questa importante linea di demarcazione, dal duplice significato, si affiancano altri due tratteggi.
Quello inferiore, linea e doppio punto, sta ad indicare l'accesso cognitivo culturale alle formulazioni cosmologiche teistiche nel corso dell'evoluzione umana e, parallelamente, il superamento della fase atea «pre-teistica» nella quale tale opzione non può intendersi come «alternativa» al teismo, quanto univoca espressione dello stadio evolutivo culturale dell'uomo precedente all'acquisizione intellettuale del sovrannaturale.
Il tratteggio superiore, tratto e punto singolo, rappresenterebbe invece il superamento della filosofia teoetotomistica, comunemente inteso, seppur erroneamente, come rifiuto dell'intero teismo, condotto dall'ateismo «teoetodipendente». Tale dinamica si colloca comunque all'interno dell'universo delle società classiste, statali, autoritaristico sessuo repressive.
L'ultimo tratteggio distingue sì tali antitetiche opzioni metafisiche ma nel contempo si pone all'interno dell'universo delle società classiste, ove entrambe condividono sia un comune aspetto socio economico sia, principalmente, tratti psichici propri del carattere sociale tipico di tali società; caratterizzazioni riconducibili alla cosiddetta «sindrome teoetotomistica». Le due modalità di espressione delle società classiste condividono dunque una caratterizzazione psichica molto simile; ciò condiziona dunque l'operato di quella figura di Homo s. s. aeconomicus, ateo, di cui si diceva. L'unica contrapposizione psichica e di etica socio economica realmente proponibile risulta a questo punto essere solo ed esclusivamente quella dell' Homo s. s. religiosus, essendo la realtà dell'ateismo pre religioso ormai irrimediabilmente superata.31
Ciò si ottiene con l'ultimo passo, l'avvento dell'agnosticismo radicale o se si vuole di un teismo religioso. Solo queste ultime figure infatti, a prescindere da ogni presa di posizione in merito alle originari tematiche, possono porsi come radicale alternativa e conseguentemente condurre ad una definizione «nuova» del fatto economico, del «Fine Ultimo», in definitiva ad una realtà socio economica realmente alternativa a quella ortodossa.
Solo con una modalità religiosa o con un agnosticismo radicale capace di fare opportunamente «epoché» nei confronti della questione teismo/ateismo e delle tematiche ad esso connesse, ma ancor più superando radicalmente la «sindrome teoetotomistica» nella misura in cui riesca filosoficamente a condurre una revisione del teismo fondata sulla validità dell'ipotesi religiosa in sostituzione delle teoetotomie, si può porre dunque quella base laica comunque simile alla prassi religioso capace di unificare in modo razionale ogni singolo proposito in un «Fine ultimo» radicalmente diverso ed inedito, ed innanzi tutto laico, sulla base del quale edificare finalmente una società nuova, meno rivolta ad eccessi socio economici insostenibili e niente affatto lacerata da schizofreniche istanze ideologiche.
E l'esistenza di uno spazio di manovra ampio ed efficace per quest' intento è etnologicamente desumibile anche dall'osservazione delle società religiose conosciute, le quali, seppur con contenuti culturali meno evoluti di quelli propri della nostra cultura e seppur attestate a livelli di sussistenza molto più scarni ed essenziali, realizzano approcci individuali e comunitari alle risorse non rivolti all'uso intensivo ed estensivo delle stesse, ad una prassi economica esasperatamente rivolta al profitto, all'accumulo, quanto ad un cosciente sottosviluppo, ad un approccio armonico, misurato, umanistico, profondamente coerente alle dinamiche ecologiche: in una parola, razionale.
La conclusione più estrema dunque del nostro discorso si conficca, come, una freccia, di nuovo, ossessivamente, nell'animo umano, nella sua matrice psichica ed intellettuale, conscia ed inconscia, dove d'altronde tutto il messaggio evangelico insiste senza tregua. Intorno all'uomo orbita l'intera novella evangelica, il senso dell'insegnamento di Gesù, di quel suo discorso, che giust'appunto viene alla mente, dell'insegnamento del puro o dell'impuro: «Quello che esce dall'uomo, ecco ciò che contamina l'uomo.» (Mc 6, 20).
Rivolgere a questa figura la nostra attenzione, anche quando sono in ballo aspetti materiali quali la determinazione di un'appropriata prassi economica, la gestione di una comunità, l'allocazione delle risorse, del tempo e dello spazio, dell'attività e delle capacità dell'individuo, non vuol dire disconoscere le distinte problematiche, le relazioni prettamente tecniche, puntuali, che di volta in volta si vanno a presentare, quanto agganciare costantemente ciascuno di tali aspetti ad un «Uomo» artefice delle sue esigenze, delle sue manifestazioni, della sua dignità.
D'altro canto la soluzione di tali problemi risulta di per sé niente affatto trascendente, bensì possibile tramite la semplice attuazione di conoscenze facilmente acquisibili dall'uomo, come dimostrano gli interessanti, estesi contenuti sapienziali in ordine a problemi demografici, ecologici, etologici, posti in opera sia da culture «primitive» come dei cacciatori raccoglitori odierni, sia in realistici progetti attuabili con ben altro risalto grazie alle attuali capacità scientifiche e tecnologiche delle società moderne.
La nostra cultura dispone più che sufficientemente di strumenti conoscitivi e tecnologici idonei ad affrontare e risolvere, in modo consono alla dignità umana ed alla loro specifica natura, problemi di ordine demografico, economico, politico etc. Le nostre conoscenze ecologiche sono in grado di far valutare a sufficienza le problematiche connesse ad un uso intensivo ed estensivo delle risorse ambientali, l'impatto ambientale dovuto ai tassi di sfruttamento ed estrazione connessi con un certo sviluppo economico e sociale, i problemi di riciclaggio dei beni prodotti, delle materie prime, i problemi di ordine sanitario e sociale relativi a determinati tassi di sviluppo demografico, ma non meno di valutare, ed ovviare, gli squilibri economico sociali susseguenti ad un determinato ordine politico ed economico mondiale, di opporsi all'alienazione dell'individuo dovuta a particolari contesti esistenziali.
Ogni studioso di problemi demografici, politici, economici ed ambientali è in grado di tracciare modelli socio economici miranti, più che ad ottenere la massimizzazione del mero profitto, del solo sviluppo economico, ad un lungimirante utilizzo delle risorse non rinnovabili o rinnovabili sul lunghissimo periodo quali le risorse petrolifere, di determinare politiche agricole ed industriali attente ai problemi di rispetto e conservazione della flora e della fauna dei vari ecosistemi, dell'intera biosfera.
Attività rivolte ad un uso di forme energetiche rinnovabili, di tecnologie ecologicamente valide, di valutare «globalmente» e non più su di uno spezzone limitato del ciclo economico ed ecologico, l'impatto di innovazioni tecnologiche e variazioni demografiche, di differenti livelli di consumo, di prevedere in anticipo gli effetti poi difficilmente reversibili, dovuti all'attuazione di progetti socio economici su larga scala, in grado d'accentuare pesantemente l'impatto antropico di una determinata comunità.32
Qualsiasi antropologo e sociologo è in grado di sottolineare l'esigenza di determinare e controllare lo sviluppo delle varie società in modo tale da garantie un appropriato «spazio di fuga» per le minoranze etniche del nostro pianeta, di assicurare anche alle società «minori», meno efficaci economicamente, il diritto ad una loro dignitosa nicchia ecologica, ad una loro dignità ed identità culturale.
Per ottenere ciò non occorre, come già detto, l'attuazione di nuovi, inediti principi economici, bensì prendere in considerazione una diversa figura di «Uomo», diversi «Fini ultimi», al fine di costruire attorno ad esso una società nuova, che non enfatizzi ma inibisca lo sviluppo della competizione ed aggressività culturale ricorrendo alle conoscenze già disponibili33 attingendo, finalmente, «anche» da questa nuova interpretazione e concezione dell'«Uomo», restata travisata ed inascoltata per 2.000 anni in quei quattro testi, così piccoli e così sconcertanti, immensi.
Note:
1 George. Devereux, Op. Cit., [1978].
2 Premm Bocklinger, Teologia morale per l'uomo d'oggi, Ed. Paoline, 1973, pag. 329; C.C.C., Op. Cit. [1992], par. 2266, pag. 557.
3 Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori Editore, Milano, 1975, pag. 187; Dizionario enciclopedico di teologia morale, Ed. Paoline, 1981, pag. 748.
4 Roberto Verolini, Il concetto di anima/mente umana alla luce della teoria evoluzionistica della conoscenza: aspetti epistemologico scientifici ed implicazioni metafisiche, The Fifty-Fifth International Phenomenology Congress, From the Animal Soul to the Human Mind, Nijmegen, The Netherlands, 2005.
5 Una rapida rassegna del tema, di per sé smisurato, potrebbe essere rappresentata dai seguenti autori ed opere: Dawkins Richard, Il Fenotipo esteso, Zanichelli Bologna, 1986; Korner Melvin, L'ala impigliata. I condizionamenti biologici dello spirito umano. Feltrinelli, Milano, 1984; Changeux Jean-Pierre, L'uomo neuronale, Feltrinelli, Milano, 5 a ed. 1996; Damasio R. Antonio, L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano, 1995; Edelman M. Gerald, Sulla materia della mente. Adelphi, Milano. 1993; Donald Merlin, Op. Cit., [2004]; Lorenz Konrad, L'altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza, Adelphi, Milano, 1974; Popper R. Karl, Verso una teoria evoluzionistica della conoscenza, Armando Armando, Roma, 1994.
6 Per inciso queste istanze iniziano sempre più ad essere prese in considerazione anche a livello giuridico: negli stati uniti sono sempre più le controversie legali in cui gli avvocati delle distinte parti iniziano a fare esplicito riferimento a queste scoperte, ponendo sempre più urgentemente una revisione dei dettami giuridici in vigore.
7 Marwin Harris, Antropologia Culturale, Zanichelli, Bologna, 1990, pag. 180 e ss.
8 Benedict R., Modelli di cultura, Feltrinelli, Milano, 1970. pag. 117.
9 Margaret Mead, Sesso e temperamento in tre società primitive, Garzanti, Milano 1967, pag. 158.
10 Margaret Mead, Op. Cit., [1967] pag. 158-159.
11 R. E. Leakey, R. Lewin, Origini. Nascita e possibile futuro dell'uomo, La terza, Bari, 1979, pag. 208-237; I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, Boringhieri, 1984.
12 Herman E. Daly, Lo stato stazionario, Sansoni, Firenze, 1981, pag. 28.
13 E. P. Odum, Principi di ecologia, Piccin Editore, Padova, 1973, pag. 37 e ss.; Jeremy Rifkin, Ted Howard, Entropia, la fondamentale legge della natura da cui dipende la qualità della vita, Mondadori Ed., 1982; pag.43 e ss..
14 Enzo Tiezzi, Nadia Marchesini, Che cos'è lo sviluppo sostenibile? Donzelli Ed., Roma, 1999; Mauro di Meglio, Lo sviluppo senza fondamenti, Asterios Ed. Treste, 1997; Susan Gorge, Come muore l'altra metà del mondo: le vere ragioni della fame mondiale, Feltrinelli Ed., Milano, 1978.
15 Henri Perroy, Europa e terzo mondo, Ed Coines, Roma, 1973; Herman E. Daly, Lo stato stazionario, Sansoni, Firenze, 1981; Lester R. Brown, IL 29° giorno, Sansoni, Firenze, 1978; E. K. Hunt, H. J. Sherman, Economia politica, Boringhieri, 1978, pag. 31-69, 130-142; Zorzoli G. B, La formica e la cicala, Editori Riuniti, Politica, Roma, 1982. Jeremy Rifkin, Ted Howard, Op. Cit., [1982].
16 Herman E. Daly, Op. Cit., [1981], pag. 44;
17 Ibidem, pag. 40 e ss. Herman E. Daly, John B. Cobb JR, Un'economia per il bene comune. Un nuovo paradigma economico orientato verso la comunità, l'ambiente ed un futuro ecologicamente sostenibile, RED Ed. Como, 1994.
18 Letture da Le Scienze, La biosfera, 1976, pag. 41; Letture da Le Scienze, Contro la fame. L'alimentazione nel mondo, 1978; Sandro Pignatti, Bruno Trezza, Assalto al pianeta, Attività produttiva e crolo della biosfera, Bollati Bioringhieri, Torino, 2000.
19 E. P. Odum, Op. Cit., [1973].
20 Friedrich W. Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi 54, Milano, 1989, pag. 129.
21 Dario Zarda, Sociologia della religione, U. Hoepli, Milano, 1969, pag. 105-106.
22 Si consideri ad esempio i riferimenti al «Cosmismo» russo, una fumosa metafisica in auge nel periodo della rivoluzione bolscevica in cui desideri d'immortalità, scenari escatologico millenaristici ed istanze occultistiche confluirono in una vaneggiante accezione iniziatica, positivistico materialistica della vita umana e della storia. Vedi Giorgio Galli, La politica e i maghi, Milano, Rizzoli, 1995.
23 Marwin Harris, Op. Cit., [1990], pag. 268.
24 È chiaro come, davanti alle modalità con cui i movimenti animistico pagani o le istituzioni teoetotomistiche che questi sistemi socio politici ebbero ad affrontare all'alba della loro origine e nel corso dei vari movimenti rivoluzionari che condussero al potere le nuove élite di governo, il loro avvento assunse alla luce degli altri popoli le forme dell'avvento di istanze antitetiche, l'impeto di venti rivoluzionari incentrati sulle mete più razionali e positive dell'evoluzione umana. Per certi versi quest'ultimo aspetto è pienamente comprensibile ma insufficiente a cambiare la negativa valutazione del il contenuto repressivo poi identicamente espresso da questi regimi, a far distogliere lo sguardo dal loro inopinato ed inevitabile fallimento.
25 Hans Kung, Vita eterna?, A. Mondadori Ed., Milano, 1983, pag. 216 e ss.
26 Noam Chomsky, Atti di aggressione e di controllo. Una voce contro, Marco Tropea Ed., Milano, 2000.
27 Max Weber, Op. Cit., [1965].
28 Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Di Comunità Ed., 1982, pag. 43-122.
29 Tilmann Moser, Avvelenato da Dio, Feltrinelli, 1980, pag. 9-11.
30 Ibidem, pag. 88.
31 A tal pro si vuol ricordare come alcune odierne analisi evoluzionistiche sull'origine delle funzioni cognitive superiori dell'uomo, del linguaggio, sembrino prediligere un'evoluzione neuro cognitiva ed anatomica per tappe, nel corso delle quali l'uomo giunse all' esigenza di un linguaggio moderno specialmente per descrivere e concettualizzare non tanto attività sociali o per l'uso di tecnologie sempre più complesse, quanto alla formulazione e descrizioni degli aspetti puramente culturali, dei primi sistemi di riferimento complessivi dell'individuo e della società, dei rapporti sociali e naturali tra la comunità e la realtà naturale, spesso cristallizzati in modelli mitologici. Questa singolare fase rappresenterebbe un momento decisivo dell'itinerario che condurrà all' Homo sapiens sapiens ed in generale alle odierne capacità cognitive umane. Tale ricostruzione sarebbe comprovata da svariate evidenze, legate sia ad osservazioni etnografico etologiche che inerenti alla natura e funzionamento dei moduli neuro cerebrali a ciò preposti nel corso di studi sui deficit di funzionamento degli stessi in varie condizioni sperimentali. Questa serie di risultati sembra costituire un contributo considerevole, se ulteriormente confermato, alle ipotesi qui proposte. Vedi in proposito Donald Merlin, Op. Cit., [2004].
32 Herman E. Daly, Op. Cit., [1981]; Lester R. Brown, Op. Cit., [1978]; Jean Dorst, Prima che la natura muoia, Labor Edizioni, Milano, 1969; Zorzoli G. B, Op. Cit., [1982].
33 Edward O. Wilson, Sulla natura umana, Zanichelli, Bologna, 1980; Erich Fromm, La rivoluzione della speranza, Bompiani, Milano, 1982; Konrad Lorenz, L'aggressività, Il saggiatore, Milano, 1969; E Fromm, Op. Cit., [1975]; R. E. Leakey, R. Lewin, Op. Cit., [1979]; I. Eibl-Eibesfeldt, Op. Cit., [1984].
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